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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
02.01.2018 Iran: le analisi di un evento epocale
Analisi di Maurizio Molinari, Giordano Stabile, Daniele Raineri, Francesco Maselli, la disinformazione di Farian Sabahi

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Giordano Stabile - Daniele Raineri - Francesco Maselli
Titolo: «Iran, la rivolta che può cambiare il Medio Oriente - Miliardi ad Assad, in Libano e alle milizie sciite. Così Teheran prosciuga le casse dello Stato - Sentite le voci della piazza iraniana? - E ora Macron andrà a Teheran?»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/01/2018, a pag.1/25, con il titolo "Iran, la rivolta che può cambiare il Medio Oriente" l'ottimo editoriale di Maurizio Molinari; a pag. 11, con il titolo "Miliardi ad Assad, in Libano e alle milizie sciite. Così Teheran prosciuga le casse dello Stato", l'analisi di Giordano Stabile; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Sentite le voci della piazza iraniana?" l'analisi di Daniele Raineri; con il titolo "E ora Macron andrà a Teheran?", l'analisi di Francesco Maselli.

Sul MANIFESTO compare, a pag. 1, un articolo in difesa del regime iraniano di Farian Sabahi. La tecnica di Farian Sabahi è ben nota a chi si occupa di informazione sul Medio Oriente e ai dissidenti persiani: presentare una parte della dissidenza accettata dal regime degli ayatollah in modo da far apparire l'Iran teocratico come non troppo liberticida. La realtà, però, è differente. Farian Sabahi quando collaborava con La Stampa manipolò un'intervista a Abraham B. Yehoshua, il quale smentì con una lettera pubblicata sul quotidiano torinese. In quella circostanza Sabahi fu allontanata dalla Stampa.
Poi ha cominciato a collaborare al Corriere della Sera e al Sole 24 Ore propagandando l'immagine di un Iran moderato, lontanissima dalla realtà: un "Iran-washing" con cui cerca di ripulire il regime degli ayatollah dai crimini che quotidianamente compie. Oggi la vediamo scrivere sul Manifesto: il posto più indicato per le sue idee. Informazione Corretta ha già denunciato più volte l'attività di Sabahi.
Per avere maggiori informazioni sul lavoro da lei svolto in Italia, è utile sentire l'opinione dell'opposizione iraniana in esilio nel nostro Paese.


Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Iran, la rivolta che può cambiare il Medio Oriente"

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Maurizio Molinari

Il nuovo anno inizia nel segno della rivolta contro il carovita in Iran, che ha tre risvolti: testimonia la forza indomabile di un popolo antico, evidenzia l’entità dei cambiamenti in atto in Medio Oriente e mette a dura prova i leader dell’Occidente. Le proteste iniziate giovedì a Mashad nascono dallo scontento per l’aumento del costo della vita dovuto alla necessità della Repubblica islamica di finanziare gli interventi militari in Siria, Iraq, Libano e Yemen a sostegno di milizie sciite strumento del disegno di estendere l’egemonia iraniana sull’intero Medio Oriente. Si tratta del cuore stesso del regime, perché tale imponente apparato militare e di intelligence è incarnato dai Guardiani della Rivoluzione, che rispondono direttamente alla Guida Suprema della Rivoluzione, Ali Khamenei, e gestiscono anche gran parte delle risorse economiche nazionali senza troppo curarsi delle altre istituzioni della Repubblica islamica, a cominciare dal governo del presidente Hassan Rohani. Il fatto che gli iraniani, oggi in gran parte nati dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, abbiano la forza, l’energia e il coraggio di contestare il nucleo duro del regime degli ayatollah, al suo apogeo militare ed oramai privo di una reale opposizione politica interna, lascia intendere quanto siano radicati, estesi, condivisi i principi di libertà personale e rispetto per i diritti individuali. A quasi 40 anni dall’avvento della teocrazia degli ayatollah negli iraniani resta intatta la voglia di libertà che li portò a rivoltarsi contro la dittatura dello Shah, e ciò suggerisce alle democrazie la necessità di mostrare a questo popolo antico tutto il rispetto che merita.

Per quanto concerne il Medio Oriente le proteste iraniane evidenziano la veridicità di uno dei principi-cardine della vita nel deserto: chi sembra forte non sempre lo è, e chi sembra debole non sempre lo è. L’Iran infatti è il più importante vincitore della guerra civile siriana, controlla una Mezzaluna di territori contigui da Teheran a Beirut - passando da Baghdad e Damasco - e tiene in scacco militare l’Arabia Saudita grazie ai ribelli houthi dello Yemen, che riescono perfino a minacciare Riad con i loro missili. L’arrivo delle avanguardie militari iraniane, affiancate dagli Hezbollah, alle pendici del Monte Hermon a meno di 10 km da Israele descrive l’indubbio successo tattico regionale dovuto al formidabile e spietato generale Qassem Suleimani, regista e guida di ogni operazione bellica all’estero, inclusa Hamas nella Striscia di Gaza. L’intento di Suleimani, che risponde solo a Khamenei, è di travolgere gli Stati sunniti e distruggere Israele per piegare agli sciiti l’intera regione da Hormuz a Suez come non è mai avvenuto dall’avvento nell’Islam. Ma tale e tanto sfoggio di potenza militare non ha alle spalle un’economia solida né tantomeno il sostegno popolare e così Teheran si trova obbligata a fare i conti con le proprie debolezze: un sistema produttivo non diversificato, la corruzione dilagante, l’accentramento della ricchezza nelle mani di pasdaran e ayatollah, la rabbia dei giovani che preferiscono Instagram alla sharia. La sovraesposizione bellica si è così trasformata in un boomerang, finendo per evidenziare le debolezze della Repubblica islamica.

Se tutto questo mette alla prova l’Occidente è perché quando nel giugno del 2009 l’Onda verde della protesta iraniana sfidò il regime, contestando i risultati della riconferma alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad, gli Stati Uniti e l’Europa si voltarono dall’altra parte. Moltitudini di iraniani credettero che l’Occidente li avrebbe ascoltati e sostenuti. Ricevettero invece solo un tradimento, morale e politico, il cui primo - ma non solo - responsabile fu il presidente americano Barack H. Obama che, anziché sostenere le loro grida di libertà, scrisse in segreto a Khamenei, offrendogli un dialogo che sei anni dopo avrebbe portato all’accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano corredato dalla fine delle sanzioni con imbarazzanti dettagli segreti che solo ora iniziano ad affiorare: dalla spedizione con un aereo militare di un miliardo di dollari in contanti ai pasdaran al blocco delle indagini dell’Fbi sui traffici illeciti degli Hezbollah fino all’avvertimento a Teheran che il generale Suleimani rischiava di essere eliminato da Israele. Scegliendo il silenzio davanti alla repressione dell’Onda verde Obama indirizzò l’America, e trascinò l’Europa, verso l’appeasement con lo stesso regime che oggi gli iraniani tornano a contestare a viso aperto, rischiando le proprie vite. Da qui l’importanza della scelta dell’amministrazione Trump di schierarsi subito dalla parte dei manifestanti e l’interrogativo se la Casa Bianca riuscirà a far seguire alle parole i fatti. È un bivio che riguarda anche l’Europa: dopo le prime timide dichiarazioni da Berlino e Bruxelles ha l’occasione per invertire drasticamente la rotta rispetto agli errori compiuti con gli ayatollah negli ultimi otto anni.

LA STAMPA - Giordano Stabile: "Miliardi ad Assad, in Libano e alle milizie sciite. Così Teheran prosciuga le casse dello Stato"

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Giordano Stabile

È uno degli slogan che si sentono nei video inviati in Rete dai manifestanti: «Non per Gaza, non per il Libano, non per la Siria, la mia vita per l’Iran». Ed è una delle ragioni che hanno spinto migliaia di persone nelle piazze in tutto il Paese. Gli ingenti investimenti nelle guerre per procura in Medio Oriente. Soldi che, secondo l’opposizione, avrebbero potuto migliorare, e di molto, le condizioni di vita degli iraniani. Non ci sono cifre ufficiali, ma dalla fine del 2011, quando le primavere arabe si sono trasformate in un confronto fra Iran e alleati sciiti contro le potenze sunnite allineate con l’Occidente, decine di miliardi sono affluiti in tutta la regione per sostenere la politica di influenza della Repubblica islamica.

Il fronte più importante è stata la Siria. Banche a partecipazione statale hanno aperto almeno due linee di credito a favore del governo di Bashar al-Assad, una pari a 3,6 miliardi di dollari nel 2013 e l’altra di un miliardo nel 2015. Questi soldi sono stati usati da Damasco anche per acquistare petrolio e gas, in parte dallo stesso Iran, dopo che l’Isis e altri gruppi jihadisti si erano impadroniti dei giacimenti nella Siria orientale. Ma sono solo una parte degli aiuti. A partire dal 2013 un «ponte aereo» fra l’Iran lo scalo di Mezzeh, a Sud-Ovest della capitale siriana, ha rifornito di armi e munizioni alle milizie sciite a fianco del regime. Un sostegno nell’ordine delle centinaia di milioni di dollari.

Altri soldi sono stati spesi per pagare gli stipendi ai combattenti sciiti, soprattutto iracheni e afghani. Il salario medio è stimato in 300 dollari al mese, il numero dei combattenti, esclusi quelli libanesi di Hezbollah, fino a 50 mila. Si arriva così a circa 180 milioni all’anno. Altre spese sono state sostenute per l’addestramento, il trasferimento di armi e combattenti, aiuti alle famiglie con parenti caduti al fronte. Stesso tipo di sostegno, anche se in scala più limitata, è toccato alle milizie sciite in Iraq. Parliamo di circa 100 mila uomini. Sono però milizie-partiti, con fonti di finanziamento locale, e quindi i trasferimenti iraniani riguardano armi e addestramento. Non miliardi all’anno come in Siria, ma centinaia di milioni.
Il modello per tutta questa operazione è stato l’Hezbollah libanese, la prima milizia addestrata dai Pasdaran, già alla metà degli Anni Ottanta. Anche se i legami politici sono strettissimi, il Partito di Dio libanese è però riuscito a rendersi indipendente, soprattutto dopo la guerra con Israele del 2006. Dispone di una rete di aziende, istituti finanziari, e una raccolta efficiente di «elemosine», anche da parte di ricchissimi imprenditori libanesi. Gli aiuti diretti dall’Iran sono stimati da un minimo di 60 milioni di dollari all’anno a un massimo di un miliardo, ma si situano nella parte bassa della forchetta. Sono aiuti in «natura». Cioè armi e componenti missilistiche che passano dall’Iraq e la Siria, lungo il famigerato«corridoio sciita».
Il modello Hezbollah è stato replicato, in misura ridotta, con la milizia Ansar Allah degli Houthi in Yemen. I servizi occidentali sostengono che alcune decine di addestratori iraniani e libanesi sono riusciti a eludere il blocco saudita e unirsi ai guerriglieri yemeniti per fornire assistenza per la produzione missilistica e addestramento militare. Dall’Iran sarebbero anche giunte forniture di parti di missili, poi lanciati su Riad e altri obiettivi in Arabia Saudita. Molto più organica la collaborazione invece con gruppi estremisti, in questo caso sunniti, a Gaza. Fino al 2012 Hamas riceveva, secondo i servizi israeliani, almeno 100 milioni all’anno in finanziamenti diretti e in «natura» (armi). Il flusso si è più che dimezzato dopo che il movimento legato ai Fratelli musulmani si è schierato contro Assad in Siria. Gli aiuti si sono indirizzati allora, fino a 70 milioni annui, alla Jihad islamica, una formazione ancora più estremista, che lancia regolarmente razzi dalla Striscia verso Israele.

IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Sentite le voci della piazza iraniana?"
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Daniele Raineri
 
Roma. Chissà se adesso che lo gridano i cittadini scesi a protestare nelle strade iraniane e a fronteggiare la repressione (ci sono dodici morti) per il quinto giorno consecutivo suonerà più credibile una delle grandi verità del medio oriente: l’Iran sta dilagando nella regione perché spende cifre enormi all’estero per finanziare campagne di espansione aggressiva. “No a Gaza, no al Libano, no alla Siria: la mia vita per l’Iran” e anche “Noi non siamo filoarabi, siamo iraniani” sono gli slogan espliciti che si sentono in piazza contro il governo di Teheran, accusato di dilapidare risorse per creare e mantenere eserciti irregolari che partecipano alle guerre nei paesi arabi vicini, a scapito dei cittadini lasciati a cavarsela con un’economia di ristrettezze. La vittoria nella guerra civile in Siria, la presenza fortissima in Iraq e in Libano, le intromissioni generose nella Striscia di Gaza e in Yemen sono state comprate da Teheran a prezzo carissimo e si capisce che gli iraniani – soprattutto quelli che stanno dalla parte sbagliata dello stipendio medio nazionale di undicimila e cinquecento euro l’anno – siano imbufaliti. Quanto il governo abbia speso negli ultimi anni è materia opaca, le Guardie della rivoluzione (che hanno un ruolo di comando negli interventi militari all’estero) non ci tengono a pubblicare rendiconti di quanto investono in queste campagne. Le stime tuttavia sono interessanti. Secondo l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, il neutro Staffan De Mistura, l’Iran ha speso nella guerra civile in Siria una cifra tra i cinque e i ventinove miliardi di euro l’anno. Per avere un termine di paragone, l’intero budget militare dell’Iran è di tredici miliardi di euro l’anno. Del resto le guerre esterne sono costosissime: i cinquantamila uomini delle milizie filoiraniane in Siria prendono una paga di duecentocinquanta euro, il che vuol dire che soltanto loro costano ogni mese dodici milioni e mezzo di euro. Teheran inoltre regge in piedi di fatto la macchina statale della Siria del presidente Bashar el Assad prestando una quantità enorme di denaro senza una vera garanzia di vederlo tornare indietro: nel 2013, quando le cose per Assad andavano molto male, concesse un credito per più di ottocento milioni di euro e nel 2015, prima dell’intervento russo – quindi quando ancora l’esito della guerra civile era un’incognita –, concesse un credito ancora più alto di circa tre miliardi di euro. Quei soldi furono usati dal governo siriano anche per comprare beni di consumo iraniani, quindi in un certo senso tornarono all’economia dello stato sponsor, ma per adesso e fino a quando le condizioni in Siria non saranno stabili più che di un prestito si tratta di un investimento a fondo perduto. Veniamo al gruppo libanese Hezbollah.
 
Due anni fa il leader Hassan Nasrallah, durante un discorso in tv, disse che imporre sanzioni economiche contro imprenditori ed enti del Libano per ostacolare le attività di Partito di Dio è inutile perché “tutti i soldi che abbiamo ci arrivano dall’Iran”. Fu un’ammissione importante e scontata. Hezbollah fu fin dall’inizio una creazione del governo iraniano, grazie a un budget annuo che la Cia americana nel 2010 valutò tra gli ottantatré e i centosessantasei milioni di euro – gli analisti libanesi tendono più verso questa seconda cifra della forchetta. Tanto per fare un paragone, il budget del nostro ministero della Pubblica istruzione è di cinquantadue milioni di euro, quindi l’Iran con lo stesso denaro potrebbe far marciare tre sistemi scolastici italiani. C’è da considerare tuttavia che queste stime risalgono a prima che Hezbollah cominciasse a combattere con migliaia di uomini in Siria. Secondo una valutazione fatta quest’anno dall’eser - cito israeliano di quest’anno, adesso i soldi dell’Iran per Hezbollah sono arrivati a seicentonovantuno milioni di euro l’anno. Questa somma potrebbe essere compresa nel budget della guerra siriana (anche se non lo crediamo, perché si tratta di due operazioni militari e politiche distinte, quella in Libano risale a molto prima). Non comprese nel bilancio ci sono le spese per i due gruppi palestinesi più forti della Striscia di Gaza, Hamas che prende quarantuno milioni di euro l’anno e il Jihad islamico che prende cinquantotto milioni di euro (quest’ultimo di più perché in questi anni non si è mai ribellato all’Iran). Non ci sono valutazioni disponibili per l’impegno in Yemen, che è in uno stadio ancora molto discreto.

IL FOGLIO - Francesco Maselli: "E ora Macron andrà a Teheran?"
 
Se le manifestazioni degli ultimi giorni non degenereranno, venerdì 6 gennaio il ministro degli Esteri francese JeanYves Le Drian andrà a Teheran per preparare il terreno alla visita ufficiale di Emmanuel Macron, prevista nei prossimi mesi. Sarebbe il primo presidente francese a entrare in Iran dal 1976, quando Valéry Giscard d’Estaing incontrò a Teheran lo shah Reza Pahlavi. Il paese si chiamava Persia, e non c’era stata ancora la rivoluzione islamica. La visita di Le Drian arriva in un momento di grande difficoltà nelle relazioni tra i due paesi. Dopo l’elezione di Emmanuel Macron, che aveva lasciato intendere di voler abbandonare la linea molto dura nei confronti di Teheran tenuta dalla diplomazia francese negli ultimi anni, si pensava che Parigi sarebbe stata l’avanguardia di un nuovo rapporto europeo con il paese sciita. In questo senso gli accordi miliardari tra grandi aziende come Total e Renault e gruppi iraniani costituivano un segnale importante. Tuttavia, l’aggravarsi della crisi tra Iran e Arabia Saudita e il ruolo giocato nella crisi libanese dal presidente avevano riportato la Francia al fianco del mondo sunnita. Le proteste di queste ore complicano la situazione: il viaggio doveva essere un segnale di distensione, ma per Macron potrebbe essere molto difficile spiegare una foto con Hassan Rohani a Teheran dopo lunghe manifestazioni di piazza e 12 morti.
Il governo francese non ha commentato quanto accaduto, ma è ancora possibile immaginare la visita di Le Drian, malgrado le manifestazioni che sembrano continuare e addirittura ampliarsi? I francesi restano grandi sponsor del deal sul nucleare, ma non intendono cedere su tutti gli altri dossier, in particolare sul ruolo dell’Iran nella regione e sul suo programma missilistico convenzionale, che giudicano ambiguo e oltremodo pericoloso per la stabilità. Parigi ha più volte spiegato che controllerà da vicino le ricerche iraniane, e lo stesso Macron ha giudicato, lo scorso novembre, “necessa - rio, come è stato fatto nel 2015 per inquadrare meglio l’attività nucleare, inquadrare meglio l’attività balistica iraniana e aprire un processo, con delle sanzioni se sarà necessario, che permetterà di farlo”. “Sulle questioni di difesa non domandiamo il permesso a nessuno. Chi è Macron per occuparsi di questi affari?”, aveva subito risposto Ali Akbar Velayati, consigliere della guida suprema Ali Khamenei. A ciò si aggiunge il sentimento anti-iraniano molto presente al ministero degli Esteri francese: “Gli alti funzionari del Quai d’Orsay (sede del ministero degli Esteri) sono, se non ostili, quantomeno molto diffidenti nei confronti dell’Iran”, spiega al Foglio una fonte diplomatica francese, “è un retaggio culturale che viene dagli anni Ottanta, ma che pesa molto nell’applicazione pratica delle relazioni tra i due paesi”. La direction des affaires stratégiques, de sécurité et du désarmement, una delle direzioni del ministero degli Affari esteri incaricata dei rapporti con Teheran, “conduce una politica molto allineata a quella della Nato e degli Stati Uniti. Questa direzione, al cuore dei negoziati sul nucleare, era tra le delegazioni europee più dure e diffidenti verso l’Iran”. Esiste una sostanziale differenza di vedute tra l’Unione europea e la Francia. Federica Mogherini ha sempre evitato di utilizzare espressioni poco amichevoli nei confronti di Teheran. Jean Yves Le Drian, al contrario, non è mai stato tenero: “Le azioni dell’Iran ci preoccupano. Penso in particolare agli interventi nelle crisi regionali, frutto di una tentazione egemonica, oltre al programma balistico”, aveva detto a novembre, durante una sua visita in Arabia Saudita. Le Drian ha sempre parlato dei sauditi come degli “alleati”, non utilizzando mai la stessa espressione nei confronti degli iraniani. Macron, dal canto suo, ha tenuto un discorso meno aggressivo durante i primi mesi di mandato: “Ci sono alcuni che vorrebbero vedere i paesi occidentali sostenere soltanto una parte tra sciiti e sunniti. Ma noi rifiutiamo questo approccio, il ruolo della Francia è parlare con chiunque”, diceva soltanto a inizio novembre, salvo poi cambiare tono il 29 novembre, a margine del summit di Abidjan, in Costa d’Avorio: “L’Iran non è un partner, ma soltanto un paese con cui abbiamo relazioni per l’accordo sul nucleare”. Secondo la fonte diplomatica, il doppio discorso è voluto: “E’ una caratteristica tradizionale della diplomazia francese, permette di tenere tutte le opzioni aperte ed evitare di restare chiusi in un angolo”. L’Iran non ha gradito in particolare le parole del presidente francese sul missile, partito dallo Yemen, intercettato all’altezza della periferia di Riad il 4 novembre scorso. L’attacco era stato rivendicato dai ribelli Houthi, sostenuti indirettamente dall’Iran, e Macron aveva attribuito “manifestamente” la fabbricazione del missile agli iraniani, circostanza smentita da Teheran, che da settimane accusa i francesi di avere scelto i sauditi nella contesa regionale. I rapporti non sono aiutati dall’atteggiamento degli alleati della Francia: “Ultimamente il contenuto delle conversazioni private tra Donald Trump e Macron, così come tra il re Salman e Macron, è stato reso pubblico prima che questo venisse concordato con Parigi, come di solito è prassi. E il contenuto ha irritato gli iraniani”, continua la nostra fonte. Ci spiega, tra le altre cose, che gli iraniani non hanno un atteggiamento conciliante a prescindere da parecchio tempo, e cercano di intralciare, per quanto possibile, il lavoro dei francesi nel paese: il direttore dell’Institut français de recherche en Iran attende di poter occupare il suo posto da più di un anno perché il visto gli viene negato senza alcuna ragione precisa. Stessa sorte per il direttore del Cen - tre de langue française de Teheran, l’altro strumento fondamentale per la politica estera. Il governo francese non ha reso dichiarazioni ufficiali in materia, ma è probabile che anche di questo discuterà Jean Yves Le Drian, venerdì. Ammesso che parta.

 

 

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