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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
24.07.2018 Donald Trump avverte l'Iran: basta con le minacce o reagiremo
Commenti di Paolo Mastrolilli, il cambio di tono di Mattia Ferraresi sul Foglio (ma ancora non basta)

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Paolo Mastrolilli - Mattia Ferraresi
Titolo: «Trump avverte Rohani: basta con le minacce o reagiremo - Massima pressione»
Riprendiamo oggi, 24/07/2018, dalla STAMPA a pag.17 con il titolo "Trump avverte Rohani: basta con le minacce o reagiremo", il commento di Paolo Mastrolilli; dal FOGLIO a pag.1, con il titolo "Massima pressione", il commento di Mattia Ferraresi, preceduto dal nostro commento.

Ecco gli articoli:

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Donald Trump

La Stampa - Paolo Mastrolilli: "Trump avverte Rohani: basta con le minacce o reagiremo"

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Paolo Mastrolilli

Donald Trump attacca l’Iran via Twitter, promettendo «conseguenze che pochi hanno sofferto finora nella storia», se Teheran minaccerà ancora gli Usa. Nello stesso tempo il segretario di Stato Pompeo e il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton affondano i colpi contro gli ayatollah, indicando che dietro c’è una strategia condivisa dall’amministrazione, che in parte ricorda quella adottata con la Corea del Nord, e in parte sembra indicare la strada del cambio di regime.
Domenica, incontrando i diplomatici del suo governo, il presidente Rohani aveva lanciato un avvertimento: «L’America dovrebbe sapere che la pace con l’Iran è la madre di tutte le paci, e la guerra con l’Iran e la madre di tutte le guerre». Il capo dello Stato si riferiva in particolare alle attività di Washington dopo la denuncia dell’accordo nucleare, che appaiono finalizzate a scuotere la stabilità sociale della Repubblica islamica: «Tu non sei in condizione di incitare la nazione iraniana contro la sicurezza e gli interessi dell’Iran. Non giocare con la coda del leone». Già ieri mattina la risposta di Trump, via Twitter: «Al presidente iraniano Rohani: non minacciare mai più gli Stati Uniti, oppure soffrirai conseguenze che pochi hanno sofferto prima nella storia. Noi non siamo più un paese che accetta le tue parole demenziali di violenza e morte. Sii cauto!». Il messaggio era in lettere maiuscole, per sottolinearne la forza.

La minaccia dei missili
Per l’agenzia Irna l’avvertimento del capo della Casa Bianca è una «passive reaction», cioè la reazione passiva di un debole. Poco dopo il generale della Guardia repubblicana Gholam Gheibparvar ha detto che gli Usa «non si azzarderanno» ad attaccare il suo paese, perché l’Iran possiede missili in grado di colpire tutto il Medio Oriente, e controlla anche una parte dello stretto di Hormuz, da dove passano le petroliere del Golfo Persico.
Il tweet di Trump però non è stato un atto isolato, come ha confermato Bolton: «Il presidente mi ha detto che se l’Iran farà qualunque cosa negativa, pagherà un prezzo che pochi Paesi hanno pagato prima». Sempre domenica, Pompeo aveva pesantemente attaccato Teheran: «Il livello di corruzione e ricchezza tra i leader del regime dimostra che l’Iran è guidato da qualcosa che somiglia più alla mafia, che non ad un governo». Quindi ha accusato Rohani e il ministro degli Esteri Zarif di essere solo «la faccia pulita degli ayatollah», aggiungendo di essere pronto a sanzionare i massimi livelli del regime, e aiutare la popolazione a reagire. Una retorica che ricorda quella usata per spingere la Corea del Nord alla trattativa, ma va anche oltre, indicando sullo sfondo l’obiettivo del cambio di regime.

 

 

 IL FOGLIO - Mattia Ferraresi: "Massima pressione"

Mattia Ferraresi per la prima volta sul Foglio non attacca Donald Trump. Alleluia! Apprezziamo il cambiamento, anche se continua a utilizzare espressioni da evitare. In riferimento a Trump, infatti, Ferraresi scrive di "tweet furiosi", "ha aggredito il presidente dell'Iran", "un infuocato messaggio": parole che non spiegano i fatti, ma servono esclusivamente a demonizzare il Presidente degli Usa, come il Foglio è (era?) abituato a fare sin dalla elezione a presidente.

Ecco l'articolo:


Mattia Ferraresi

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Hassan Rohani

New York. A conclusione di un fine settimana di tweet furiosi sulla caccia alle streghe dal suo golf club in New Jersey, Donald Trump ha aggredito il presidente dell’Iran, Hassan Rohani, con un infuocato messaggio tutto in maiuscolo: “Mai, mai minacciare gli Stati Uniti o pagherete conseguenze che pochi nella storia hanno sofferto prima. Non siamo più un paese che sopporta le vostre parole dementi di violenza e morte. State attenti!”. Le parole “dementi” che hanno scatenato le ire del presidente americano sono quelle pronunciate da Rohani in un’intervista al network di regime Irna, in cui diceva che gli Stati Uniti devono capire che “la guerra con l’Iran è la madre di tutte le guerre e la pace con l’Iran è la madre di tutte le paci”. Il presidente ha concluso con tono minaccioso: “Non giocate con la coda del leone, ve ne pentirete in eterno”. La veemente reazione di Trump è parte della risposta coordinata di un’Amministrazione piena di falchi anti iraniani che hanno messo i rapporti con Teheran anche al centro dei dialoghi con Vladimir Putin, protettore del regime degli ayatollah. Cosa si siano detti Trump e Putin a Helsinki nel faccia a faccia senza delegazioni rimane un mistero, ma di certo propiziare l’allontanamento fra Russia e Iran è una priorità dell’Amministrazione, resa ancora più urgente dall’insistenza di Israele e Arabia Saudita, gli alleati più ascoltati. Il segretario di stato Mike Pompeo ha fatto due giorni fa un appassionato discorso alla Reagan Foundation, in California, davanti a una platea di iranianiamericani, nel quale si è rivolto direttamente al popolo iraniano: “Gli Stati Uniti vi ascoltano, vi sostengono e sono con voi”.

Da mesi in Iran va in scena una rivolta popolare a bassa intensità, inizialmente seguita e poi abbandonata dai riflettori dei grandi media internazionali, e Pompeo ha confermato che il governo sostiene e incoraggia i sommovimenti popolari con una politica di “massima pressione” sulla leadership iraniana che è in netto contrasto con le prescrizioni della dottrina Obama: il presidente si era rifiutato nel 2008 di incoraggiare l’Onda verde contro l’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad e aveva teorizzato la necessità di non interferire negli affari interni iraniani per poter negoziare un accordo sulla proliferazione nucleare. Il deal è stato siglato, con enormi resistenze anche all’interno del Partito democratico americano, ed è ben presto stato fatto saltare da Trump, assecondato dalla squadra di falchi di cui si è circondato. Pompeo ha esordito a maggio nel suo ruolo di capo della diplomazia americana con un discorso pubblico di inusitata aggressività sul regime iraniano, sostenendo apertamente l’ipotesi di un regime change. Un alleato di ferro su questo fronte è John Bolton, consigliere per la Sicurezza nazionale che dopo l’esplosione di Trump via Twitter ha confermato che – fatto non scontato – si tratta di una scelta strategica condivisa: “Ho parlato con il presidente negli ultimi giorni e mi ha detto che se l’Iran farà qualunque cosa di sbagliato pagherà un prezzo come nessuno lo ha mai pagato”. Pompeo nel suo discorso ha attaccato la Guida suprema, Ali Khamenei, che ha “un fondo occulto di 95 miliardi di dollari” grazie al quale tiene insieme un regime ai limiti del collasso e ha detto che l’obiettivo finale di questa nuova fase strategica è quello di “garantire a ogni iraniano la qualità della vita di cui godono gli iranianiamericani”. Ha anche mobilitato una potenziale coalizione: “Chiediamo a ogni nazione che non ne può più del comportamento distruttivo della Repubblica islamica di unirsi alla nostra campagna. Questo vale specialmente per i nostri alleati in medio oriente e in Europa, popoli che sono stati a loro volta terrorizzati dalle attività violente del regime per decenni”. Il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, è stato naturalmente il primo ad aderire all’appello, magnificando la “dura posizione” presa da Trump e mettendosi sulla scia di Pompeo nel distinguere fra la leadership fanatica e il popolo oppresso che va sostenuto nel suo dissenso; l’Arabia Saudita da decenni sostiene la posizione articolata dal segretario di stato. Nell’equazione geopolitica sfugge però il non secondario fattore russo.

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