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La Repubblica - Corriere della Sera Rassegna Stampa
24.04.2017 Così la Brigata ebraica partecipò alla Liberazione - così il Gran Muftì alla Shoah
Analisi di Umberto Gentiloni, Pierluigi Battista

Testata:La Repubblica - Corriere della Sera
Autore: Umberto Gentiloni - Pierluigi Battista
Titolo: «Così la nostra Brigata ebraica partecipò alla Liberazione - Quei bimbi ebrei in fuga dal Gran Muftì e da Hitler: la storia e le scelte dell'Anpi»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 24/04/2017, a pag. 23, con il titolo "Così la nostra Brigata ebraica partecipò alla Liberazione", l'analisi di Umberto Gentiloni; dal CORRIERE DELLA SERA, a pag. 13, con il titolo "Quei bimbi ebrei in fuga dal Gran Muftì e da Hitler: la storia e le scelte dell'Anpi", la recensione di Pierluigi Battista.

LA REPUBBLICA - Umberto Gentiloni: "Così la nostra Brigata ebraica partecipò alla Liberazione"

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Umberto Gentiloni

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Il cimitero di Piangipane, dove sono sepolti i caduti della Brigata ebraica

«Avevo diciotto anni quando mi fu data la possibilità di arruolarmi nella Brigata ebraica. Volevo combattere a fianco degli inglesi contro il nazifascismo. Per tanti come me, ebrei in Palestina, era un’ambizione che non trovava risposte o interlocutori attenti. Poi la notizia ufficiale. Finalmente si poteva partire per l’Italia, era la fine del 1944, la guerra era ormai verso l’epilogo che in tanti aspettavamo ». Piero Cividalli ha novant’anni e vive alle porte di Tel Aviv, a pochi chilometri dal mare. In un impeccabile italiano con accento fiorentino riavvolge il nastro dei suoi ricordi, le esperienze di un giovane soldato al servizio di Sua Maestà nello scorcio finale del secondo conflitto mondiale. Parliamo a lungo al telefono, ci eravamo conosciuti alla presentazione del libro di suo padre (Gualtiero Cividalli, Lettere e pagine di diario 1938- 1946, Giuntina).

I ricordi di un tempo lontano sono l’occasione per tornare alla Palestina mandataria, ai giovani ebrei italiani che aspettano il via libera per poter dare un contributo nella fase decisiva della liberazione. «Anche mia sorella Paola aveva scelto, si era arruolata nell’esercito inglese; volevamo essere partecipi, avevamo atteso troppo tempo». Un tempo sospeso, anni di rinvii prima che Winston Churchill diede la possibilità agli ebrei che ne avevano fatto richiesta di partecipare con un’unità separata inserita ufficialmente nelle divisioni dell’esercito. Non era semplice né scontato. Molti dei potenziali partecipanti avevano combattuto contro la presenza inglese in Medio Oriente e probabilmente – questo temeva il governo di Londra – sarebbero stati su fronti opposti anche in futuro. Solo dopo gli effetti dello sbarco in Normandia, quando il destino della Germania appare segnato, il ministero della Guerra britannico proclama ufficialmente il 19 settembre 1944, inizio del Capodanno ebraico, «la decisione di formare una brigata ebraica in vista di una sua partecipazione alle operazioni belliche. La brigata di fanteria si baserà sui battaglioni ebraici del reggimento palestinese».

Pietro viene quindi raggiunto da una notizia che lo scuote. Si presenta al concentramento per dirigersi verso il territorio egiziano, in un tratto di deserto brullo a Burg-el-Arab, tra El Alamein e Alessandria dove si svolgono i tre mesi di addestramento. «Ci lasciavamo alle spalle la nostra adolescenza, ci separavamo dalle nostre famiglie per tornare in Italia da dove eravamo stati cacciati di fatto con le leggi razziali del 1938». Ci tiene a spiegare, pesa la parole mentre ricorda il clima festoso della Palestina mandataria. «Gli italiani non erano i nostri nemici. Anzi: casa nostra dopo le sconfitte nelle battaglie del deserto, quelle del 1942 - è frequentata da prigionieri che vengono a prendere il tè, mangiano i dolci di mia mamma, trovano un ambiente accogliente e quasi familiare. La nostra a Tel Aviv è stata sempre una casa aperta». Ma la forza dalla guerra rompe ogni recinto di tranquillità. «Ricordo bene una conversazione con un soldato italiano che cercava di dissuadermi dal mio proposito di arruolarmi, eravamo diventati amici in quei mesi. Mi diceva che ero pazzo, non capivo che la guerra era terribile, disumana. Io rispondevo che non potevo sottrarmi, che era un mio dovere quello di combattere contro l’Asse, quelle che chiamavamo le forze del male».

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Soldati della Brigata ebraica

Un dovere che affonda le radici nell’antifascismo di un ambiente familiare che aveva drammaticamente conosciuto la faccia peggiore del regime. «Avevamo paura dei tedeschi mentre sembrava che potessero avvicinarsi a noi. Prima della sconfitta di El Alamein dicevamo che se fossero arrivati potevamo scegliere se buttarci a mare o prendere del veleno. Ecco perché quando la guerra finalmente prende un’altra strada volevamo essere conseguenti al nostro antifascismo irriducibile. Come italiani eravamo dovuti scappare e in Palestina eravamo stati bombardati dall’aviazione fascista di stanza a Rodi. Una doppia persecuzione era davvero troppo».

E tutto cominciò negli anni Trenta con la fuga dall’Italia a dodici anni, ferita mai rimarginata: «Un trauma per noi orgogliosamente italiani, prima italiani e dopo ebrei. Eravamo legati ai fratelli Rosselli, i nostri amici più cari. Mia madre, Maria, era stata compagna di classe di Nello al liceo classico Michelangelo. Nel 1936 facemmo una meravigliosa vacanza insieme, le nostre famiglie. Poi il trauma l’assassinio dei Rosselli che irrompe nelle nostre vite, nulla sarà più come prima. Mio padre, Gualtiero, riuscì a scappare. Venne in Palestina, noi nascosti in Svizzera in attesa dei permessi per raggiungerlo». In fondo la scelta della brigata è anche un richiamo verso l’Italia, tornare da dove era dovuto scappare in nome di un antifascismo esistenziale che lo accompagna per tutta la vita: «Ho una doppia sensazione. La rabbia per quello schiaffo ricevuto da bambino non si dimentica. Non eravamo più italiani, non sapevo cosa fossi dopo che avevano abolito la mia identità, avevo perso tutto. Ma l’arrivo in Italia con la brigata è anche gioia che si unisce alle preoccupazioni di vedere un paese distrutto. Fatico a contenere i dubbi sugli italiani che incontro per strada. Cosa avrebbero fatto nei nostri confronti? E poi la festa per la fine del fascismo, la sconfitta delle potenze del male, gli aiuti ai profughi, la ricerca delle famiglie e l’abbraccio dei miei nonni che avevo salutato sei anni prima e che mi rivedono ragazzo, soldato in divisa».

CORRIERE DELLA SERA - Pierluigi Battista: "Quei bimbi ebrei in fuga dal Gran Muftì e da Hitler: la storia e le scelte dell'Anpi"

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Pierluigi Battista

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La copertina (Longanesi ed.)

Conoscessero anche solo un po’ di storia, avrebbero evitato di maltrattare gli ebrei italiani il prossimo 25 Aprile. Avrebbero potuto informarsi e conoscere la vicenda drammatica raccontata da Mirella Serri in un libro appena pubblicato per Longanesi e che s’intitola Bambini in fuga, arricchito di un sottotitolo da sottoporre ai responsabili dell’Anpi romana che scioccamente, al di là ovviamente delle legittime differenze su un conflitto che non riesce a pacificarsi sul principio «due popoli, due Stati», hanno usato le organizzazioni filo-palestinesi per spacciare l’assurda tesi di Israele come casa statale dei nuovi nazisti e dei palestinesi come nuove vittime: «I giovanissimi ebrei braccati da nazisti e fondamentalisti islamici e gli eroi italiani che li salvarono». In questo libro i protagonisti sono 4 gruppi. C’è quello di Hitler e della sua banda che ha allestito lo spettacolo mostruoso della «soluzione finale» per il popolo ebraico come momento necessario dell’edificazione del Reich millenario costruito con la vittoria nella guerra.

C’è il gruppo di bambini ebrei che scappano dalla persecuzione nei Paesi conquistati dai nazisti e passano prima dalla Croazia e poi per Nonantola, un paese della provincia di Modena. Ci sono, terzo gruppo di cui dovremmo andare orgogliosi, gli italiani che in condizioni difficilissime, proibitive, sfidando la gelata e la morte, aiutano i «bambini in fuga» che poi, finita la tragedia, riusciranno a raggiungere in Palestina il nucleo ebraico che pochi anni dopo, legittimato da una risoluzione dell’Onu e avversato dagli arabi contrari all’insediamento di un’«entità sionista» nella regione mediorientale, diventerà Stato di Israele. C’è poi un quarto gruppo, quello dei musulmani della Bosnia, che darà vita alla divisione Handschar delle Waffen SS, fondamentale nell’oscena caccia al bambini ebrei in fuga dall’Olocausto, sotto l’impulso e grazie all’organizzazione del vero personaggio di questo libro di Mirella Serri e che gli antisionisti in cerca di bandiere antifasciste per il 25 Aprile dovrebbero conoscere: Amin al-Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme, l’uomo che odiava gli ebrei e che per contrastarli aveva trovato in Hitler il suo faro e nello sterminio del popolo ebraico il programma in cui riconoscersi.

Lo Stato di Israele ancora non esisteva negli anni Trenta, ma la sola presenza ebraica nelle terre sante dell’Islam veniva considerata dal Gran Muftì di Gerusalemme un corpo da sradicare con la forza. La sua predicazione prevedeva la diffusione dei più vieti pregiudizi dell’antisemitismo: «L’opprimente egoismo insito nel carattere degli ebrei, la loro turpe convinzione di essere la nazione eletta da Dio li rende indegni di fiducia», e ancora: «Gli ebrei non possono mescolarsi a nessun’altra nazione, ma vivono come parassiti tra le genti, ne succhiano il sangue, si appropriano indebitamente dei loro beni, ne corrompono la morale». È questo esplicito antiebraismo che crea una corrispondenza d’amorosi sensi con Hitler. Rafforzata da una questione geopolitica: perché l’ostilità antibritannica del Gran Muftì si alimenta dalla decisone di Londra, svanito l’Impero ottomano, di riconoscere sin dal 1917 la necessità di un «focolare ebraico» da accogliere nella terra degli avi. Contro Londra, Hitler è il grande alleato e il furore antiebraico di matrice islamica dl Gran Muftì vedrà nel progetto nazista di cancellazione degli ebrei dalla faccia della Terra il compimento di una strategia politica oltreché il segno di un delirio antisemita. Dimenticare questo sfondo storico, evocato dal libro di Mirella Serri, in una ricorrenza come il 25 Aprile apre le porte a una forma di falsificazione insopportabile, che rovescia i ruoli, quello della Brigata ebraica che proprio insieme agli inglesi partecipò militarmente alla lotta contro Hitler, e quello di un uomo che, finita la guerra, avrà una grande influenza nella negazione araba di un «focolare ebraico». Oggi quelle bandiere con la stella di Davide vengono oltraggiate, mentre non viene ricordato chi diede il suo appoggio allo sterminio del popolo ebraico voluto da Hitler. Un oltraggio che ci riguarda, e riguarda tutta la nostra storia.

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