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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa-La Repubblica Rassegna Stampa
31.12.2017 Iran: reprime nel sangue la protesta. Solo Trump parla chiaro
Analisi di Giordano Stabile, cronaca di F.Semprini, F.Caferri intervista inutile con Shirin Ebadi

Testata:La Stampa-La Repubblica
Autore: Giordano Stabile-Francesco Semprini-Francesca Caferri
Titolo: «Il duello fra giovani e Pasdaran-Trump cavalca il disseno e avverte gli ayatollah il mondo vi tiene d'occhio-Shirin Ebadi: questi ragazzi non si fermeranno,vogliono un paese diverso»

Sulla rivolta contro il regime degli ayatollah, riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 31/12/2017 a pag.1/4/5 l'analisi di Giordano Stabile.
Da New York il pezzo di Francesco Semprini, del quale non appreziamo il tono gratuitamente ironico nei confronti di Trump. "inquilino della Casa Bianca", "cavalca l'onda di protesta per rilanciare la crociata contro la Repubblica islamica". Sono altre le valutazioni sull'Iran che andrebbero fatte, tra le più significative essere il centro del terrorismo che da Teheran colpisce l'intero Medio Oriente. Altro che 'Trump cavalca il dissenso'!
Dalla REPUBBLICA, a pag.7, Francesca Scaferri intervista Shirin Ebadi, la riprendiamo preceduta da un nostro commento.

La Stampa- Giordano Stabile: "Il duello fra giovani e Pasdaran"

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Giordano Stabile         Pasdaran con i manganelli

Nel terzo giorno di manifestazioni contro gli ayatollah, nelle strade di Teheran si sono confrontati due Iran. Il governo, dopo aver cercato di mettere la sordina alle proteste, ha deciso di reagire e ha messo in campo i suoi sostenitori, nel tentativo di eclissare i dimostranti che continuano a cantare «abbasso Rohani», «abbasso il dittatore» e «libertà, libertà». Centinaia di pullman hanno trasportato dalla provincia nella capitale migliaia di uomini in uniforme nera, e soprattutto donne, anche loro vestite di nero, velate e con in mano i ritratti di Khomeini e Khamenei. Le immagini del grande raduno, vicino al mausoleo dove è sepolto il fondatore delle Repubblica islamica e al grido «morte ai sediziosi», hanno saturato i media filo-governativi. La manifestazione pro-regime si tiene ogni anno per ricordare la «vittoria» contro l’Onda verde del 2009, quando i riformisti vennero schiacciati dalla milizia basij di Mahmoud Ahmadinejad, ma adesso è arrivata in parallelo con la prima ondata di arresti, almeno 52, e l’avvertimento del ministro dell’Interno Abdolrahman Rahmani Fazli a evitare «raduni illegali» per «non creare problemi a sé e agli altri». Le manifestazioni sono continuate lo stesso. Sul Web sono apparsi video che mostrano centinaia di persone, vestite all’occidentale, marciare a Teheran ma anche nella città santa di Qom, culla dello sciismo iraniano, e scandire slogan contro il regime, per la liberazione «dei prigionieri politici», contro i soldi indirizzati negli interventi in Siria e Iraq «mentre noi siamo costretti a chiedere l’elemosina», e persino a favore dello scià Reza Pahlavi, deposto nel 1979: «Che riposi in pace». Altri filmati sono arrivati da Rasht, Hamedan, Kermanshah, Qazvin, dove la polizia ha disperso i dimostranti con i cannoni ad acqua. A Dorood, nella provincia del Lorestan, invece, i pasdaran sparano sulla folla uccidendo tre persone, ma sul sito di «Al Arabiya», che cita fonti locali, si parla di sei vittime. La risposta del regime è stata comunque più contenuta, finora, rispetto al 2009. Pur diffuse in tutto il Paese, le manifestazioni non hanno ancora le dimensioni massicce dell’Onda verde. Anche la direzione politica è poco chiara. Il movimento sembra spontaneo, una reazione rabbiosa agli aumenti dei prezzi nei beni di prima necessità, dalla benzina agli affitti, non più calmierati dai sussidi, ridotti nell’ultima legge di bilancio, e anche al fallimento di fondi di investimento legati a istituti religiosi, che hanno bruciato i risparmi di intere famiglie. Le riforme promesse dal presidente Hassan Rohani, eletto per la prima volta nel 2013, sono rimaste a metà del guado. I benefici dell’accordo sul nucleare, finalizzato due anni fa, nel dicembre del 2015, ancora non si vedono, anche se le grandi imprese europee sono tornate in Iran con investimenti per decine di miliardi. Ora Rohani dovrà decidere se cedere alle pressioni degli oltranzisti o continuare a usare la mano morbida. Il governo appare diviso. Uno dei vicepresidenti, Massoumeh Ebtekar, ha accusato i dimostranti di essere «eterodiretti» da potenze straniere (Usa e Israele), anche se ha ribadito il loro «diritto a manifestare». Dal fronte più riformista, Hesamoddin Ashena, consigliere culturale del presidente, ha insistito sul fatto che «il popolo ha diritto di essere ascoltato» mentre il Paese «affronta sfide difficili, disoccupazione, carovita, corruzione, mancanza di acqua, diseguaglianze e ingiusta ripartizione del bilancio pubblico». In pratica tutte le storture che Rohani aveva promesso di raddrizzare. Gli oppositori fanno notare come negli Anni Duemila, segnati dai due disastrosi mandati di Ahmadinejad e dalle sanzioni internazionali, il Pil dell’Iran, che era superiore a quello della Turchia, adesso sia soltanto la metà, nonostante la produzione di quattro milioni di barili di petrolio al giorno. Ma anche il campo dei conservatori sta manovrando, e paradossalmente potrebbe sfruttare a suo vantaggio il malcontento. Lo stesso Ahmadinejad conduce una campagna sotterranea in vista delle prossime elezioni politiche del 2020, fatta di dichiarazioni pubbliche e messaggi sui social network. Se le manifestazioni dovessero assumere una tinta apertamente anti-regime, a Rohani resteranno pochi spazi di manovra. Un primo assaggio si è visto ieri all’Università di Teheran, al centro dei movimenti di protesta già nel 1999, poi nel 2003, fino alla sanguinosa repressione nei dormitori studenteschi del 2009. Da allora l’ateneo è una «linea rossa» per il regime. Ieri un piccolo raduno di universitari è stato sopraffatto dalla manifestazione pro-regime. Gli ayatollah sanno bene come il movimento studentesco possa fare da carburatore a tutte le rivoluzioni. E faranno di tutto per soffocarlo in tempo.

La Stampa-Francesco Semprini:" Trump cavalca il disseno e avverte gli ayatollah il mondo vi tiene d'occhio"

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Francesco Semprini

La «protesta perfetta», perfetta per Donald Trump. Le manifestazioni in corso in Iran contro il carovita sono state un assist imperdibile per il presidente americano pronto a mettere a segno la stoccata di fine anno su uno degli argomenti di politica internazionale a lui più cari, ovvero «fermare Teheran» forte anche della convinzione che «l’oppressione non può durare in eterno». E così Trump coglie l’attimo per scatenare su Twitter l’offensiva contro quello che, a suo dire, è lo sponsor del terrorismo per eccellenza, lo Stato canaglia che minaccia la pace in Medio Oriente. È piena notte in America quando il presidente fa partire il suo cinguettio, proprio mentre in Iran studenti e lavoratori si radunano per il terzo giorno di manifestazioni. «I cittadini iraniani sono stufi della corruzione del regime e dello sperpero della ricchezza della nazione per finanziare il terrorismo all’estero», scrive l’inquilino della Casa Bianca. «Il governo iraniano dovrebbe rispettare i diritti del suo popolo, incluso quello di espressione. - prosegue utilizzando l’hashtag #IranProtests - Il mondo sta guardando». A guardare è soprattutto l’amministrazione Trump pronta a cavalcare l’onda di protesta per rilanciare la crociata contro la Repubblica islamica partendo dallo smantellamento dell’accordo sul programma nucleare del 2015. E quale miglior occasione se non quella di legittimare la campagna condannando un’ondata repressiva nei confronti della protesta in corso nel Paese, come accadde nel 2009 con l’Onda verde messa a tacere dall’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad. L’afflato di Washington questa volta è corale, visto che le medesime parole twittate dal presidente sono ribadite poco dopo da Sarah Sanders, la portavoce della Casa Bianca. E a farsi sentire è anche Heather Nauert, la collega del dipartimento di Stato che condanna con fermezza gli arresti compiuti ai danni dei manifestanti. «La leadership iraniana ha trasformato una nazione ricca e con un grande patrimonio storico e culturale in uno Stato canaglia impoverito e che esporta violenza, sangue e caos», dichiara il Dipartimento di Stato. «Come ha detto il presidente Trump - prosegue la diplomazia Usa - le prime vittime che da troppo tempo soffrono per colpa della leadership iraniana sono gli iraniani stessi». La replica di Teheran è affidata al portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Bahram Ghasemi: «Il popolo iraniano non dà credito alle dichiarazioni ingannevoli e opportunistiche del signor Trump o dei suoi funzionari». Opportunistiche forse, ma senza dubbio funzionali all’agenda di politica estera del 45° presidente Usa che ha tra i suoi punti salienti - ma incompiuti - una dura stangata nei confronti della Repubblica islamica. A partire dalle ambizioni nucleari dell’ayatollah Khamenei che, secondo il presidente, non sono state accantonate con il «Joint Comprehensive Plan of Action», l’accordo siglato, tra gli altri dal suo predecessore Barack Obama, nell’ambito dell’intesa raggiunta all’Onu. Per il «commander-in-chief» quell’accordo è il peggiore possibile ed è stato «violato sistematicamente nello spirito» dal Paese guidato da Hassan Rohani. I tentativi di smantellarlo non sono però andati a buon fine sino ad ora ma, secondo fonti vicine alla Casa Bianca, Trump è pronto a inaugurare, già da metà gennaio, una nuova offensiva per abbatterlo. Trump se la dovrà comunque vedere con gli alleati europei secondo cui l’accordo, sebbene perfezionabile, è il migliore possibile al momento. Oltre al fatto che la puntuale solidarietà alle rivendicazioni del popolo iraniano da parte dell’amministrazione Usa - avvertono i critici - non trova eguali nelle reiterate proteste interne ad Arabia Saudita e Bahrein, o ai massacri dei civili yemeniti perpetrati della coalizione militare guidata da Riad. Ma è proprio questo il punto, l’intesa tra Trump (forte dell’appoggio dei falchi conservatori), Israele e Arabia Saudita, nell’ambito del nuovo ordine regionale inaugurato dallo stesso presidente Usa - con il riconoscimento di Gerusalemme capitale e la delega a Riad di «nuovo broker» del processo di pace in Medio Oriente - vede in Teheran - principale vincitore della guerra contro lo Stato islamico - il rivale da indebolire. Ad ogni costo.

La Repubblica-Francesca Caferri: " Shirin Ebadi: questi ragazzi non si fermeranno,vogliono un paese diverso "

 Nessuno dubita che gli iraniani vorrebbero vivere in un paese diverso dalla dittatura degli ayatollah, specializzata nel fare guerre per allungare il potere sugli stati della regione. Le guerre costano, chi ne soffre sono gli iraniani. Nel 2009 avevano provato a ribellarsi, ma l'Occidente rimase in silenzio e fu un bagno di sangue.  Ora trump alza la voce, e i media lo criticano. L'intervista di Caferri a Shirin Ebadi non aggiunge nulla di nuovo. Vive negli Usa, ha avuto il premio Nobel per la pace, insegna in una università, non risultano iniziative a suo nome in aiuto ai suoi ex connazionali. I collaboratori del suo studio, meno fortunati ldi ei, sono rimasti in Iran, tutti finiti in prigione. Ebadi non è una dissidente degna di questo nome, non dissente, l'Iran è lontano.

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Shirin Ebadi in Iran                 ... in USA


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Francesca Caferri

Avvocato per i diritti umani e prima ancora giudice, premio Nobel per la Pace nel 2003 per il suo lavoro di instancabile difesa dei diritti umani, Shirin Ebadi è da armi la coscienza critica dell'Iran. Per continuare a difendere le cause in cui crede, dal 2009 ha dovuto lasciare il suo Paese e condannare sè stessa e la sua famiglia a un esilio di cui non si vede la fine: ma troppo grande era per lei, e per quelli che con lei vivevano e lavoravano, il rischio di restare in patria. Proprio quel 2009 in cui il sogno di un Iran diverso si scontrò con la brutalità della repressione, con centinaia di morti perle strade di tutto il Paese, è la prima cosa che le viene alla mente quando guarda quello che sta accadendo in queste ore in Iran. «Questo può davvero essere l'inizio di qualcosa di molto grande», dice. Signora Ebadi, le proteste di questi ultimi giorni sono molto diverse rispetto a quelle del 2009: politiche quelle di allora, tutte economiche quelle di oggi. Perché crede che possano essere il sintomo di una nuova crisi politica? Non potrebbero fermarsi una volta risolte le questioni economiche che le hanno sollevate? «No. Io credo che non finiranno tanto presto. A mio parere stiamo assistendo all'inizio di una grande Corruzione, disoccupazione e rabbia per le forti spese militari sono gli ingredienti di quello a cui stiamo assistendo in queste ore nelle strade protesta che può superare come effetto, andare ben oltre rispetto a quello a cui abbiamo assistito con l'Onda verde del 2009. Io non mi meraviglierei se diventasse qualcosa si più grande rispetto a quello a cui assistemmo in quelle giornate». Cosa la spinge a dire questo? «Semplice. Il fatto che in Iran, e non da oggi, c'è una gravissima crisi economica. La corruzione in tutto il Paese è a livelli spaventosi. La fine di alcune sanzioni legata alla firma dell'accordo sul nucleare con Europa e Stati Uniti nel 2015 non ha portato benefici reali alla gente, come invece molti si auguravano. Le sanzioni americane continuano ad essere in vigore e ciò scoraggia gli investimenti non soltanto degli americani, ma di tutti gli stranieri. 11 risultato èche perla gente della strada non è cambiato molto. A ciò si aggiunge il fatto che l'Iran ha una altissima spesa militare: le persone non tollerano più di vedere così tanti soldi spesi per questo motivo». Come nel 2009, anche in queste ore sono i giovani in prima fila nelle piazze e nelle strade di tutto il Paese. «I giovani, i più delusi. Più di tutti gli altri speravano che con la firma dell'accordo sul nucleare di due anni fa sarebbe migliorata la situazioneeconomica del Paese, cosa che come le dicevo prima non è avvenuta. E poi ci sono altri fattori che spiegano la loro rabbia: la disoccupazione così alta li spinge alla protesta. Assistere al dilagaredella corruzione genera rabbia. E il clima di censura che si respira nelle strade rende la gente insoddisfatta della vita che conduce». E le donne? Sono protagoniste di alcuni dei filmati più duri che arrivano dall'Iran in queste ore... «Le donne sono sempre state in prima fila, hanno sempre combattuto per la loro causa in Iran. Ma questa non è una protesta di genere. La situazione economica e la spaventosa differenza economica fra i ricchi e i poveri, fra chi può godere del benesseree chi non può, sono i motivi alla base di questa protesta. La forbice sociale in questi anni non ha fatto che allargarsi, e questo è uno degli elementi chiave per capire quello che sta accadendo». Non teme che la politica dura di Trump contro il governo iraniano possa spingere la gente a stare dalla *** parte del regime? «Era un timore di cui si è parlato nelle settimane passate, ma mi sembra chiaro che non si è trasformato in realtà. Le proteste di questi giorni dimostrano che la gente sta prendendo le distanze dal regime, non ha intenzione di appoggiarlo in modo acritico. Nonostante Trump». Parliamo di Europa: stretta fra gli Usa diventati un partner distante e una situazione regionale sempre più complessa, la Ue pare paralizzata. Cosa può fare per il suo Paese? «L'Europa deve pensare a insistere sul rispetto diritti umani in Iran prima di firmare qualunque accordo commerciale. Le faccio un esempio che vi riguarda da vicino. Qualche tempo fa abbiamo visto un'Italia che pur di vendere oggetti di lusso italiani a Teheran si è dimostrata pronta a coprire le sue bellissime opere d'arte. Questo non va bene. Occorre esigere il rispetto delle visioni diverse e dei diritti umani».

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