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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - Libero - Il Foglio Rassegna Stampa
08.06.2017 Iran: quando il serpente morde il padrone
Analisi di Fiamma Nirenstein, Carlo Panella, Claudio Cerasa

Testata:Il Giornale - Libero - Il Foglio
Autore: Fiamma Nirenstein - Carlo Panella - Claudio Cerasa
Titolo: «Riad, Doha e Teheran: così Trump ha sfidato il triangolo del terrore - Occhio, l'islam sta per esplodere - Da Teheran a Londra. Perché la guerra che l’occidente si rifiuta di combattere non è contro le basi dell’Isis ma contro le basi dell’islamismo»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 08/06/2017, a pag. 17, con il titolo "In Riad, Doha e Teheran: così Trump ha sfidato il triangolo del terrore", l'analisi di Fiamma Nirenstein; da LIBERO, a pag. 1-15, con il titolo "Occhio, l'islam sta per esplodere", l'analisi di Carlo Panella; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Da Teheran a Londra. Perché la guerra che l’occidente si rifiuta di combattere non è contro le basi dell’Isis ma contro le basi dell’islamismo", l'analisi di Claudio Cerasa.

A destra: Stato Islamico e Iran a confronto

Ecco gli articoli:

IL GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "Riad, Doha e Teheran: così Trump ha sfidato il triangolo del terrore"

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Fiamma Nirenstein

L'Iran oltre che ferito è stupefatto: la durezza estrema delle Guardie Rivoluzionarie, la severità terribile degli Ayatollah, e nemmeno lo spirito di Khomeini dalla tomba colpita anch'essa dall'attacco di ieri niente hanno potuto contro il grande attacco simbolico, sprezzante attacco terroristico al parlamento di Teheran. Gli uomini dell'Isis sono riusciti a salire fino al quarto e al quinto piano vestiti da donna e con i mitra: le loro urla in arabo classico che spiegavano urlando il perché dell'attacco, contro le grida di spavento in parsi accompagnavano addirittura un video autoprodotto «live», in cui si impossessano sparando di stanze e corridoi, mentre gli impiegati cercavano di scappare disperati. L'attacco sunnita contro l'Iran sciita si è probabilmente servito di emissari interni: l'Iran è sciita solo all'80 per cento, gli altri sono sunniti, balusci, curdi che odiano il regime. L'Isis è parte del nuovo gioco: l'Iran fiancheggia Assad con determinazione e vasto dispiegamento di mezzi e di forze della Guardia Rivoluzionaria per batterlo, rifornisce i suoi scherani Hezbollah, la Russia comanda con le armi, la presenza, i droni e i bombardamenti.

L'unico Paese che ha subito dichiarato il suo cordoglio per l'attentato è stata la Russia e dopo il Pakistan; la Francia si è accodata, ma gli altri Paesi occidentali sono stati brevi e scarsi. L'Iran combatte per un assassino genocida, viola tutti i diritti umani, è in odore di nucleare ed è uno dei principali sponsor del terrorismo. Aveva persino un accordo con Al qaeda che l'ha preservato da attacchi, lo stesso fino ad oggi con Hamas benché ambedue siano sunniti. L'attacco si inserisce in un quadro e in una prospettiva caotica: quella di un Medio Oriente rivoluzionato dall'incontro di Trump con 25 stati arabi in cui si è dichiarato una comune guerra al terrorismo, intendendo con questo non soltanto il terrorismo dell'Isis, ma anche l'instabilità indotta dall'imperialismo iraniano, le mire della Fratellanza Musulmana, che è poi la grande madre ideologica per cui il Qatar spende i suoi fondi miliardari. Non a caso il governo di Trump sta pianificando la messa all'indice delle organizzazioni terroriste sia Hamas che gli hezbollah che la Fratellanza che anche la Guardia Rivoluzionaria iraniana. Dall'Iran e anche da parte dei suoi amici siriani si è levata un'accusa a misteriosi mandanti subito identificati come i sauditi, gli americani, Israele.

L'Iran qui indica, al di là dell'Isis, le sue vere difficoltà, e pericolosamente punta il dito contro il suo nemico storico sunnita. Dopo questo attentato, pur perpetrato dall'Isis, la parte sunnita e quella sciita entrano in un conflitto ancora più diretto che potrebbe portare persino a una guerra. L'Isis: è in difficoltà, l'ultimo attacco a Raqqa lo testimonia, e quindi la sua impossibilità di un contrattacco sul terreno la porta a cercarlo sia nelle capitali occidentali, contro il nemico ideologico, sia in Iran che combatte contro i suoi uomini. L'Iran dunque reagirà, impiegherà sempre più forza contro l'Isis, ma altrettanto faranno i suoi nemici. La storia quindi qui continua. Ma soprattutto continua sul grande palcoscenico mediorentale: con lo stop al Qatar di lunedì scorso, oltre alla Fratellanza Musulmana prendono una sventola storica anche l'Iran, tutte le milizie shiite, Hamas, i Hezbollah, basta pensare che il Qatar aveva appena consegnato un miliardo di dollari a queste forze e anche al succedaneo di Al Qaeda Tahr al Shan poche settimane or sono a causa di un ricatto familiare. Adesso le forze della stabilità cioè Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Golfo, e anche Israele sono molto più forti, mentre l'Iran perde su tutti i fronti. Se vuole rimettersi in pista adesso deve fare fuoco e fiamme, uccidere, punire, espandersi. Come è sua abitudine. Ci si può aspettare che lo faccia.

LIBERO - Carlo Panella: "Occhio, l'islam sta per esplodere"

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Carlo Panella

Gli attentati di Teheran sono una straordinaria prova di forza politica e militare dell'Isis, a dimostrazione che le sconfitte sul terreno a Raqqa e a Mosul moltiplicano la forza di penetrazione della sua iniziativa terrorista. Portare a termine un attentato a quanto di più sacro rappresenta la rivoluzione sciita iraniana, il santuario che custodisce il corpo di Khomeni, è difficile, al limite dell'impossibile. Equivale ad attentare al mausoleo di Lenin nella Mosca di Josef Stalin. Penetrare con un commando in armi dentro il super difeso Parlamento iraniano equivale alla capacità di assaltare la sede del Nsdap, il partito nazista, nella Berlino di Adolf Hitler.

Checché ne dicano gli analisti buonisti dell'Occidente, l'Iran non è per nulla un paese libero. Teheran vive sotto la morsa di una sorveglianza poliziesca a più strati: polizia, Bassiji, Pasdaran e Servizi Segreti. Pure, i due attentati non sono spontaneisti, come gli ultimi in Europa. Sono stati preceduti da una lunga, minuziosa preparazione; da sopralluoghi per eludere le imponenti misure di sicurezza dei siti colpiti. Hanno comportato riunioni, reperimento e spostamenti continui di armi ed esplosivi e definizione in clandestinità di minuziosi piani d'azione. Soprattutto, sono stati portati a termine non da iraniani, da chi vive da anni nella città, perché nulla è la capacità di attrazione dell'Isis wahabita nei confronti degli iraniani sciiti.

Gli autori dei due attentati sono palesemente o stranieri (pakistani, afghani, iracheni) o appartengono alla minoranza araba delle regioni iraniane del Belucistan e del Khuzestan, o -con minore probabilità- sono curdi iraniani. Pure, questo lavoro ciclopico è stato sviluppato nella piena clandestinità in una città che pullula di spie ed informatori, perché capillare è la rete di delazione che da 38 anni gli ayatollah hanno steso in tutti i quartieri, in tutte le case e in tutte le famiglie di Teheran. Il colpo politico e materiale al prestigio e alla sicumera del regime iraniano è stato quindi enorme: ha fallito nel difendere i più alti simboli della Repubblica islamica: il mausoleo, il corpo del "padre della rivoluzione" dell'Imam, dell'ayatollah Khomeini e la sede del Parlamento. Non è poi un caso che i parlamentari iraniani assediati dai jhadisti-terroristi abbiano urlato: «Morte agli Usa! Morte ai loro servi dell'Arabia Saudita!». Non sfugge a nessuno infatti che a Riad, se si potesse bere, si brinderebbe a questa umiliazione inflitta agli ayatollah.

Questo attentato si colloca infatti in pieno nel clima di escalation parossistica che da mesi contrassegna il conflitto eterno tra i sunniti wahabiti del Golfo e la Teheran sciita. Gli ayatollah, infatti -ampiamente coadiuvati dalle follie di Barack Obama- ormai controllano e sono egemonici su un'area enorme che va dalle rive del mediterraneo (Siria e Libia) ai confini dell'Afghanistan. Ma addirittura stanno creando un corridoio diretto che collega l'Iran con Hezbollah libanese (che ha avuto 2500 morti e 7.000 feriti nella guerra civile siriana), attraverso il quale fanno passare armi e finanziamenti, una minaccia che è la "maggiore preoccupazione strategica" di Israele. A fronte di questo espansionismo dei rivoluzionari sciiti iraniani, i paesi sunniti, Egitto e Arabia Saudita in primis, non possono che reagire come stanno facendo (vedi Qatar), profittando della svolta mediorientale di Donald Trump che ha capovolto la strategia di Obama considerando, a ragione, l'Iran prima causa del terrorismo. La grande, immensa novità degli attentati di Teheran è data dunque dalla dimostrata capacità dell'Isis di inserirsi in questa escalation tra mondo sunnita e Iran e di colpire al più alto livelli i massimi simboli della rivoluzione sciita. Chi pensava che la perdita imminente di Raqqa e Mosul comporti solo un incremento degli attentati in Europa sbaglia. Nonostante queste sconfitte, con un doppio colpo magistrale, l'Isis ha dimostrato di sapersi introdurre in pieno in queste contraddizioni. Traendone il massimo profitto e favorendo l'arrivo di una nuova leva di adepti.

IL FOGLIO - Claudio Cerasa: "Da Teheran a Londra. Perché la guerra che l’occidente si rifiuta di combattere non è contro le basi dell’Isis ma contro le basi dell’islamismo"

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Claudio Cerasa

L’attentato di ieri a Teheran – così come gli attentati messi a segno negli ultimi mesi a Londra, a Manchester, a Stoccolma, a San Pietroburgo e in tutte le altre città in cui lo Stato islamico ha scelto di esportare il suo jihad – ci ricorda ancora una volta che le guerre che l’occidente deve portare avanti per provare ad annientare l’estremismo islamista sono due. La prima è una guerra in cui al centro di tutto c’è una strategia militare, ed è una guerra che, pur con mille contraddizioni e mille negazioni, gli eserciti sostenuti dall’occidente stanno combattendo, anche con risultati importanti. La seconda è invece una guerra parallela che l’occidente ha scelto di non combattere fino in fondo e in cui al centro di tutto non c’è un disegno bellico ma una battaglia culturale: quella contro l’ideologia islamista. Teheran, così come Manchester, così come Londra, così come Parigi, così come Stoccolma, ci dice che la guerra che l’occidente si rifiuta di combattere non è quella per abbattere le centrali del terrore islamista ma è quella per mettere a nudo uno dei drammi negati soprattutto nel mondo progressista dello scontro di civiltà: la connessione tra il terrore islamista e la religione in nome della quale i terroristi uccidono gli infedeli (dove per infedele, come testimoniato ieri dall’attentato in Iran, si intende semplicemente chi professa un credo diverso rispetto a quello dei terroristi, a volte può essere un cattolico, a volte basta essere uno sciita e non un sunnita).

Il vero limite della nostra epoca non è dunque quello di non rispondere con la giusta misura al fuoco delle truppe jihadiste ma è semmai quello di aver rinunciato a mettere in luce un fatto ormai innegabile: le azioni violente degli islamisti radicali non possono essere separate dagli ideali religiosi che li ispirano. Paradossalmente, ma forse neanche troppo, più aumentano gli attentati e più si riduce lo spazio per provare a ragionare fino in fondo sulla radice islamista del jihad. E all’indomani di ogni attentato ci si dimentica spesso che per combattere il jihad non è sufficiente sganciare qualche bomba contro i presidi islamisti ma sarebbe importante mettere in luce un concetto che in teoria è elementare: il nostro vero nemico non è il terrorismo ma l’idea di cui il terrorismo è il prodotto. Se ci fosse davvero una tale consapevolezza, il giorno dopo un attentato di matrice islamista lo sforzo dell’establishment intellettuale non sarebbe unicamente finalizzato a combattere gli eccessi di islamofobia, portando in prima serata e sulle prime pagine dei giornali esempi virtuosi di islamici moderati, ma sarebbe piuttosto finalizzato a portare avanti un’operazione che, almeno per quanto riguarda l’Italia, è stata finora del tutto rimossa: trasformare nel simbolo della riscossa dell’islam gli eretici dell’islamismo, modello Ayaan Hirsi Ali, e non i finti simboli del moderatismo, modello Tariq Ramadan. Naturalmente l’operazione non è semplice e presenterebbe diverse complicazioni.

Costringerebbe (a) ad ammettere che il terrorismo non nasce come reazione all’interventismo dell’occidente ma nasce laddove l’occidente sceglie di non intervenire contro il fondamentalismo. E costringerebbe (b) soprattutto a rompere quel patto culturale che da anni ci porta a negare che l’islam violento non è solo quello che uccide in nome di un dio ma è anche quello che quotidianamente uccide la libertà di coscienza, di pensiero, di espressione di milioni di musulmani in giro per il mondo. Gli eroi dell’islam che meriterebbero di essere valorizzati non sono coloro che negano l’evidenza di un terrorismo che uccide infedeli in nome di un’interpretazione letterale di alcuni passi del Corano. I veri eroi dell’islam sono coloro che ogni giorno rischiano la vita per dimostrare due cose. Non si può vincere la guerra contro il fondamentalismo se ci limiteremo a intervenire contro le basi dell’Isis senza occuparci delle basi rimosse dell’islamismo. Non si può vincere la guerra contro il fondamentalismo senza spiegare che gli eretici dell’islam non vanno stigmatizzati in nome dell’islamicamente corretto ma vanno valorizzati da un totalitarismo culturale chiamato islamofascismo che purtroppo non esiste solo tra le truppe dell’Isis.

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