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Il Giornale - Corriere della Sera - Libero Rassegna Stampa
03.05.2018 Abu Mazen: i commenti che informano
Di Fiamma Nirenstein, Paolo Mieli, Carlo Panella

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - Libero
Autore: Fiamma Nirenstein - Paolo Mieli - Carlo Panella
Titolo: «Abu Mazen antisemita: 'Ebrei causa della Shoah coi loro comportamenti' - L’inquieto maggio in Israele - Per il palestinese moderato Hitler non aveva tutti i torti»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 03/05/2018, a pag. 12, con il titolo "Abu Mazen antisemita: 'Ebrei causa della Shoah coi loro comportamenti' ", il commento di Fiamma Nirenstein; dal CORRIERE della SERA, a pag. 1, con il titolo "L’inquieto maggio in Israele", l'editoriale di Paolo Mieli; da LIBERO, a pag. 10, con il titolo "Per il palestinese moderato Hitler non aveva tutti i torti", il commento di Carlo Panella.

Ecco gli articoli:

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Abu Mazen

Il Giornale - Fiamma Nirenstein: "Abu Mazen antisemita: 'Ebrei causa della Shoah coi loro comportamenti' "

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Fiamma Nirenstein

Ci sono storie che non si vorrebbero raccontare perché l'imbarazzo supera l'interesse e perché contengono una gran dose di ripetitività. È il caso dell'esplosione antisemita di Abu Mazen, che era già stata preceduta da un'uscita analoga un paio di mesi fa, e che come un treno ansimante bofonchia l'anima vera del capo dell'Autonomia Palestinese sin dai tempi in cui nel 1983, all'università di Mosca, scrisse una tesi che negava la Shoah, riduceva il numero dei morti da 6 milioni a uno, addossava la responsabilità agli ebrei stessi, anzi, al sionismo: accusava gli ebrei di essersi accordati con i nazisti perché li perseguitassero, così da metterli in fuga dalla Germania e andassero a colonizzare la Palestina; e gli ebrei, diabolici, avevano fatto questo accordo coi nazisti in modo che il sionismo potesse fiorire, compensati da una fantasmagorica, mai vista, ricompensa in denaro. Un pasticcio concettuale e storico basato sull'ignoranza. Ma al fondo c'è un odio evidentissimo, che lunedì ha messo fuori la testa in un discorso al Consiglio Nazionale Palestinese a Ramallah, e forse c'è anche il desiderio di cancellare la sfera storia, quella di Amin al Husseini, il leader palestinese che fu alleato di Hitler contro gli ebrei. Lui, sì, era nazista. Abu Mazen lunedì a Ramallah ne ha dette tante e tutte disgustose, con due punti focali. Il primo «gli ebrei sono stati massacrati fin dall'undicesimo secolo fino all'Olocausto ogni 10-15 anni. Ma perché questo è accaduto? Non per via della loro religione, ma per il loro comportamento sociale legato a banche e usura». Ovvero, gli ebrei hanno causato la Shoah a causa della loro rivoltante brama di denaro. È un classico: il denaro è il tratto distintivo degli ebrei (oltre al naso, sempre nelle caricature in stile nazista sulla stampa palestinese). Ma basta guardare le foto delle donne, dei bambini, dei vecchi nei campi di concentramento o nelle fucilazioni, o rastrellati in tutta Europa per ritrovare la verità di un popolo intero, soprattutto povero, perseguitato in tutta Europa. Ma Abu Mazen ha la stessa posizione che prese Adolf Eichmann, l'architetto della soluzione finale, in un famoso dialogo del 1957 in cui sosteneva che la Shoah era stata la risposta obbligata a un «sofisticato piano di morte messo in piedi dagli ebrei, o noi o loro». Il secondo punto è l'altro classico, stavolta alla Arafat: il sionismo era in combutta con quei poteri occidentali che vollero colonizzare tramite gli ebrei il mondo arabo. Non c'entra nulla la religione, né la storia ebraica. Cioè: «La storia di una nazione, della fondazione di Israele non è degli ebrei ma dei poteri coloniali. I leader europei volevano creare una presenza straniera per indurre conflitto e divisione fra gli stati arabi. Agli ebrei di tornare a casa non gliene importava niente». E i sionisti si allearono ai colonialisti anche trattando la fuoriuscita degli ebrei dalla Germania perché così avrebbero sospinto l'emigrazione. Strana logica: volevano una patria tanto da vendere tutti i loro fratelli o non gliene importava? Abu Mazen ha continuato a delirare citando un libro di Arthur Koestler in cui racconta la conversione del popolo Khazaro, del nord Europa, all'ebraismo e dice: vedete gli ashkenaziti sono ebrei finti (come Ben Gurion, per capirci). Troppo ridicolo. Di fatto tutti i testi raccontano come il popolo ebraico fosse già una nazione in Israele dal 1.312 avanti Cristo; il suo orgoglio nazionale fu già fastidioso per Babilonesi, Romani, Greci come il suo incessante anelare il ritorno a casa. Se ci chiediamo perché Abu Mazen ha avuto una deiezione così incontinente, la risposta è in due eventi: il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme e le manifestazioni di Hamas a Gaza. Sono due sfide cui il rais risponde con un atteggiamento furioso per mantenere la leadership sul mondo palestinese, fra una predisposizione evidente all'incitamento antisemita connesso alla scelta del terrorismo, e un'apparenza di disponibilità al dialogo e alla trattativa. Sempre, per altro, smentita dai continui rifiuti di cui è fatta la politica palestinese dai tempi di Arafat.

CORRIERE della SERA - Paolo Mieli: "L’inquieto maggio in Israele"

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Paolo Mieli

Attenzione al maggio israeliano. Già domani saremo probabilmente costretti ad assistere al sesto venerdì consecutivo di incidenti lungo la frontiera tra Gaza e Israele. Gli scontri — che hanno già provocato oltre quaranta morti e cinquemila feriti (per i quali le Nazioni Unite hanno stigmatizzato l’«uso eccessivo della forza» da parte di Israele) — si protrarranno fino alla metà del mese di maggio quando, nel «giorno della Nakba» (in arabo «catastrofe», «cataclisma»), potrebbero trasformarsi in qualcosa di più impegnativo. I palestinesi chiamano queste manifestazioni «Grande marcia del ritorno», indetta in ricordo dell’uccisione, nel 1976, di sei loro connazionali che avevano protestato per la confisca di terre. Una «festa pacifica per non dimenticare» la definisce il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, funestata però, a suo dire, da «cecchini israeliani». Israele risponde sostenendo che l’ottanta per cento degli uccisi lungo la frontiera erano «membri attivi o fiancheggiatori di gruppi terroristici». Abu Mazen, pur senza prendere pubblicamente le distanze, si è mostrato perplesso sulle iniziative prese a Gaza. Poi, però, per rimettersi in sintonia con i tempi che si annunciano, si lascia andare a considerazioni antiebraiche davvero strabilianti: parlando a Ramallah al cospetto del Consiglio palestinese, in un discorso di novanta minuti ripreso integralmente dalla tv, Abu Mazen ha detto che gli ebrei la Shoah se la sono cercata. Secondo lui quel che accadde agli israeliti ai tempi del nazismo non va ricondotto alla loro fede religiosa o appartenenza etnica (tra l’altro, a suo giudizio, gli ebrei ashkenaziti non sarebbero nemmeno semiti), bensì alle loro «funzioni sociali», vale a dire «usura, attività bancaria e simili». Ha aggiunto infine che lo Stato ebraico è un «prodotto coloniale» e in quanto tale meriterebbe di far la fine che hanno fatto tutte le entità simili. In che tempi? Il generale Abdolrahim Mousavi — dal fronte iraniano — pochi giorni fa ha detto che la distruzione di Israele dovrebbe essere realizzata «entro un massimo di 25 anni». «Entro un massimo», si noti bene. Ma tutto deve essere ben visibile fin da adesso. Questo mese di maggio dovrebbe chiarire all’intero mondo arabo che è giunto il momento di vendicare la Nakba. Il 14 maggio cadranno i settant’anni dalla fondazione di Israele avvenuta nel 1948 in ottemperanza alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (29 novembre 1947) che stabiliva dovessero nascere in quella regione due Stati, uno ebraico (che nacque) e l’altro palestinese (che non nacque). Quel giorno, nell’ambito della ricorrenza, l’ambasciata degli Stati Uniti verrà trasferita a Gerusalemme, in seguito ad una decisione, dal fortissimo impatto simbolico, presa dal presidente americano Donald Trump nelle settimane immediatamente successive alla sua elezione (l’impegno lo aveva preso nel corso della campagna elettorale). Il 15 maggio, il giorno successivo, cadrà l’anniversario dei settant’anni della Nakba: in quella data l’intero mondo arabo ricorda la fuga dalla Palestina a cui furono costretti centinaia di migliaia di palestinesi, al termine della prima guerra arabo-israeliana (1948-1949). Negli ultimi anni anche importanti storici dello Stato ebraico, primo tra tutti Benny Morris, hanno riconosciuto le colpe del proprio Paese a danno dei palestinesi, gravissime colpe. Qualche altro storico ancor più radicale, come l’ex militante del Partito comunista israeliano Ilan Pappé, ha denunciato atti di vera e propria «pulizia etnica» commessi in quei frangenti dai propri connazionali. È stato più volte riesaminato — e non solo da Morris e Pappé — il massacro di Deir Yassin in cui, il 9 aprile 1948, furono uccisi da formazioni paramilitari ebraiche, Irgun e banda Stern, oltre cento palestinesi (forse duecento, forse più, secondo fonti arabe). Due personalità che all’epoca erano al comando dell’Irgun e della banda Stern e che successivamente sarebbero state elette alla guida del governo israeliano, Menachem Begin e Itzhak Shamir, si sono giustificate dell’atto sanguinoso sostenendo che la conquista di quel villaggio era indispensabile per aprire la via di collegamento tra la costa e Gerusalemme e che, nelle ore precedenti all’attacco, loro stessi si premurarono di esortare la popolazione «non combattente» di Deir Yassin ad abbandonare le proprie case. Ma è un fatto che lo stesso capo del nuovo Stato, David Ben Gurion, condannò l’accaduto. Vale la pena altresì di ricordare che Israele fu immediatamente riconosciuto da Stati Uniti e Unione Sovietica. Che il Paese ai suoi primi giorni di vita fu attaccato da milizie egiziane, libanesi, irachene, siriane, corpi di volontari provenienti da Arabia Saudita, Libia, Yemen e dalla Legione araba di Glubb Pascià (il generale inglese John Bagot Glubb che, per conto di re Husayn, guidò fino al ’56 l’esercito giordano). Alla fine del conflitto, nel ’49, Israele riuscì ad allargare i propri confini rispetto a quelli decisi dall’Onu e firmò armistizi separati con gli aggressori. Armistizi, non la pace; l’esercito del Cairo continuò a «presidiare» Gaza, quello di Amman la Cisgiordania. Per diciotto anni: fino alla «guerra dei sei giorni» (giugno 1967) al termine della quale Israele occupò quei «territori» sui quali doveva e dovrebbe ancora nascere lo Stato palestinese. Per quasi venti anni, in altre parole, lo Stato di Palestina non nacque per una decisione dei Paesi arabi che scelsero di utilizzare le terre assegnate al popolo palestinese dalle Nazioni Unite, come aree militari da cui doveva partire l’attacco definitivo per rigettare in mare l’«entità sionista». Ora si può avere l’impressione che i «venerdì di sangue» susseguitisi dal 30 marzo lungo le frontiere di Gaza, più che a ricordare la Nakba servano a distrarre Israele da un’altra partita che si giocherà anch’essa nel mese di maggio: quella con l’Iran. Qui la scadenza è di poco anticipata rispetto alla doppia ricorrenza del 14 e 15: due o tre giorni prima, il 12 maggio, Donald Trump renderà nota l’intenzione di non onorare (con ogni probabilità) l’accordo con Teheran voluto dal suo predecessore assieme all’Europa. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha preparato il terreno per una denuncia di quel patto, rivelando come la sua intelligence sia entrata in possesso di cinquantacinquemila documenti che proverebbero le menzogne dell’Iran tuttora impegnato, a dispetto di quanto concordato, nel proprio piano nucleare (il Paese di Ali Khamenei sarebbe in procinto di mettere a punto cinque ordigni di potenza equivalente a quello che nell’agosto del 1945 provocò la distruzione di Hiroshima). Ad un tempo, nella notte di domenica 29 aprile, l’esercito israeliano avrebbe provocato — usiamo il condizionale perché l’azione non è stata rivendicata — un’esplosione ad una base militare in Siria nei pressi di Hama. La base, come l’aeroporto militare siriano di Tayfur bombardato dagli israeliani il 9 aprile, sarebbe a disposizione dei pasdaran iraniani e un tal genere di bombardamenti sarebbero stati effettuati da Israele per rendere più difficile ai militari provenienti da Teheran di mettere «radici in Siria» (e questo intento Netanyahu l’ha annunciato ufficialmente). Radici che però sono state già parzialmente messe, se è vero che nel Paese di Assad sono presenti oltre ottantamila miliziani sciiti pronti a riversarsi su Israele dalle alture del Golan. Tutto appare pericolosamente in bilico. E i precedenti ci dicono che in quella regione quando la corda si tende fino a questo punto, il rischio che scoppi all’improvviso una guerra è alto. Troppo alto perché il mondo se ne resti tranquillo a guardare.

Libero - Carlo Panella: "Per il palestinese moderato Hitler non aveva tutti i torti"

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Carlo Panella

Le inqualificabili battute antisemite pronunciate dal leader palestinese Abu Mazen hanno un lungo, terribile retroterra che purtroppo i media e molti politici europei si rifiutano di vedere, anche se data da ormai un secolo, segna tutta la dirigenza palestinese dal 1919 a oggi ed è la causa principale dell'impossibilità di trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Conflitto che non si risolve proprio perché la componente palestinese non lotta contro «gli israeliani» ma proprio contro gli ebrei, in un delirio di antisemitismo che ha pochi pari al mondo. Veniamo dunque alla concezione degli ebrei che ha Abu Mazen, in un condensato raccapricciante dei principali capisaldi di un antisemitismo che ben prima di essere europeo è stato - per 1.400 anni - patrimonio arabo-islamico: «Comportamenti sociali come le attività bancarie, l'usura e cose del genere, da parte degli ebrei sono all'origine delle violenze e dei massacri di cui sono stati vittime, Olocausto compreso. Dall'XI secolo sino all'Olocausto avvenuto in Germania, quegli ebrei - che si erano trasferiti nell'Europa occidentale e orientale - sono stati soggetti a massacri ogni 10-15 anni. Ma perché questo è accaduto? Loro dicono perché sono ebrei. Tre libri scritti da ebrei sono prova che le ostilità contro gli ebrei non sono causate dalla loro religione, ma piuttosto dalla loro funzione sociale, connessa a banche e interessi bancari». Va detto che queste convinzioni sono ben radicate in un Abu Mazen che si è laureato nell'università Patrice Lumumba di Mosca con una tesi raccapricciante: «L'altra verità, la relazione segreta tra il nazismo e il sionismo».

LAUREA SOVIETICA In questa opera indegna, omogenea all'antisemitismo staliniano che ha caratterizzato l'Urss, Abu Mazen sosteneva la tesi aberrante che alcuni membri del movimenti sionista avevano concordato con i nazisti la «produzione» del massimo di vittime tra gli ebrei per convincere l'opinione pubblica mondiale della necessità di creare lo Stato d'Israele. Non basta, Abu Mazen in questa tesi, pubblicata in un libro nel 1984, negò il numero di 6 milioni di ebrei vittime della camere a gas naziste, citando il negazionista e antisemita francese Robert Faurisson. Il dramma è che queste parole e queste tesi segnano una continuità perfetta e assoluta con tutta la tradizione antisemita del movimento palestinese che si alleò con Hitler. È impressionante infatti l'assonanza totale delle parole di Abu Mazen con quelle pronunciate da Muhammad Amin al-Husayni, il filonazista Gran Mufti di Gerusalemme dalla fascista Radio Bari il 17 giugno 1943: «Una mentalità di eccessivo egoismo, di smodata ambizione e di speculazione su tutte le risorse mondiali caratterizza gli ebrei. Questa mentalità che si è consolidata coi secoli ha fatto degli ebrei una piaga generale, una disgrazia cronica per il mondo. Si sono arricchiti provocando la povertà dei popoli, si sono impadroniti del benessere a discapito del mondo, tessendo complotti e intrighi». Il Gran Muftì di Gerusalemme, leader palestinese dal 1920 al 1956 (e oltre), fu ricevuto con tutti gli onori tre volte da Hitler, organizzò in Bosnia le SS islamiche.

AFFINITÀ COL NAZISMO Il 21 gennaio 1944, il Gran Mufti così si rivolse alle truppe: «La Germania nazista sta combattendo contro il mondo ebraico. Il Corano dice «vi accorgerete che gli ebrei sono i peggiori nemici dei musulmani. Vi sono inoltre considerevoli punti comuni tra i principi islamici e quelli del nazismo: nei concetti di lotta, di cameratismo, nell'idea di comando (Führerprinzip) e in quella di ordine. Tutto ciò porta le nostre ideologie a incontrarsi e facilita la nostra cooperazione». Come si vede, una perfetta continuità ideologica tra Abu Mazen e la dirigenza palestinese del Gran Muftì che ha formato il movimento palestinese condannandolo alla sconfitta.

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