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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera-La Repubblica Rassegna Stampa
10.12.2017 Corriere & Repubblica: l'uno la copia dell'altro, titoli e contenuto
Lorenzo Cremonesi e Francesca Caferri

Testata:Corriere della Sera-La Repubblica
Autore: Lorenzo Cremonesi-Francesca Caferri
Titolo: «Ancora morti a Gaza.Cancellati gli incontri con l'inviato Usa-Proteste in Israele contro Bibi e ancora due morti a Gaza»

Corriere e Repubblica si assomigliano sempre di più nella loro disinformatzia su Israele. Oggi,10/12/2017, persino le titolazioni sono quasi identiche.
Riprendiamo i due articoli con un nostro commento.

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Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi:"Ancora morti a Gaza. Cancellati gli incontri con l'inviato Usa"

Secondo lo 'stile' di Cremonesi, apparentemente equilibrato, nella sostanza infuenza il titolista che scrive "ancora morti a Gaza", senza precisare che dalla Striscia partivano i razzi contro Israele, che non ha fatto altro se non bombardare chi li lanciava.  Amplifica il no all'inviato di Trump, evitando di specificare i motivi dell'incontro. Un pezzo che, di fatto giustifica, la 'rivolta' palestinista.

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Lorenzo Cremonesi

Era da prevedere che i palestinesi avrebbero rifiutato la mediazione americana. Abu Mazen lo aveva detto a chiare lettere subito dopo la dichiarazione di Donald Trump su «Gerusalemme capitale d'Israele» mercoledì scorso. «Gli Stati Uniti non sono più un partner», aveva tuonato. E adesso questo pur debole, anziano e indeciso successore di Arafat non può fare altro che passare ai fatti. Le piazze sono contro di lui, da Gaza, Ramallah, Hebron, Nablus e Jenin sputano sugli «attori degli accordi di Oslo e del finto processo di pace», il mondo musulmano chiede fermezza. Abu Mazen rischia la rivolta interna. Così, l'annuncio ieri del suo rifiuto di incontrare il vice presidente americano Mike Pence, che dovrebbe venire nella regione entro fine mese, giunge scontato. In Egitto, anche il Papa copto Teodoro II e il gran mufti della moschea Al Azhar hanno annullato l'incontro. Conseguenza più immediata diventa il notevole indebolimento del ruolo americano nella regione. II premier israeliano Netanyahu ne esce rinforzato di fronte ai suoi nel campo nazionalista e tra i coloni. Ma è proprio la scelta americana di modificare in modo unilaterale lo status quo della «città santa» — uno dei nodi più intricati del contenzioso — senza offrire alcuna carta importante al governo di Abu Mazen a scatenare la rabbia del mondo arabo. Affrontando il tema di Gerusalemme in modo tanto radicale Trump affermava di volere «lanciare un nuovo inizio su basi totalmente fresche» dell'intero processo di pace. In effetti, pare averlo precipitato nella vecchia dinamica del conflitto senza soluzioni in vista. Ieri per il terzo giorno consecutivo, Cisgiordania e Gaza hanno riproposto alcuni scenari simili a quelli dello scoppio della prima intifada trent'anni fa. Nelle zone di Qalandia e Bet El, gli snodi più importanti tra Ramallah e Gerusalemme, centinaia di giovani si sono scontrati con le unità anti-sommossa israeliane. II cielo di questi giorni limpidissimo era offuscato a tratti dal fumo dei copertoni in fiamme. L'odore acre dei lacrimogeni ha stagnato a lungo nei vicoli più stretti. Le ambulanze facevano la spola con gli ospedali ancora alle cinque del pomeriggio. A Betlemme i proprietari di alberghi, ristoranti e negozi temono sempre più che il protrarsi degli incidenti pregiudichi l'arrivo di turisti e pellegrini nelle prossime settimane. Nel cuore di Gerusalemme est, lungo la Salahaddin road, una settantina di manifestanti è stata rapidamente dispersa dalla polizia. Per ora le violenze sono ancora notevolmente circoscritte. A manifestare sono tre o quattromila giovani, ben poco rispetto ai circa tre milioni e settecentomila palestinesi residenti tra Gaza, Gerusalemme est e Cisgiordania. Eppure, i bilanci delle vittime sono in crescita. Nelle ultime 24 ore sono rimaste ferite 270 persone. I morti pare siano quattro, tutti di Gaza. Cuore dei fatti più gravi resta infatti la «striscia della disperazione». Da qui i gruppi della galassia dell'estremismo islamico legata ad Hamas hanno sparato almeno tre razzi verso Israele senza causare danni. Le artiglierie israeliane hanno fatto fuoco colpendo pare alcuni depositi militari di Hamas.

La Repubblica-Francesca Caferri: " Proteste in Israele contro Bibi e ancora due morti a Gaza "

Idem Francesca Caferri, che amplifica i normali dissensi tipici di un paese democratico qual'è Israele, trasformandoli in un evento nazionale. Niente di più falso, persino il partito Laburista, avversario del governo, si è espresso in termini più che favorevoli verso le dichiarazioni di Trump e di riflesso la politica diplomatica di Netanyahu, come ha dichiarato il segretario Gabbay. Ma Caferri riporta il pensiero di Hana Winkler, illustre scononosciuta e di altri che vogliono 'cacciare' Netanyahu. I soldati, poi, sono 'armati fino ai denti' - tecnica che Rep usa spesso per paragonare il 'cattivo soldato' accanto a un mite e ricurvo vecchio palestinese- ( copertina di prima pagina lo scorso venerdì).
Ecco infine i due uccisi a Gaza, come nel pezzo di Cremonesi, la risposta di Israele dopo il lancio dei razzi da Gaza sulla postazione di lancio. Se non avessero lanciato i razzi sarebbero ancora vivi. Se Israele non avesso distrutto la base di lancio sarebbero arrivati altri razzi sulla popolazione israeliana. Ovvio, ma non per Caferri, novella Michele Giorgio, al  servizio della disinformatzia del quotidiano di Largo Fochetti.

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Francesca Caferri

«Non vogliamo parlare di Gerusalemme. Niente cambierà. Bibi e Trump hanno messo su questa cortina di fumo per distrarre la gente dai loro guai. Noi non ci facciamo imbrogliare. Netanyahu deve andarsene. Oggi». Hana Winkler, 62 anni, non ha nessun dubbio. Tiene in mano un cartello che ha realizzato lei stessa, la Stella di David deformata e divisa in pezzi. Il simbolo, ci dice, «di un Paese devastato, di cui è tempo di occuparsi davvero». Sono poco meno di 70 i chilometri che separatano Tel Aviv da Gerusalemme, ma sembrano migliaia. Messi da parte i sassi dei palestinesi, i soldati armati fino ai denti, le strade e i vicoli della capitale contesa, l'altro Israele è sceso in piazza ieri sera per la battaglia contro il premier Benjamin Netanyahu, sua moglie e la cerchia dei suoi consulenti. Tutti sotto inchiesta per corruzione. In piazza, secondo gli organizzatori, 20mila persone. E palloncini, tamburi, fischietti e fiori. Papà con i bambini in spalla, nonni con le nipotine in mano, giovani coppie innamorate. «Bibi a casa. Bibi in carcere», gridavano in coro. E ancora «Mafia, mafia», «Netanyahu vattene». Stesse scene, con numeri minori, a Gerusalemme. «Avevamo paura che venissero poche persone con tutto quello che è successo, bello vedere che non si sono fatte intimidire. Da un anno siamo in strada e nelle ultime settimane il movimento è cresciuto», dice Joseph Golldman, 82 anni portati bene. Se gli si chiede perché alla sua età senta il bisogno di manifestare risponde: «La corruzione divora il Paese, non possiamo occuparci solo dei palestinesi». Di ascoltare gente come Joseph e Hana Netanyahu non ha alcuna intenzione. Lunedì a Bruxelles incontrerà i vertici dell'Ue. Nei prossimi giorni il suo braccio destro, David Bitan, sarà di nuovo interrogato dai magistrati sulle presunte mazzette. Il premier è stato ascoltato a più riprese e l'indagine nei suoi confronti non è chiusa. L'accusa è di aver accettato milioni di dollari in cambio di favori politici. Lo scandalo si affianca a quello che coinvolge la moglie Sara, accusata di essersi appropriata di denaro pubblico e di aver maltrattato i domestici. La rabbia contro il premier non è una cosa nuova in Israele: nel 2015, quando vinse per la quarta volta, Netanyahu raccolse un numero di voti minore rispetto al passato. Per questo è costretto a un governo di coalizione in cui i partiti religiosi e l'ultradestra hanno un peso decisivo. Da allora le sue scelte hanno spaccato il Paese. «L'attuale leadership vede la democrazia come sinonimo del governo senza controllo della maggioranza», Ben Aluff, direttore di Haaretz, giornale liberal da sempre una spina nel fianco per Netanyahu. A Tel Aviv molti sono convinti che la crisi di Gerusalemme sia stata orchestrata dal premier per distogliere l'attenzione dai suoi guai. Interpretazione probabilmente esagerata, che però dà il senso dell'esasperazione che pervade settori della società. «Lo scriva - chiede Hanni Blumenthal, 53 anni, in spalla un cartello con scritto 'Crime minister' - siamo qui senza partiti. Veniamo da gruppi politici diversi. A organizzare tutto sono avvocati, insegnanti, scrittori. Gente normale che non ne può più». L'energia dei manifestanti non nasconde però la tensione che si respira nel Paese dopo la decisione di Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme da Tel Aviv. Ieri due palestinesi sono stati uccisi a Gaza quando l'esercito israeliano ha attaccato postazioni di Hamas in risposta al lancio di tre razzi verso Sderot. Sale a quattro il bilancio dei morti dall'inizio della crisi, con decine di feriti anche ieri in una ventina di località della Cisgiordania. Anche sul piano politico la situazione resta tesa. Il papa copto Tawadros II non riceverà Mike Pence al Cairo a metà mese e lo stesso farà il rais palestinese quando il vicepresidente Usa arriverà nei Territori, mentre la Lega araba condanna la scelta di Trump.

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