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Il Giornale - Corriere della Sera Rassegna Stampa
15.05.2018 Gerusalemme e Gaza: i commenti che informano
Analisi e intervista di Fiamma Nirenstein al generale Yossi Kuperwasser, commento di Yossi Klein Halevi

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein - Yossi Klein Halevi
Titolo: «'Il grande giorno' di Gerusalemme. Ma a Gaza è rivolta: strage di palestinesi - 'Grazie all'America la realtà ha vinto sulla propaganda' - Il diritto (negato) all'identità»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 15/05/2018, a pag. 14, con il titolo " 'Il grande giorno' di Gerusalemme. Ma a Gaza è rivolta: strage di palestinesi", l'analisi di Fiamma Nirenstein; a pag. 15, con il titolo 'Grazie all'America la realtà ha vinto sulla propaganda', l'intervista di Fiamma Nirenstein al generale Yossi Kuperwasser; dal CORRIERE della SERA, con il titolo "Il diritto (negato) all'identità", il commento di Yossi Klein Halevi.

Ecco gli articoli:

Il Giornale - Fiamma Nirenstein: " 'Il grande giorno' di Gerusalemme. Ma a Gaza è rivolta: strage di palestinesi"

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Fiamma Nirenstein

Gerusalemme Fare storia: il popolo ebraico è specializzato in questo soggetto specialmente quando si tratta di Gerusalemme. David, Salomone, i babilonesi, gli antichi romani, i greci, e poi di nuovo gli ebrei. La lotta è stata dura per il popolo ebraico. Ma ieri è stato un altro grande giorno per l'antichissimo popolo di Israele e la sua capitale dove tutto è successo. E, nonostante il palcoscenico fosse girevole e l'attenzione collettiva si spostasse spesso sul confine con Gaza dove ci sono stati 55 morti e più di 2.700 feriti (il vicino Egitto ha aperto i suoi ospedali per curarli e gli Emirati hanno sbloccato 5 milioni di dollari), ieri il quartiere modesto e lievemente remoto di Talpiot ha fatto storia. Qui si trova l'ex consolato degli Stati Uniti, da ieri Ambasciata Americana a Gerusalemme. A dicembre Trump l'ha stabilito, solo cinque mesi dopo l'ha realizzato, come ha detto il suo genero Jared Kushner, con puntualità e coraggio inedito. Ivanka Trump ha scoperto la nuova insegna blu con lo stemma e il nome del presidente Trump inciso per i posteri nella pietra di Gerusalemme. Con lei il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, un vero alter ego del presidente. Per Israele è stato un momento fondamentale, una specie di nozze d'oro nutrite di reciproco entusiasmo con il Paese il cui presidente Truman riconobbe lo Stato d'Israele 70 anni fa, 11 minuti dopo che Ben Gurion l'ebbe proclamato. «E poi si pentì di averci messo troppo» come ha detto emozionato aprendo la cerimonia David Friedman, l'ambasciatore americano. Netanyahu ha riconosciuto l'impegno di Friedman stesso nel realizzare quello che per lui, ha detto, era un sogno da vent'anni: essere il primo ambasciatore degli Usa a Gerusalemme. È stata una parata di gioia di fronte a 800 ospiti seduti in un teatro costruito per l'occasione, 250 membri della delegazione americana, personaggi di primaria importanza come Jared Kushner, consigliere di Trump e marito di Ivanka; c'era anche il vice segretario di Stato John Sullivan, l'incaricato per il Medio Oriente Jason Greenblatt, molti membri del Senato e del Congresso, parecchi democratici fra cui Joseph Lieberman, e naturalmente da parte israeliana oltre a Netanyahu anche il presidente della Repubblica Reuven Rivlin, membri della Knesset, del governo, dell'opposizione, del rabbinato e anche del mondo cristiano che è stato un grande alleato del passaggio nella Città Santa. Il punto di Netanyahu e degli altri israeliani è stata la storicità del momento, il riconoscimento di una verità indiscutibile, negata pretestuosamente o ignorata per motivi opportunistici (cosa che anche ieri parte dell'Ue ha seguitato a fare) e invece scolpita per sempre nella storia ebraica: Bibi ha ricordato quando sulla stessa altura dove sorge il consolato, ora ambasciata, correva a tre anni col fratello di sei anni Yoni, ed era proibito allontanarsi per paura degli agguati o dei rapimenti. Ecco, ha detto, invece adesso è qui l'Ambasciata del Paese più amico del mondo, e ha ringraziato Trump. Il suo discorso di due minuti ha indicato il significato che il presidente vuole dare alla sua mossa: da una parte un segnale di amicizia immortale, di realizzazione dovuta di una promessa; dall'altra l'apertura di una fase in cui si renda possibile una pace coi palestinesi basata sulla realtà, e sui vantaggi di cui i palestinesi potrebbero godere. Kushner è tornato su questo punto, parlando di valori condivisi, specie quello della libertà; presto è probabile che gli Usa presentino il piano di cui si parla da tempo e di cui Abu Mazen al momento non vuol sentir parlare. Nel frattempo, a Gaza la situazione ha raggiunto il calore bianco: Hamas ha mobilitato non i centomila che aveva annunciato, ma circa 50mila persone, anche donne e bambini, spingendoli al confine con Israele. L'intenzione fin dall'inizio è stata quella di provocare scontri definiti dall'esercito «molto violenti» per penetrare oltre il filo spinato, cosa che sarebbe ovviamente foriera di attentati e violenze sul terreno israeliano, nelle case, per le strade, nei kibbutz. I drappelli d'attacco erano formati almeno per il 50 per cento, secondo l'esercito, da membri di Hamas, e si sono avvicinati con cesoie, armi, bombe molotov mentre venivano bruciati copertoni per coprire i gruppi col fumo. L'esercito li ha fermati, e purtroppo i morti che Hamas cercava per contrastare l'effetto internazionale del riconoscimento di Gerusalemme toccano un numero molto elevato.

Il Giornale - Fiamma Nirenstein: 'Grazie all'America la realtà ha vinto sulla propaganda'

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Yossi Kuperwasser

Il generale Yossi Kuperwasser è stato il capo del settore ricerche dell'Intelligence Militare dell'Esercito israeliano e il Direttore Generale del Ministero per gli Affari Strategici. Oggi senior ricercatore del Jerusalem Center for Public Affairs, la sua fama internazionale conduce esperti e politici di tutto il mondo a consultarlo su ogni soggetto legato alle strategie antiterroristiche nel mondo. Gli abbiamo chiesto un parere, nel giorno in cui gli Usa riconoscono Gerusalemme capitale dello Stato d'Israele.

Il generale Yossi Kuperwasser è stato il capo del settore ricerche dell'Intelligence Militare dell'Esercito israeliano e il Direttore Generale del Ministero per gli Affari Strategici. Oggi senior ricercatore del Jerusalem Center for Public Affairs, la sua fama internazionale conduce esperti e politici di tutto il mondo a consultarlo su ogni soggetto legato alle strategie antiterroristiche nel mondo. Gli abbiamo chiesto un parere, nel giorno in cui gli Usa riconoscono Gerusalemme capitale dello Stato d'Israele.

Colonnello, perchè in definitiva è così importante, così fondamentale che l'ambasciata americana sia stata trasferita a Gerusalemme? Non erano già ottimi i rapporti con Trump? Non vi sentivate abbastanza sicuri della vostra capitale? «Noi non abbiamo mai avuto nessun'altra capitale dall'inizio della storia di Israele, anzi dall'inizio della storia ebraica: Gerusalemme è la nostra capitale da 3000 anni, siamo solo tornati a casa. Ed è così evidente, così testimoniato in mille pietre e libri che proprio per questa evidenza negata abbiamo sofferto: a nessun altro popolo è mai stato negato il diritto di decidere quale sia la sua capitale. Oggi finalmente ci sentiamo soddisfatti».

E adesso cos'è accaduto? «Adesso la realtà restituisce alla storia il suo ruolo, gli Stati Uniti hanno portato la questione sul palcoscenico della realtà, e questo ci riempie di un quieto senso di soddisfazione di cui siamo ovviamente molto grati al presidente Trump».

In realtà non è stato Trump a promettere per primo che Gerusalemme sarebbe stata riconosciuta: la decisione è del 1995, quando Clinton era presidente. Poi tutti i presidenti americani, Bush, Obama, hanno promesso e non hanno mantenuto. Perché? «Perché i palestinesi insieme al mondo arabo hanno fortificato con la propaganda la loro narrativa, che si è giovata dall'immensa menzogna che gli ebrei si siano inventati il loro rapporto storico con Gerusalemme, ciò che naturalmente è ridicolo. L'altro aspetto è la minaccia di una rivoluzione gigantesca, una guerra per Gerusalemme come luogo santo per l'islam. Non è accaduto, e non accadrà. Le dinamiche nel mondo arabo sono cambiate, e così i rapporti di Israele con buona parte di esso».

Che cosa porta questo riconoscimento che prima non c'era? «Una cosa fondamentale per ogni sviluppo politico positivo: un senso di realtà. Gerusalemme è la capitale dello Stato d'Israele e non potrebbe esser diversamente».

I palestinesi vogliono che sia la loro capitale. «No, questo è solo un punto del loro no allo Stato ebraico. Gerusalemme è per loro il simbolo della negazione della nostra presenza complessiva qui».

Ma gli arabi abitano parte di Gerusalemme. «Certo, lo sappiamo bene e si deve onorare questa realtà: Trump peraltro ha detto che il riconoscimento non nega affatto uno sviluppo futuro che porti al tavolo di pace e stabilisca poi gli accomodamenti sulla base anche di questa realtà».

CORRIERE della SERA - Yossi Klein Halevi: "Il diritto (negato) all'identità"


Yossi Klein Halevi

Mentre gli Usa spostano la loro ambasciata a Gerusalemme, e la tragedia al confine con Gaza si inasprisce, israeliani e palestinesi continuano a contestare i reciproci diritti non solo a quella città, bensì alla loro stessa legittimità. Il 30 aprile, Abu Mazen, capo dell’Autorità palestinese, ha pronunciato un discorso che ha sollevato forti proteste della comunità internazionale nel quale ha addossato le responsabilità dell’Olocausto al «comportamento sociale» degli ebrei. Tuttavia la comunità internazionale ha mancato di cogliere un’offesa ancor più grave: la negazione del diritto del popolo ebraico a mettere radici nelle terre che condivide con il popolo palestinese. La «negazione di Sion», da parte di Abu Mazen, spiega in larga misura come mai il conflitto si sia sempre rivelato così intrattabile. Se Israele incarna solo un progetto colonialista, piuttosto che l’adempimento delle aspirazioni di un popolo a far ritorno a casa, allora è privo di qualsiasi legittimità. Il discorso di Abu Mazen non ha fatto altro che confermare, agli occhi degli israeliani, che anche dovessimo sradicare ogni insediamento e ritirarci all’interno dei confini del 1967 non faremmo un passo avanti verso la pace, perché il vero torto che i palestinesi ci rinfacciano è l’esistenza stessa di Israele. Nei vari colloqui sostenuti nel corso degli anni con molti arabi e palestinesi, mi è stato detto: «Non abbiamo niente contro gli ebrei in quanto minoranza religiosa, voi siete vissuti per secoli nei paesi arabi. Quello che non possiamo accettare è la vostra definizione di popolo, e ancor meno quella di nazione sovrana». Questo rifiuto della legittimità di Israele ignora il fatto che gli ebrei si sono sempre definiti un popolo con una precisa identità religiosa, e hanno sempre ambito a ristabilire la loro sovranità nella patria perduta. I mezzi di comunicazione palestinesi, le scuole e le moschee, non perdono occasione per inculcare il messaggio della negazione. La comunità internazionale ha preferito minimizzare questa negazione della storia ebraica tra i palestinesi. Ma l’impatto sugli israeliani è stato tremendo: la negazione di Sion è uno degli argomenti preferiti della destra israeliana, che dipinge la sinistra come malata di ingenuità. Le cose sarebbero potute andare diversamente. Nei primi anni Novanta, molti israeliani avevano cominciato ad affrontare le disastrose conseguenze che la prolungata occupazione dei territori palestinesi esercitava sulla loro stessa società. Punto di svolta fu la prima Intifada, che cominciò nel 1987. I ragazzi palestinesi che sfidavano con le sassaiole le armi dei soldati israeliani dimostravano che erano pronti al sacrificio per la loro sovranità, proprio come lo eravamo noi. Questa consapevolezza rappresentava una presa di distanza storica dalla negazione israeliana del diritto dei palestinesi a una loro identità nazionale. «La negazione della Palestina» fu riassunta notoriamente da Golda Meir, la quale disse nel 1969 che sotto il mandato britannico erano stati gli ebrei, e non gli arabi, a essere chiamati palestinesi, e che in realtà questa entità chiamata popolo palestinese non esisteva affatto. Questa generale presa di consapevolezza israeliana durante la prima Intifada portò all’elezione del leader del partito laburista, Yitzhak Rabin, come primo ministro nel 1992, cui seguirono gli accordi di Oslo. Quel momento carico di speranze, svanì nel 2000 con la seconda Intifada, quattro anni di attentati suicidi che trasformarono gli israeliani in una nazione di reclusi, timorosi di incontrarsi in luoghi pubblici. Gli israeliani restano convinti che il rifiuto dell’offerta di pace del 2000, da parte delle autorità palestinesi, sia stato la conseguenza inevitabile del rifiuto palestinese del diritto di esistere per Israele. La convinzione che «non ci sono interlocutori» si ripresentò moltiplicata per mille. Israeliani e palestinesi sono invischiati in quello che potrebbe essere definito un «ciclo di negazione» che ha definito la nostra comune esistenza sin dalla creazione di Israele, 70 anni fa. La chiave per metter fine all’occupazione sarà l’apertura di un nuovo dialogo sulla pace tra palestinesi e israeliani. Non solo riguardo i dettagli tecnici degli accordi, ma soprattutto sulle istanze intangibili di legittimità e radicamento di due popoli autoctoni destinati a condividere la medesima terra contesa.
(traduzione di Rita Baldassarre)

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