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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
26.04.2018 25 aprile: alla festa della Liberazione spuntano i nostalgici di Hitler filo-palestinesi
Cronaca di Francesca Paci, commento di Massimiliano Trovato

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Francesca Paci - Massimiliano Trovato
Titolo: «Fischiati per la prima volta anche gli ex internati nei lager - Perché l’eterno antifascismo pavloviano non ci ha vaccinati contro il fascismo di ritorno»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/04/2018, a pag. 7, con il titolo "Fischiati per la prima volta anche gli ex internati nei lager" la cronaca di Francesca Paci; dal FOGLIO, di ieri, a pag. I, con il titolo "Perché l’eterno antifascismo pavloviano non ci ha vaccinati contro il fascismo di ritorno", il commento di Massimiliano Trovato.

Ecco gli articoli:

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Milano

LA STAMPA - Francesca Paci: "Fischiati per la prima volta anche gli ex internati nei lager"

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Francesca Paci

Non era mai successo. Per la prima volta il 25 Aprile vede fischiati in piazza gli ex deportati dei campi di sterminio e la Liberazione divide il Paese molto più di quanto dovrebbe unire. È successo a Milano, dove al passaggio della Brigata Ebraica e delle associazioni dei sopravvissuti all’Olocausto e gli ex internati dei lager gruppi di attivisti contro l’occupazione della Palestina hanno gridato «assassini», «Israele Stato assassino», «fascisti». Alle contrapposizioni di sempre, alla lacerazione politica e sociale del Paese si aggiunge oggi uno strappo più grave. E a Roma il muro contro muro tra il Pd e il Movimento 5 Stelle finisce per abbandonare la sindaca di Roma Virginia Raggi ai fischi sguaiati dei nemici dell’attuale amministrazione capitolina ma anche a quelli dei nemici della sua discesa in campo a fianco della Brigata Ebraica.

La Brigata Ebraica, migliaia di volontari che nel 1945 combatterono accanto ai partigiani e agli alleati contribuendo allo sfondamento della Linea Gotica, è la cartina di tornasole della cattiva coscienza della piazza resistente. E se qualcuno aveva giudicato esagerata la decisione della Comunità ebraica romana di non sfilare nel corteo dell’Anpi perché aperto alle bandiere e ai simboli palestinesi, le contestazioni di Milano danno ragione alle peggiori previsioni. A Milano la Brigata Ebraica c’era, una presenza importante nell’ottantesimo anniversario dalla promulgazione delle leggi razziali alla cui protezione faceva da «scorta» il servizio d’ordine del Partito democratico. Quando il serpentone è arrivato vicino a piazza Duomo, tra corso Venezia e San Babila, le invettive contro i «i sionisti», «gli assassini dei palestinesi», addirittura «i fascisti» da cacciare dal corteo hanno coperto i cori di Bella Ciao.

A Roma si giocava in qualche modo a carte scoperte. Lunedì, dopo un negoziato patrocinato dal Campidoglio e durato diversi mesi per trovare una piattaforma capace di far marciare tutti insieme i protagonisti di 73 anni fa, la Brigata Ebraica aveva deciso di celebrare per conto proprio non avendo avuto dall’Anpi la garanzia di un controllo dei simboli palestinesi e dunque di fatto di una giornata unitaria senza improperi. Il calendario prevedeva dunque un duplice appuntamento alle Fosse Ardeatine e all’ex famigerato carcere delle SS a via Tasso con la comunità ebraica e le autorità istituzionali e il grande corteo dell’Anci diretto a Porta San Paolo, l’icona di Roma Città Aperta. E qui entra in campo Virginia Raggi, spesasi molto e fino all’ultimo, a detta di tutte le parti coinvolte, per cercare, invano, la quadratura del cerchio.

Rammarico per com’è andata a finire? «Continueremo a provare anche l’anno prossimo» ci risponde uscendo dal cancello del sacrario realizzato da Mirko Basaldella dopo aver abbracciato il sopravvissuto ad Auschwitz Alberto Sed e la figlia di una delle 154 vittime di Priebke, Rosetta Stame. Stringe le mani di tutti insieme al presidente della Regione Zingaretti, al premier Gentiloni, alla titolare della Difesa Pinotti. Mezzora dopo, di fronte al Museo di via Tasso sormontato dal cartello «Verità per Giulio Regeni», pronuncerà a una platea di un centinaio di persone un discorso durissimo sulla Liberazione divisa, dice che la comunità non è stata all’altezza dei valorosi di 70 anni fa, che è stato un grave errore lasciare entrare nel corteo un tema che nulla a che vedere con il 25 Aprile italiano, che la Brigata Ebraica è la nostra Storia.

La mattinata però non è finita, l’epilogo è a Porta San Paolo dove Virginia Raggi arriva subito dopo Zingaretti, applauditissimo nell’affermare che «non ci sono seconde o terze Repubbliche ma c’è solo quella unica e anti-fascista nata nel 1945». Poi tocca alla Raggi, le bandiere palestinesi si fanno sotto il palco, i fischi la sovrastano. Lei ripete passo passo quanto ha detto a via Tasso, che è stato un grave errore permettere a una causa estranea all 25 Aprile di infilarsi nel corteo e chiosa: «I fischi non cancelleranno la memoria». Cala il sipario ed è uno spettacolo pessimo.

IL FOGLIO - Massimiliano Trovato: "Perché l’eterno antifascismo pavloviano non ci ha vaccinati contro il fascismo di ritorno"

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Massimiliano Trovato si occupa di regolamentazione e politiche pubbliche con specifico riguardo all'economia digitale, nonché in materia di televisione, assicurazioni, servizi postali, sport e paternalismo di stato. È stato Koch Fellow presso il Mercatus Center della George Mason University e intern presso l'International Policy Network. Lavora all'Istituto Bruno Leoni.

Il solito 25 aprile, le solite cerimonie, le solite fruste polemiche di complemento: riti più attuali che mai, ci raccontano, a pochi mesi dai fatti di Macerata e da una campagna elettorale dominata dallo spauracchio fascista. E se, invece, proprio la cronaca recente dimostrasse che è giunta l’ora di fare i conti con l’antifascismo? Nel 1963, intervenendo sul Resto del Carlino, Giuseppe Berto – gigante bistrattato della narrativa italiana del Novecento – proclamava: “oggi il dovere e l’impegno è di essere non-fascisti, cosa assai più difficile e compiuta che non l’essere antifascisti”. Come noto, fascista, Berto lo era stato – sebbene più per senso pratico che non per afflato ideologico. Arruolatosi due volte, in Africa si dedicò soprattutto a baccagliare le indigene, anziché a battagliare il nemico; gli Alleati lo internarono nel Texas, dove nacque scrittore, con Alberto Burri che nasceva pittore; rientrato in Italia, si limitò a cambiare opinione: senz’avvertire l’urgenza – tanto comune tra i mussoliniani apostati – di riplasmarsi un imene democratico. Dieci anni dopo, chiamato a contribuire – con Prezzolini, Ricossa, Ionesco… – allo storico Congresso internazionale per ladifesa della cultura apparecchiato a Torino dal Cidas e da Armando Plebe, Berto tornò sull’argomento: “io non sono fascista, ma nemmeno antifascista. […] Da anni ormai io amo definirmi afascista, fascista con un’alfa privativa [sic]davanti”, a indicare “un’avversione al fascismo così intima e completa da non poter tollerare l’antifascismo. […] D’accordo: il fascismo è violento, coercitivo, retorico, stupido. Però, come lo vedo io, l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido”. A rileggerlo oggi, quel giudizio andrebbe integrato con un altro attributo: “impotente”. Come spiegare altrimenti che – dopo settant’anni di presidî, cortei, testimonianze; di Anpi, Arci, Acli; di Cigl-Cisl-Uil e PciPds-Ds-Pd; di centri sociali, archi costituzionali, comitati di salute pubblica; di guerra civile permanente, azionismi di risulta, “ora e sempre Resistenza”, “Costituzione più bella del mondo”… – idee già morte e appese per i piedi vivano oggi una fragorosa rentrée? Come spiegare, in altre parole, che settant’anni di antifascismo non siano serviti a vaccinarci contro il fascismo di ritorno? Quest’indubbio fallimento domanda una spiegazione articolata. Primo. Tratteggiare il fascismo come fenomeno storico è relativamente agevole: più complesso è distillarne l’essenza dottrinaria. La patente di fascismo è il coltellino svizzero dell’impegno: un “fascista” non si nega a nessuno – la Meloni, Salvini, Berlusconi, Grillo, Minniti, i mariti che non calano la tavoletta del cesso: tutti fascisti, nessun fascista – né si esita a bollare come fascista ogni vera o supposta smagliatura del tessuto sociale – il razzismo, il nazionalismo, il populismo, la legge Fornero o l’esclusione dell’Italia dai Mondiali. L’antifascismo pavloviano osteggia un avversario informe e apparentemente ubiquo solo perché si guarda bene dallo studiarne i caratteri. Secondo. Un movimento che si definisce per opposizione, oltre a denotare una preoccupante subalternità ideologica, vincola la propria sopravvivenza alla salute del nemico. Qualcuno ricorderà la polemica agostana sullo stabilimento balneare di Sottomarina adornato di maschie e littorie citazioni: l’antifascismo ossessivo-compulsivo che vede emergenze ovunque per giustificare la propria esistenza e assimila ai giustizieri fai-da-te le maschere di provincia – il che equivale a confondere le Brigate rosse coi fanciulloni cinerei di Lotta comunista – dilapida la propria credibilità e annacqua quella stessa minaccia contro cui vorrebbe mettere in guardia. Terzo. L’antifascismo militante è in larga parte un esercizio autoconsolatorio: le sue liturgie servono in primo luogo a marcare la differenza tra un “noi” e un “loro”: ed è un “loro” che non risparmia chi rifiuti di sottomettersi a quell’indolente logica binaria – “chi non è antifascista non è degno di fare parte della comunità democratica italiana”, ha dichiarato Renzi dopo l’agguato di Macerata.

L’antifascista manicheo che invoca l’interessamento dei gendarmi per ogni guascone che zufoli “Faccetta nera” potrà massaggiarsi il cuore allo specchio con il balsamo della giustezza di sé, ma non farà avanzare di un millimetro la causa per cui crede di spendersi. Quarto. Celandosi dietro una contrapposizione inesorabile, l’antifascismo rifugge ogni confronto argomentativo. Le opinioni, anche quelle ripugnanti, si disinnescano solo con altre opinioni; del resto, proprio gli attuali rigurgiti fascisti sconfessano l’antica illusione che bastasse ricacciare i camerati “nelle fogne” per castrarne le convinzioni. Per arginare il revival, viceversa, occorre accettare il corpo a corpo dialettico, formulando risposte più convincenti a domande che certo inquietano, ma di cui è miope ignorare la presenza. L’antifascismo archeologico che si contenta di coltivare la memoria è condannato a morire di vecchiaia. Quinto. Rifiutare con sdegno di fronteggiare il fascismo sul piano delle idee e predicarne persino l’estromissione dai luoghi del discorso pubblico – lo scorso febbraio, l’appello di un gruppo di accademici indusse la Fondazione Feltrinelli a rimandare a tempi più accomodanti il previsto incontro con Alain de Benoist: che fascista non è, ma i censori non amano sottilizzare – non vale a isolarlo dalla cittadella democratica, bensì a irrobustirlo, ammantandolo della patina del martirio. Il fascismo va indagato, ispezionato, vivisezionato – un programma sinceramente afascista che, però, impone di superare la nostra incapacità di maneggiare il dissenso e di riconoscere in ogni frangente l’umanità dell’antagonista. E’ un lavorio paziente che i professionisti dell’antifascismo religioso non paiono in grado di sobbarcarsi: ma chi fa di tutta l’erba un fascio, absit iniuria verbis, rischia di restarvi impigliato.

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