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Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
21.09.2017 Scontro Trump-Iran, gli Stati Uniti passeranno ai fatti?
Cronaca parziale di Francesco Semprini, commento di Paolo Guzzanti

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: Francesco Semprini - Paolo Guzzanti
Titolo: «Rohani contro Trump sul nucleare: 'Non tolleriamo minacce dagli Usa' - L'America è tornata grande. E gli Stati canaglia tremano»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/09/2017, a pag. 6, con il titolo "Rohani contro Trump sul nucleare: 'Non tolleriamo minacce dagli Usa' ", la cronaca di Francesco Semprini; dal GIORNALE, a pag. 14, con il titolo "L'America è tornata grande. E gli Stati canaglia tremano", l'analisi di Paolo Guzzanti.

Francesco Semprini riporta soltanto la versione iraniana dei fatti e omette quella di Donald Trump. La conseguenza è far passare il Presidente degli Stati Uniti per il responsabile della crisi delle relazioni Usa-Iran, quando invece il problema sta nella corsa all'atomica del regime degli ayatollah.

Ecco gli articoli:

LA STAMPA - Francesco Semprini: "Rohani contro Trump sul nucleare: 'Non tolleriamo minacce dagli Usa' "

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Francesco Semprini

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Donald Trump in campagna elettorale ha insistito sulla necessità di annullare l'accordo con l'Iran

«I leader europei sono dalla nostra parte, appoggiano i nostri sforzi nel preservare l’accordo sul nucleare». Il presidente iraniano Hassan Rohani, esce dai lavori della 72a Assemblea generale rafforzato, almeno nella fiducia, dopo la conferma giunta dal Vecchio Continente di voler preservare l’accordo sui programmi di proliferazione atomica di Teheran. Preservare da Donald Trump che considera l’intesa la «peggiore possibile» asserendo, di concerto con l’alleato israeliano, Benjamin Netanyahu, che l’Iran violi sistematicamente i patti, almeno dal punto di vista morale. «Ogni Paese che compie il primo passo, uscendo da questo accordo non mostra solo che ha rotto un patto, ma apre le porte a sospetti e mancanza di fiducia», chiosa Rohani nel colloquio con un ristretto numero di giornalisti. «Anche gli alleati degli Stati Uniti non avranno coraggio a sostenere l’America su questa scelta prosegue -, perché sono consapevoli che rompere l’accordo è indifendibile». E se gli Usa decideranno di «cambiare le carte in tavola» daranno implicitamente mandato all’Iran di attuare «ogni azione necessaria a tutelare il nostro Paese e il nostro popolo».

Questa la riflessione nella sostanza e che fa seguito al monito dei giorni scorsi dell’ayatollah Sayyed Ali Khamenei, nei confronti dei «rottamatori». Sulla forma Rohani è ancora più duro: «Gli Stati Uniti porgano le loro scuse per le parole offensive dette» da Donald Trump «contro il popolo iraniano». Lo aveva detto poco prima dal scranno più alto dell’Assemblea generale, spiegando che quelle pronunciate dal presidente Usa sono «parole ignoranti e sgradevoli, accuse odiose e senza fondamento, inadatte per l’Assemblea generale». Ma qual è il peso reale che i leader europei possono avere nel convincere Trump? «Ho affrontato la questione con molti di loro, Emmanuel Macron e Theresa May, ma anche con i colleghi di Belgio, Norvegia e tanti altri. Ognuno è d’accordo nell’affermare che il Joint Comprehensive Plan of Action è il migliore degli accordi, e che lo avrebbero difeso ad ogni costo all’Onu. È quello che è avvenuto qui in questi giorni», spiega con soddisfazione Rohani secondo cui il vero rischio lo corre Trump, in termini di credibilità e isolamento. E ancora: «L’accordo sul nucleare è un accordo multilaterale tra 7 parti, che ha richiesto tempi lunghi e ha avuto ratificazione da molti altri Paesi». Di modifiche poi, nemmeno a parlarne: «L’accordo è un palazzo, se togli un mattone crolla la struttura. Pertanto non ci saranno assolutamente cambi o emendamenti, questo deve esser chiaro agli americani».

Incalzato da chi gli chiede se pur di preservare il Jcpa Teheran sia disposta a negoziare su altri punti, Rohani si irrigidisce. «È impensabile, l’accordo vive di vita propria». Il riferimento è al programma balistico di Teheran, quello che più impensierisce l’America e i suoi partner nel Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi in primis. Oltre al sostegno (bellico e finanziario) alle forze sciite nella regione, quelle pro-Damasco in Siria, Hezbollah in Libano e gli houthi in Yemen.
Nessun passo indietro quindi: «L’Iran continuerà a produrre missili e armi difensive, perché la più grande responsabilità del governo è difendere la gente e la sicurezza nazionale». Del resto lo scenario regionale è quello di una guerra per procura in continua evoluzione come dimostra il recente cambio di passo del Qatar, con Doha ora più vicina a Teheran. Pertanto «la nazione iraniana non esiterà a rafforzare le proprie capacità di difesa contro lo scenario delle minacce regionali e globali». Intanto Trump va avanti per la sua strada e dice, forse non a caso a margine del bilaterale con il presidente dell’autorità palestinese Abu Mazen, di aver già deciso: «Vi farò sapere», a tempo debito. L’attesa non sembra impensierire Rohani il quale si congeda dal Palazzo di Vetro ricordando la vittoria contro l’Isis in Iraq e Siria delle «forze del bene», «il silenzio assordante sulle armi usate quotidianamente contro i civili innocenti in Yemen», «la pulizia etnica della minoranza musulmana Rohingya» in Birmania. E concedendosi un sorriso: presidente ritiene che Trump sappia veramente cosa dice l’accordo sul nucleare? «Non saprei, ditemelo voi che ci avete a che fare ogni giorno».

IL GIORNALE - Paolo Guzzanti: "L'America è tornata grande. E gli Stati canaglia tremano"

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Paolo Guzzanti

Di nuovo il mondo si chiede se Donald Trump fa sul serio o se recita. Quel che possiamo dire di sicuro è che mai un presidente degli Stati Uniti, dopo Theodore Roosevelt, lontano parente del più noto Franklin Delano Roosevelt che regnò negli anni della seconda guerra mondiale, ha mai minacciato apertamente davanti al mondo intero, come ha fatto il quarantesimo presidente americano due giorni fa, di intervenire militarmente e diplomaticamente su tre diversi scenari: in Estremo Oriente, in Medio Oriente e in America Latina. Donald Trump ha infatti minacciato di «annichilire» la Corea del Nord, di stracciare i trattati con l'Iran e di mettere in quarantena Cuba e il Venezuela. Una tale veemenza, determinazione e minaccia dell'uso della forza anche nucleare non erano mai state espresse i termini non soltanto netti ma anche ideologici dai presidenti dello scorso secolo, neppure nei momenti più tesi della guerra fredda. Nell'aula del palazzo delle Nazioni Unite la tensione era martedì altissima e gli ambasciatori cubano, iraniano e venezuelano apparivano terrei, come quello coreano: tirava un forte vento di guerra come non si era mai sentito nei decenni scorsi. Resta da vedere se Trump passerà dalle parole ai fatti e quando, ma sembra impossibile che gli Stati Uniti non considerino a questo punto un non specificato casus belli il lancio di un altro missile coreano armato con una bomba H in grado di colpire la costa orientale degli Stati Uniti come sembra certo che accada. Il dittatore di Pyongyang sa quale rischio corre e la Cina è costretta a sua volta a prendere atto di parole che sono fatti. È stata questa la prima esibizione della politica mondiale che va sotto il nome di «America First»: la Casa Bianca repubblicana rinnega tutto ciò che ha fatto Obama con papa Bergoglio e con i fratelli Castro per far uscire Cuba dall'isolamento ma senza obbligare il regime comunista a pagare pegno e farsi da parte concedendo la democrazia.

 

Trump intende cancellare l'accordo e ingaggiare un duello finale con Raul Castro sopravvissuto al fratello Fidel e ha avuto parole di fuoco per Il Venezuela: «Il loro problema non è che il socialismo non ha funzionato, ma che ha funzionato perfettamente distruggendo il Paese e la libertà». Gli Stati Uniti dunque si considerano di nuovo in casa loro in America Latina, non hanno alcuna intenzione di cedere alla Cina il controllo dell'Asia così come non vollero cederlo al Giappone e si considerano in prima linea nella difesa anche armata, se occorresse, di Israele minacciato dall'Iran. Chi finora ha scommesso sul sostanziale bluff di un uomo più incline a sparare parole che bombe è costretto a riflettere: ogni presidente americano ha avuto la sua guerra - Bill Clinton bombardò Belgrado e Obama intervenne in Libia nello sciagurato intervento contro Gheddafi - e tutte le probabilità sono a favore di una prova di forza di Trump. Il presidente sta raccogliendo d'altra parte insperati successi fra i conservatori democratici e gli indipendenti che ormai costituiscono una terza forza politica forte e capace di determinare la rovina o il successo di una amministrazione. Trump dovrà affrontare fra un anno le elezioni di mezzo termine e una vittoria militare rapida e galvanizzante farebbe al caso suo, ma le incognite di un bombardamento atomico ai confini con la Cina sono ancora incalcolabili: Pechino ha già impegnato dieci milioni di soldati sul confine coreano ed ha avvertito Trump che la Cina interverrà in Corea in caso di invasione americana. Trump dunque gioca col fuoco, ma sembra del tutto sicuro del fatto suo e felice che il suo messaggio sia stato capito da tutti gli attori mondiali.

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