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Pubblichiamo oggi, 05/01/2018, con il titolo "Un ricordo di Aharon Appelfeld", il commento di Giorgia Greco; riprendiamo dalla STAMPA, a pag.26, con il titolo "Ricondotto alla vita e alle radici con la scoperta della lingua ebraica", il commento di Elena Loewenthal; dalla REPUBBLICA, a pag. 32, con il titolo "Appelfeld il poeta gentile della Memoria", il commento di Susanna Nirenstein. Ecco gli articoli: Giorgia Greco: "Un ricordo di Aharon Appelfeld"
“…..senza i valori che le generazioni precedenti trasmettono, si è solo un corpo vivo ma senza un’anima. Scrivere non è un incantesimo magico, ma un varco verso il mondo che è nascosto dentro di noi. La parola scritta ha il potere di accendere l’immaginazione e di illuminare il tuo io interiore” Appelfeld ha raccontato la sua drammatica esperienza con toni pacati, semplici introducendo in ogni romanzo una vena surreale per narrare l’indicibile. Ci ha lasciato opere indimenticabili come la struggente autobiografia Storia di una vita, i romanzi Badenheim 1939, Paesaggio con bambina, Il ragazzo che voleva dormire, L’amore d’improvviso e l’ultimo, Il partigiano Edmond, tutti pubblicati dalla casa editrice Guanda. Il suo vissuto rivive con una prosa di rara espressività nei personaggi, nelle atmosfere e nelle ambientazioni sapientemente descritte. Tutta la sua produzione letteraria è un mezzo per esprimere il valore imprescindibile della Memoria: “quello strabiliante strumento dell’anima che mettendoci in comunicazione con ciò che è vicino e ciò che è lontano ci ripete che quel che è stato non è perduto, sta dentro di noi, possiamo vederlo e comunicare con esso”. Come i suoi meravigliosi romanzi che rimarranno per sempre dentro di noi illuminando e arricchendo il nostro spirito. La Stampa-Elena Loewenthal: "Ricondotto alla vita e alle radici con la scoperta della lingua ebraica"
«La lingua ebraica ha aperto non solo il mio cuore ch’era chiuso, mi ha anche ricondotto vicino ai miei avi… Non potevo immaginare che sarebbe stato l’ebraico e non la lingua di mia madre a restituirmi ciò che di immenso avevo perduto». Così raccontava Aharon Appelfeld nella sua lectio magistralis al Salone del Libro di Torino, nel 2008. E se la formula ebraica zikronò livrachà, «il suo ricordo in benedizione», è una specie di automatismo quando si nomina un defunto, nel suo caso quella benedizione è un augurio accorato, perché proprio così erano lui e la sua scrittura: intrisi entrambi di quel bene di cui il mondo era stato così avaro, allora. La Repubblica - Susanna Nirenstein: "Appelfeld il poeta gentile della Memoria"
Il grande scrittore è morto a Gerusalemme a 85 anni Deportato giovanissimo nei lager, scappato e poi approdato in Israele ha riversato le sue esperienze e le sue visioni in oltre 40 tra romanzi e saggi Grande scrittore, testimone della Shoah, custode della memoria. Aharon Appelfeld — con la sua la voce che sembrava un sussurro, il viso mite e acuto, la sua delicatezza infinita — è morto nella notte tra mercoledì e giovedì, a Gerusalemme. Aveva 85 anni. Chissà da dove gli nascevano quei sorrisi dolcissimi, la pacatezza di ogni affermazione. Forse dalla sorpresa di essere vivo, nonostante avesse sfiorato la morte più volte e a otto anni l’avesse vista abbattersi per mano delle milizie filonaziste ucraine sulla madre e i nonni a pochi passi da lui. Forse dal silenzio che per 36 mesi, una volta fuggito dal lager in Transnistria in cui era stato rinchiuso, aveva mantenuto mentre era solo, nascosto nei boschi ucraini, o in mezzo alla banda di briganti che l’aveva trovato e adottato come servo (con quegli istanti abbacinanti a tratti riportati in Storia di una vita). Oppure dietro la porta della prostituta che poco dopo l’aveva nascosto, o ancora mentre faceva lo sguattero per l’esercito sovietico. A nessuno aveva rivelato di essere ebreo. Tacque finché non raggiunse altri ebrei come lui nei campi profughi, e poi Israele. Da qui nacque il forte compito che si dette: «Reagire con una serie di storie perturbanti alla scomparsa dall’Europa di quasi tutti gli ebrei del continente», come scrisse Philip Roth. Una spinta che ha portato Appelfeld a scrivere oltre quaranta libri, tra romanzi, storie e saggi, uno più bello dell’altro. Un miracoloso frutto letterario, quasi tutto pubblicato in Italia da Guanda (i primissimi titoli si devono alla Giuntina), nato dal disastro, dalla perdita, dallo spaesamento conseguente. Cresciuto col bisogno di ritrovarsi e costruito attraverso l’approdo alla lingua ebraica una volta arrivato, alla fine del ’46 ad Haifa. Una vicenda raccontata in modo bruciante ne Il ragazzo che voleva dormire, mai con piglio autobiografico — non era questa la sua cifra — ma per macchie di memoria e fiction, e sogni, amnesie, risvegli. Perché sarà solo con la conquista di questa lingua non più diasporica, idioma moderno del nuovo paese, ma anche e soprattutto lettere bibliche dalle innumerevoli valenze, antiche come il popolo, recitate per secoli, che Appelfeld troverà l’unguento alle sue ferite. Tutto in lui era vagamente trattenuto, anche il modo di scrivere dell’orrore: narrava il prima, narrava il dopo, lo sparo udito mentre uccidevano sua madre, ma non il corpo, non il sangue. Era nato nel 1932 a Czernowitz, nella Bucovina del Nord (allora in Romania, oggi in Ucraina) in una famiglia profondamente assimilata: come i villeggianti del suo Badenheim 1939, che si sentono talmente diversi dai “veri” ebrei dell’Est Europa a cui, secondo loro, sarebbero indirizzate le misure razziali restrittive. Una cecità che li porta a non riconoscere il pericolo che arriva. Fino a quando vengono rinchiusi nella residenza estiva e fatti salire sui treni blindati. Non pensate a una ricostruzione storica comunque. Quel romanzo porta con sé il grottesco della verità, senza bisogno d’altro, perché «l’esperienza ebraica nella Seconda guerra mondiale non è stata “storica”. Noi ci siamo ritrovati di fronte a forze mitiche e arcaiche, a una sorta di subconscio di cui non comprendevano, e ancora non comprendiamo il significato». Per questo e per altri libri di Appelfeld — ricordiamo fra i tanti Fiori nelle tenebre, Una bambina da un altro mondo, Oltre la disperazione — molti hanno pensato a Kafka perché parlava la lingua dell’assurdo e per uno che veniva dai lager e dalle foreste, da un mondo che incorporava l’irrazionale, leggere Kafka non aveva bisogno di alcuna spiegazione. Forse c’è un po’ di Kafka anche in quello splendore di romanzo che è Notte dopo notte: un teatro quasi impressionista che si svolge in Israele tra un gruppo di sopravvissuti sopraffatti dagli incubi della Shoah, decisi a mantenere l’yiddish come lingua, e la società tutt’intorno che congiura inesorabilmente contro di loro. Ma tutto sempre trasposto nel paradosso, per eccesso, eppure così vero, così doloroso come fu per gli immigrati abbandonare il loro passato, e così carico di speranza come non poteva non essere la resurrezione di quegli anni. Che periodo fu quello in cui Appelfeld sbarcò nel futuro Israele. Fu prima un agricoltore, poi un soldato. Desiderava maledettamente essere uguale agli altri, improvvisamente alto, forte, abbronzato, dimentico della Shoah. È sempre stato fiero d’Israele. Ma non voleva scordare e l’ebraico gli illuminò la strada: «Quella lingua mi prese alle spalle e mi condusse, contro la mia volontà, alle più segrete risorse del giudaismo da cui non mi sono più allontanato». No, religioso Appelfeld non è mai diventato, ma i ricordi non tacevano, e il bisogno di essere fedele a se stesso aveva fatto di lui una persona contemplativa che la sua scrittura tesseva e ritesseva. In modo sempre cangiante, come è avvenuto ultimamente: col bel libro dell’anno scorso su un giovane nella resistenza ebraica, Il partigiano Edmond, e ora, il prossimo 27 gennaio, con Giorni luminosi (sempre per Guanda di cui pubblichiamo l’incipit in queste pagine). Ancora una volta, dopo la guerra, un ragazzo ebreo — lui, bambino, per sempre — compie un difficile viaggio di ritorno nella sua cittadina ucraina. Ci mancherà, è stato un gigante. Per inviare la propria opinione, telefonare: takinut@gmail.com direttore@lastampa.it rubrica.lettere@repubblica.it |
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