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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
03.01.2018 Iran: la protesta contro il regime non si placa, cresce la repressione
Commenti di Francesca Paci, Edward Luttwak, Daniele Raineri

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Francesca Paci - Edward Luttwak - Daniele Raineri
Titolo: «L’urlo delle piazze in fiamme: 'Ci picchiano con i bastoni' - Il potere degli ayatollah vulnerabile come l’Urss - Il forgotten man iraniano è furioso»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/01/2018, a pag. 5, con il titolo "L’urlo delle piazze in fiamme: 'Ci picchiano con i bastoni' " il commento di Francesca Paci; a pag. 1-21, con il titolo "Il potere degli ayatollah vulnerabile come l’Urss" il commento di Edward Luttwak; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Il forgotten man iraniano è furioso", il commento di Daniele Raineri.

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Colpire a morte i dimostranti con moto e bastoni

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Francesca Paci: "L’urlo delle piazze in fiamme: 'Ci picchiano con i bastoni' "

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Francesca Paci

«Da tre giorni il governo blocca Telegram e Instagram come mai prima, non ho avuto alcuna connessione a Internet per ventiquattrore, ma questa conversazione prova che noi giovani iraniani troviamo sempre un’alternativa per comunicare». Ali (un nome di fantasia come tutti gli altri citati in questo articolo), 31 anni, lavora in un centro grafico a Shiraz, è stato arrestato durante le proteste del 2009 e, ammette, non pensava di tornare in piazza adesso: «Il piano dei conservatori era di lanciare una grande protesta contro i riformisti a Mashhad, ma hanno fallito perché non si aspettavano questo effetto domino che si è rivoltato contro il regime. Non me lo aspettavo neppure io. E invece succede che persone di idee opposte fraternizzino in strada. Ogni giorno succede di più, anche se stamattina (ieri per chi legge) ci hanno picchiato fortissimo. Quelli come me, storici sostenitori dei riformisti, hanno capito che l’unica differenza tra i Rohani e i fondamentalisti è nei sorrisi: oggi li vediamo reprimere il popolo tutti insieme. Stanno dicendo che siamo infiltrati dall’estero, che siamo spie, a breve mostreranno finte confessioni in tv, può darsi che ci battano di nuovo ma ormai abbiamo capito e ormai è l’inizio della fine».

Il sesto giorno di rabbia contro il governo si chiude con decine di video che mostrano le forze di sicurezza disperdere brutalmente i manifestanti. Goli, 25 anni, seguiva le proteste da dentro la sua automobile, vicino all’università di Teheran. «La repressione è aumentata, gli agenti sono ovunque - racconta-. Oggi (ieri per chi legge) se ne contavano più degli attivisti, sono armati di bastoni e li usano, hanno colpito il vetro della mia macchina e mi hanno ordinato di andarmene, sono tornata a casa e dopo mezz’ora tremavo ancora dalla paura».

Gli slogan, diretti da subito, si sono fatti sfrontati come le scritte sui muri di Karmanshah, dove si legge «Down with Khamenei», lo stesso impresso dal ’79 sull’edificio dell’ex ambasciata americana a Teheran, «Down with the USA».
«Quando per strada senti gridare “Fondamentalista, riformista, questa è la fine della storia” capisci che la gente intorno a te non ha più pazienza» ci dice Ivan, studente di economia nella capitale. Ha contato meno persone che nei giorni scorsi, ha sentito l’odore della paura vera: «Dal 28 dicembre ogni sera il centro di Teheran si è acceso, adesso è più difficile, ci braccano, le persone tornano a casa ma la rabbia cresce. Qualcuno inizia a chiedere un referendum per cambiare il governo, altri immaginano uno sciopero del pagamento delle bollette: si torna a casa ma non domati».

Non tutti partecipano con lo stesso entusiasmo. La giovane impiegata Nahdal teme che finirà peggio del 2009 e preferisce non uscire. Il 31enne consulente finanziario Amir, emblema di quella classe media che diversamente dagli intellettuali engagé come il regista Asghar Farhadi è rimasta un po’ alla finestra, non si fida dei “sanculotti” affamati di pane ma non diritti. Eppure, la ragazza che sventola il chador da cui si è appena liberata ha fatto scuola: almeno altre due l’hanno seguita chiedendone la liberazione dal carcere, qualcuna potrebbe seguitare oggi, primo “white wednesday” della protesta, l’evento ideato dalla giornalista in esilio Masih Alinejad, ideatrice del movimento contro l’obbligo del velo “My Stealthy Freedom”.
«Non è vero che queste proteste nascono dal nulla - ci spiega Alinejad-. In piazza c’è la voce dei minatori che chiedevano 5 mesi di salari arretrati e sono stati arrestati, quella dei professori in sciopero contro lo stipendio misero silenziata mesi fa, quella di Narges Mohammadi imprigionata perché difendeva le donne sfregiate dall’acido, quella delle ragazze a processo per qualche capello scoperto: il piazza c’è la gente esasperata da 40 anni di regime clericale che ha privato il paese di qualsiasi opportunità». Alinejad ha letto il tweet con cui il ministro degli esteri Zarif si pronuncia a favore delle protesta pacifiche. Una provocazione: «Era pacifica la protesta dell’insegnate Esmail Abdi, del conducente di autobus Reza Shahabi: sono tutti in cella. Erano proteste individuali ma essendo cadute nel vuoto hanno montato l’onda di oggi».

LA STAMPA - Edward Luttwak: "Il potere degli ayatollah vulnerabile come l’Urss"

Ronald Reagan sconvolse l’élite di Washington e spaventò i leader europei rifiutandosi di coesistere con l’Unione Sovietica. E visse abbastanza da vederne il precipitoso declino e collasso. Esiste una buona probabilità che anche Donald Trump, che ha sfidato Obama e i leader europei rifiutandosi di coesistere con l’impero iraniano degli ayatollah, abbia la soddisfazione di vedere la dissoluzione di un regime con il quale Obama, insieme a tanti altri, preferì essere più accomodante.

Non sappiamo se le massicce manifestazioni di questi giorni si diffonderanno, né se una seconda rivoluzione sia ormai imminente, ma in ogni caso i numeri dell’Iran non tornano, e un collasso è fisicamente inevitabile. Con circa 80 milioni di abitanti, e le esportazioni composte all’80 per cento dal petrolio, per far quadrare i conti l’Iran dovrebbe esportare circa 25 milioni di barili al giorno. Riesce però a esportarne appena 2,5 milioni. Sarebbe più che sufficiente per Paesi come Abu Dhabi, con meno di 800 mila abitanti, ma per l’Iran, con una popolazione più di 100 volte numerosa, è una miseria: non riesce a raggiungere nemmeno la soglia del reddito pro-capite di 6 mila dollari del Botswana.

La destinazione più alla moda per i safari è un Paese bello e ben governato, lontano dalla povertà per i parametri africani, e i suoi cittadini non devono pagare il prezzo della manutenzione degli imponenti impianti nucleari, destinati a produrre una vastissima gamma di armi, dalle più compatte ai missili balistici. Perfino ora che queste strutture vengono conservate in uno stato semicongelato, ogni giorno l’Iran importa costosi strumenti per la loro manutenzione, acquistati per esempio dalla Corea del Sud, nostro prezioso alleato. Il Botswana poi non organizza spedizioni militari su larga scala in aiuto a un dittatore straniero impegnato in una guerra contro l’80 per cento della propria popolazione, né provvede a generosi finanziamenti della più grande organizzazione terroristica al mondo, gli Hezbollah, che non riescono a pagare le centinaia di migliaia di salari che erogano soltanto con il traffico di droga e il racket che impongono alla popolazione.

Gli ayatollah invece lo fanno, e perciò gli iraniani in realtà sono molto più poveri di quanto il loro reddito pro-capite di 6 mila dollari, da Botswana, potrebbe far pensare. Risulta difficile crederlo guardando le fotografie di Teheran, un’altra capitale rutilante che ingrassa accaparrandosi profitti petroliferi, ma di recente, guidando attraverso le zone rurali dell’Iran, considerate tra le più prospere, ho visto con i miei occhi la povertà del Paese. In un mercatino improvvisato accanto all’area di sosta dei camion degli uomini adulti vendevano anatre. Ciascuno ne aveva tre o quattro, e sembrava che non avessero altro da offrire.

Questo è quello che succede in un’economia il cui Pil si assesta sotto i 6 mila dollari di reddito pro-capite: produttività e redditi bassissimi. Perfino i circa 500 mila iraniani impiegati nell’industria automobilistica nazionale non sono abbastanza produttivi da costruire auto concorrenziali da vendere all’estero: il secondo prodotto più esportato del Paese, dopo il petrolio e i suoi derivati, sono i pistacchi. Che ci portano direttamente al secondo problema dell’Iran, dopo quello dell’insufficiente quantità di petrolio: le ruberie degli ayatollah, incluso l’accaparratore delle coltivazioni di pistacchi, Akbar Hashemi «Rafsanjani», ex presidente e per decenni figura di spicco del regime. Non ha peccato di poca modestia aggiungendo al suo nome quello della sua provincia natale Rafsanjan, perché ormai ne possiede la maggior parte, dopo essersi appropriato di enormi distese di coltivazioni di pistacchi.

Suo figlio Mehdi Hashemi, un personaggio di spicco tra gli aghazadeh (i «nobili nati»), i figli e le figlie dei potenti, preferisce una ricchezza di origine industriale, e il suo nome compare nei processi per corruzione a carico di altre persone (uno si è tenuto in Francia). Ha anche avuto un processo a suo carico, per una miseria di un centinaio di milioni, mentre il clan dei Rafsanjani si è preso almeno un paio di miliardi di dollari.

Non si ha notizia di ruberie commesse dal leader supremo Khamenei - del resto, dispone di palazzi ufficiali - ma il suo secondo figlio Mojtaba pare aver attinto dal mucchio ben due miliardi, il terzo figlio Massoud cerca di sbarcare il lunario con 400-500 milioni, il minore, Maitham, non è certo povero con 200 milioni, e le figlie Bushra e Huda hanno ricevuto come dote di fatto qualcosa come 100 milioni a testa. Una dimostrazione del fatto che il regime è guidato da uomini davvero dediti alla famiglia, che accudiscono con amore i loro numerosi figli. Questo però decurta ulteriormente il teorico reddito di 6 mila dollari a testa, perché alcune «teste» iraniane prendono mille volte più degli altri.

Questo è uno dei motivi dietro agli scontri che vediamo oggi: l’amarezza e la rabbia per la corruzione del regime, che impoverisce la popolazione, e che va lontano, ben oltre i figli dei potenti più altolocati: migliaia di religiosi non nascondono la loro ricchezza, a cominciare dalle loro vesti di Tasmania griffate, tremila euro ad abito. Buona parte dell’economia iraniana è in mano alle bonyad, fondazioni islamiche che erogano modeste pensioni alle vedove di guerra e altri indigenti, e grosse somme ai propri amministratori, soprattutto membri del clero e i loro parenti. La più grande di queste fondazioni, la Mostazafan Bonyad, conta più di 200 mila dipendenti distribuiti tra 350 società di ogni settore, dall’agricoltura al turismo, ed è un datore di lavoro molto generoso per orde di amministratori religiosi. E’ per questo che la folla oggi urla insulti al clero: non tutti i suoi membri sono corrotti, ma i religiosi con un tenore di vita molto alto sono abbastanza diffusi da incidere pesantemente sui famosi 6 mila dollari che in teoria gli iraniani hanno come reddito pro-capite.
Il motivo principale che provoca la rabbia popolare sono però indubbiamente i pasdaran, le Guardie della rivoluzione islamica, che costano all’Iran molto più di qualche centinaio di aghazadeh, o qualche decina di migliaia di religiosi benestanti. Sono costati innanzitutto migliaia di miliardi di dollari in sanzioni contro il nucleare, provocate dai Pasdaran e abolite dall’amministrazione di Obama. Continuano a costare miliardi, persi dall’Iran ogni anno a causa delle sanzioni sui missili balistici che Trump non revocherà mai. In più, ci sono i costi variabili delle avventure imperiali dei pasdaran, e quelli fissi delle loro industrie militari, che spendono parecchio sia per le armi convenzionali che per i fiammanti caccia invisibili «stealth» e i sottomarini modernissimi, che però restano in realtà invenzioni della propaganda.

Il militarismo e le avventure imperiali dei pasdaran sono lussi che l’Iran non si può permettere, e i manifestanti non nascondono di volerne fare a meno gridando «no Gaza, no Siria». Comunque vada a finire - se le manifestazioni verranno represse brutalmente, perlomeno stavolta la Casa Bianca non se ne sarà resa complice - i numeri dell’impero degli ayatollah non tornano e non gli permettono di andare avanti come prima, non più di quanto tornassero per l’Urss che non poteva continuare a mantenersi con il petrolio.

IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Il forgotten man iraniano è furioso"

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Daniele Raineri

Al sesto giorno consecutivo di proteste, il regime iraniano ha lasciato cadere ogni tentennamento e ogni atteggiamento di finta comprensione e ha cambiato la sua versione dei fatti: i manifestanti nelle piazze non sono più cittadini che sbagliano ma che pure avevano qualche ragione per essere arrabbiati come ha detto il presidente Hassan Rohani, adesso sono agenti mandati da paesi nemici, come dice l’ayatollah Khamenei, e quindi – sottinteso – come tali devono essere trattati. E’ il segnale che Teheran ha abbandonato la speranza che le proteste perdano forza e svaporino da sole e che le considera una minaccia reale per lo status quo. Il primo gennaio le Guardie della rivoluzione – che sono un corpo molto meglio selezionato e armato degli altri, oltre a essere ideologicamente molto più affidabile e compatto – hanno annunciato di avere preso la responsabilità dell’ordine pubblico nella capitale Teheran. Ora da un momento all’altro ci si aspetta che il vasto e ben rodato apparato di repressione iraniano sempre a disposizione del governo per rispondere alle sollevazioni popolari scatti (ancor più di quanto fatto finora, 23 morti e 450 arresti) contro questa protesta che viene da un lato inaspettato. Le marce sparse a macchia di leopardo in tutto l’Iran infatti non nascono dai giovani cosmopoliti di Teheran nord e dell’Onda verde del 2009, che questa volta sono molto in ritardo sulla piazza, ma scaturiscono prima di tutto dal ceto povero conservatore, dalla base solida del potere iraniano – quella che in teoria desidera la stabilità molto più delle libertà civili, ma che in questo caso è esasperata dall’economia stagnante. I testimoni raccontano di cortei con molte donne velate e lavoratori in difficoltà ed è un dettaglio rivelatore che siano cominciati a Mashhad, nell’est del paese al confine con l’Afghanistan, lontano dalle aspirazioni progressiste della capitale e dall’ideali - smo dei grandi campus universitari. Come l’America aveva lasciato da parte il forgotten man, il lavoratore che si sentiva dimenticato dalla politica e che poi si è tramutato in elettore furibondo e ha votato Donald Trump, così gli ayatollah hanno trascurato una fetta di iraniani. Yassemine Mather, un’attivista che cerca di raccontare senza romanticismi le proteste, dice che gli esempi dell’aumento improvviso del costo delle uova del 40 per cento e l’aumento degli affitti delle case negli ultimi tre anni in alcuni casi dell’80 per cento spiegano il disagio del forgotten man iraniano. Più che la donna che agita lo scialle bianco a Teheran come simbolo della lotta al velo obbligatorio, la scena simbolo potrebbe essere quella dell’iraniana in velo nero che grida all’indirizzo della Guida suprema: “Guarda le mie mani Khamenei, chi è che lavora qui, sei tu o sono io?”. Chi sperava che in Iran il deal sul nucleare del 2015 avrebbe portato più benessere ora non sta meglio, e per di più è spettatore di una politica estera da superpotenza ambiziosa e di una corruzione così dilagante nella classe dirigente che lo stesso Rohani ne ha parlato nel suo ultimo discorso il 10 dicembre. Da Mashhad, dall’est, le proteste si sono allargate rapidamente al resto dell’Iran con modi insoliti. Non sono adunate di massa come nel 2009 ma sono piuttosto piccoli cortei di qualche centinaio di persone, con slogan furiosi: cantano marg bar diktatur, morte al dittatore, riprendendo lo slogan marg bar Amrika, morte all’America, di migliaia di manifestazioni coreografate dal governo. A questa prima spinta naturalmente si aggiungono poi gli altri motivi di rabbia, il disprezzo dei diritti civili, la mancanza di libertà, l’arretratezza: “Usate l’islam per tenerci in povertà”, si è sentito tra gli slogan. Quanto ancora questa onda senza leader e senza un traguardo esplicito – che non sia assoluto: la fine della teocrazia – potrà andrà avanti per ora non è per nulla chiaro.

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