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Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 10/01/2018, a pag. 1-21, con il titolo "Il mio Iran senza pane e libertà", la testimonianza di Farhad M.; dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, con il titolo "Morire a vent’anni in un carcere iraniano 'Non è stato suicidio' ", il commento di Viviana Mazza. Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Farhad M.: "Il mio Iran senza pane e libertà" A nome del mio gruppo di studenti iraniani, attivisti per la libertà e la democrazia, vorrei trasmettere all’opinione pubblica in Europa, fino a quando ne ho la possibilità, il nostro messaggio, dirvi qual è la situazione in Iran dal nostro punto di vista. La mia storia è simile a quella di molti altri studenti: frequentavo la facoltà di Giurisprudenza ed ero membro di un gruppo anti regime che partecipò alle grandi manifestazioni del 2009, quando fui arrestato e tenuto per due mesi in una cella di isolamento, poi ancora in carcere per un anno. CORRIERE della SERA - Viviana Mazza: "Morire a vent’anni in un carcere iraniano 'Non è stato suicidio' "
Viviana Mazza Sina Ghanbari La repressione iniziata nelle strade dell’Iran, con almeno 21 morti nelle proteste dei giorni scorsi, ora continua nelle prigioni. Sono almeno due i manifestanti trovati misteriosamente morti mentre si trovavano in detenzione: Vahid Heidari ad Arak e Sina Ghanbari a Teheran. Le autorità sostengono che si siano suicidati, ma gli attivisti non ci credono. «Vahid faceva il venditore al bazar di Arak. È stato arrestato per aver partecipato alle proteste contro il carovita», ha raccontato lo zio del ragazzo a Iran Human Rights, un’organizzazione per i diritti umani con sede ad Oslo e ottime fonti all’interno del Paese. All’inizio, la polizia ha detto che il giovane era un trafficante di droga. «Mentono», secondo la famiglia, che sabato scorso ha ricevuto una telefonata dalla prigione: «Si è suicidato, venite a prendere il corpo». Poi però non sono stati consegnati ai cari né il cadavere né il referto del medico legale; e sono stati costretti a seppellirlo in una fossa già preparata ad Arak. «Chi ha visto il corpo ha notato una frattura sul lato sinistro del cranio e un rigonfiamento alla testa, che potrebbe essere stato causato da un colpo di bastone», ha detto l’avvocato Mohammad Najafi agli attivisti. L’altro giovane trovato morto sabato si chiama Sina Ghanbari: aveva 23 anni e si sa solo che si trovava in quarantena nel famigerato carcere di Evin. Un terzo nome, Mohsen Adeli, e altri ancora non sono per ora confermati. Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights consiglia cautela, perché «nel 2009 ci furono molte fake news sui morti, probabilmente diffuse dalle stesse autorità, e più tardi venivano fatti riapparire per screditare gli attivisti», dice al Corriere . La sua organizzazione chiede l’istituzione di una commissione delle Nazioni Unite per indagare sui manifestanti uccisi nelle strade e sulle loro condizioni di detenzione; e spera che l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini ne parli l’11 gennaio, quando i negoziatori per il nucleare iraniano incontreranno a Bruxelles il ministro degli Esteri Mohammad Jawad Zarif. Le notizie di queste due morti in prigione e dell’arresto di almeno 3.700 manifestanti (questo il numero confermato dalle autorità), spesso giovanissimi (l’età media 25 anni) hanno suscitato le reazioni anche di alcuni deputati riformisti, che erano rimasti in silenzio durante le proteste. Ritorna l’incubo del 2009, quando migliaia di giovani furono imprigionati dopo le manifestazioni del Movimento verde, rinchiusi in centi di detenzione non ufficiali come Kahrizak e sottoposti a torture e violenze sessuali: tre furono uccisi. Lo scandalo fu tale che la Guida Suprema Ali Khamenei ordinò un’inchiesta e alcuni funzionari furono condannati al carcere, ma non tutti hanno davvero scontato la pena. «Siamo molto preoccupati per le condizioni inumane di cui riceviamo notizie dalle prigioni di tutto l’Iran, con celle da 50 dove vengono ammassati 300 detenuti. Dalle esperienze passate sappiamo che verranno sottoposti a torture negli interrogatori e processati a porte chiuse in Tribunali rivoluzionari, per fare di loro un esempio per tutti», continua Amiry-Moghaddam. Alcune delle famiglie si sono sentite dire dai figli che se non li rilasciano si uccideranno. «Parole molto strane da prendere con cautela, perché il suicidio è la tipica giustificazione delle autorità. Ma può essere visto anche come un altro segno del terrore di questi giovani che non erano mai stati prima in prigione». Il vicecapo della magistratura Hamid Shahriari minaccia «la massima punizione», la pena di morte. Per inviare la propria opinione ai quotidiani, telefonare: direttore@lastampa.it lettere@corriere.it |
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