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La Stampa - Il Tempo Rassegna Stampa
08.12.2017 Gerusalemme capitale: i commenti che informano
Commenti di Giordano Stabile, Pietro De Leo

Testata:La Stampa - Il Tempo
Autore: Giordano Stabile - Pietro De Leo
Titolo: «Nei Territori scoppia la rivolta: 'L’unico che ci difende è Erdogan' - Propaganda e bufale sullo spostamento dell'ambasciata Trump e Gerusalemme. Ecco tutte le fake news»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/12/2017, a pag. 1-11, con il titolo "Nei Territori scoppia la rivolta: 'L’unico che ci difende è Erdogan' ", l'analisi di Giordano Stabile; dal TEMPO, a pag. 10, con il titolo "Propaganda e bufale sullo spostamento dell'ambasciata Trump e Gerusalemme. Ecco tutte le fake news", il commento di Pietro De Leo.

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Ecco gli articoli:

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Donald Trump al Muro Occidentale, a Gerusalemme

LA STAMPA - Giordano Stabile: "Nei Territori scoppia la rivolta: 'L’unico che ci difende è Erdogan' "

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Giordano Stabile

Gli shabaab, i ragazzi, tornano indietro con i volti sbiancati dai lacrimogeni, respirano a fatica, prendono fiato nelle strade laterali, più strette, che salgono su verso la città vecchia. L’ampio viale che da Betlemme porta al campo profughi di Ayda è una trincea mobile.

Un blocco quattro, cinquecento manifestanti, che avanza per cercare di colpire con i sassi i soldati e si ritira quando dall’altra parte arrivano i candelotti. I «ragazzi» hanno creato una barriera di copertoni in fiamme. Il fumo nero, denso, copre alla vista lo schieramento dei militari della polizia di frontiera. Sono piazzati più in alto, dove il viale comincia a salire e controllano la situazione senza forzare la mano.

Di colpo il blocco retrocede, di corsa, si sentono degli spari. Tirano, sembra, proiettili di gomma. Poco dopo arriva l’ambulanza, si fa largo a fatica fra la folla che si è di nuovo ricompattata. Gli intossicati dai gas sono decine. Nelle retrovie è un continuo consultare i bollettini sui cellulari: a Ramallah cinque feriti per i proiettili, altrettanti a Betlemme, due a Gerico. Quasi una gara. All’imbrunire il bilancio, stilato dalla Mezzaluna rossa, è di 104 feriti. Mohammed Muhesen, appena sedicenne, non sembra né impaurito né molto soddisfatto: «Siamo pochi, eppure ci hanno appena tolto Al-Quds: che cosa devono farci perché scoppi una rivolta vera? Ci prendono un pezzo delle nostra terra alla volta e nessuno reagisce».

Quel nessuno è la leadership dell’Autorità nazionale palestinese, ai minimi storici del suo consenso. Nella seconda giornata della rabbia Al-Fatah, Hamas, tutti i partiti hanno chiamato alla mobilitazione. Le proteste si sono dipanate secondo un copione ben collaudato. Manca qualcosa, però, che faccia davvero «bruciare la terra». A Ramallah la folla ha cominciato a radunarsi verso le undici della mattina, prima di partire in corteo verso il check-point davanti all’insediamento dei Beit El. Sul cassone del camion piazzato in mezzo alla Piazza dei Leoni salgono a turno i quadri di Al Fatah. Gli insulti sono per l’America, Trump, e per l’Arabia Saudita: «Siamo milioni, tutti pronti al martirio per Al-Quds».

«Retorica. Bisogna cambiare tutto – protesta Abir Wheida, un’impiegata di 47 anni, sposata con tre figli -. Non abbiamo una strategia. È inutile continuare a trattare per arrivare alla soluzione dei due Stati. Serve la soluzione “uno Stato”. Ci vuole una vera resistenza». La soluzione «uno Stato» significa in realtà far annettere tutti i territori palestinesi da Israele, non solo Gerusalemme. Sembra un paradosso ma è popolarissima. Perché i palestinesi sperano di diventare presto maggioranza di questo unico Stato dal Mediterraneo al Giordano, che includerebbe, ora come ora, circa sei milioni di arabi contro poco più di sette milioni di ebrei.

L’Autorità palestinese invece resta contraria. «I capi stanno troppe bene per voler cambiare qualcosa», sussurra un ragazzo che vuole restare anonimo: «Qui c’è pieno di agenti della Pa (il governo palestinese), che poi spifferano tutto allo Shin Bet (i servizi israeliani)». L’idea è che Abu Mazen, e forse anche Hamas, non voglia spingere sull’acceleratore della protesta («ha fatto un discorso moscio») e che cerchi un «accordicchio» con i leader arabi moderati: ieri è volato da Re Abdullah di Giordania. I «fratelli arabi ci venderanno un’altra volta – conferma Samir, 45 anni -. L’unico che ci difende davvero è Erdogan, serve una coalizione di tutti i Paesi musulmani, con gli attributi però, non come i Paesi del Golfo che sono soltanto chiacchiere e petrodollari».
Il leader turco piace moltissimo. Nessuno lo chiama più Kardogan (un insulto), come quando ha fatto pace con Israele. Piace la sua idea di un grande congresso dei Paesi islamici, i 57 invitati mercoledì prossimo a Istanbul per «decisioni straordinarie» dopo che Trump ha «gettato la regione in un cerchio di fuoco». Re Salman, invece, «se può andare lui ad Abu Dis». Il riferimento è al piccolo sobborgo di Gerusalemme che sarebbe stato scelto come capitale del futuro Stato palestinese nel fantomatico piano di pace saudita-americano.
«Una barzelletta», chiosa Mustafa Barghouti, uno dei pochi leader di peso scesi in piazza a Ramallah. Anche per lui la soluzione è «uno Stato», però «democratico, con i pieni diritti civili per tutti i palestinesi, a partire da quello di voto: non accetteremo mai l’Apartheid». Come arrivarci? «Come hanno fatto Martin Luther King e Nelson Mandela». Una bella utopia da queste parti, mentre Hamas chiama alla «terza Intifada», da Gaza sparano colpi di mortaio, Israele reagisce a cannonate e in Rete Al-Qaeda e l’Isis lanciano le loro dichiarazioni di guerra: «Vi taglieremo la testa e libereremo Gerusalemme”.

IL TEMPO - Pietro De Leo: "Propaganda e bufale sullo spostamento dell'ambasciata Trump e Gerusalemme. Ecco tutte le fake news" 

Proviamo a mettere un po' di ordine alla bagarre, mediatica politica e internettiana, che si è scatenata attorno alla decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d'Israele e di annunciare lo spostamento dell'Ambasciata da Tel Aviv. Da più parti, la mossa del Presidente è stata fotografata come un sopruso, come una mina sul processo di Pace. Andiamo con ordine. Innanzitutto, contrariamente a certe vulgate tirate per i capelli delle ultime ore, non è che sia stato Trump ad aver stabilito la capitale israeliana in Gerusalemme. Ma l'ha fatto un provvedimento della Knesset, il parlamento israeliano, nel 1980, che l'aveva proclamata «Capitale eterna». Il provvedimento veniva a tredici anni dal '67, quando Israele restituì a Egitto e Giordania i territori dove erano stati installati gli insediamenti, prendendo le alture del Golan (prima sotto Damasco) e Gerusalemme Est, che invece era nel dominio giordano. Quindi, Trump non ha fissato nulla. Peraltro, su Gerusalemme novità importanti c'erano già state ad aprile, quando una nota del ministero degli esteri russo aveva annunciato: «Consideriamo Gerusalemme Ovest come capitale dello Stato di Israele» identificando «lo status di Gerusalemme Est come capitale del futuro stato palestinese». Questo nell'ottica di due popoli e due stati. Che non è stata per nulla negata da Donald Trump, anzi. E basta andarsi a leggere le parole dell'altro giorno per capirlo. «Farò tutto ciò che è in mio potere per un accordo di pace israelo palestinese che sia accettabile per entrambe le parti - ha detto il Presidente E gli Stati Uniti continuano a sostenere la soluzione dei due Stati». Questo smonta l'altra vulgata in voga in questi ultimi giorni nel mondo liberal e progressista, e cioè che la mossa di Trump avrebbe mandato a monte il processo di pace. In realtà il dialogo israelo palestinese è piantato da molto tempo, non c'erano più colloqui, né incontri programmati. La verità è che potrebbe essere proprio la mossa di Trump a smuovere l'incaglio. E poi un'altra considerazione. Lo sdegno di gran parte del mondo dell'annuncio sullo spostamento dell'ambasciata sembra aver ignorato (volutamente) il fatto che lo stabiliva già una legge approvata al congresso 1995, presentata dal democratico Bob Dole. Il provvedimento si chiamava Jerusalem EmbassyAct, ma la sua applicazione fu sempre rimandata da ben tre presidenti: Clinton, Bush jr e Obama. E pure Trump se la piglia comoda, visto che contestualmente all'annuncio ha firmato una proroga di sei mesi per ragioni logistiche e organizzative. Peraltro, Trump aveva anche messo l'iniziativa nel suo programma elettorale. Dunque le dietrologie liberal (New York Times in prima fila) che vedono la lobby ebraica in pressing sul Presidente negli ultimi tempi vanno ridimensionate. Altra strumentalizzazione sta nella convinzione che la mossa di Trump porterà ad un acuirsi del terrorismo. Realtà come Hamas, che ha nello statuto la distruzione di Israele e la morte degli Ebrei, non hanno bisogno di pretesti, semmai di ricorrenze sì, visto che siamo a 30 anni esatti dalla prima intifada. Peraltro, ogni qualvolta ci sono stati progressi sul processo di Pace, il terrorismo si è scatenato. Dagli accordi di Oslo del '93, per i successivi tre anni, ci furono più morti tra gli israeliani che nel ventennio precedente.

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