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La Repubblica - Sette Rassegna Stampa
13.05.2016 Scrittori musulmani al Salone del Libro: vivono tutti (tranne uno) fuori dai paesi islamici
Li intervista Simonetta Fiori; Edoardo Vigna intervista Shirin Ebadi

Testata:La Repubblica - Sette
Autore: Simonetta Fiori - Edoardo Vigna
Titolo: «Le voci dell'islam: 'Questa Europa ci ha abbandonato' - 'Bombardiamo di libri il Medio Oriente'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 13/05/2016, a pag. 46, con il titolo "Le voci dell'islam: 'Questa Europa ci ha abbandonato' ", il commento di Simonetta Fiori; da SETTE, a pag. 36, con il titolo "Bombardiamo di libri il Medio Oriente", l'intervista di Edoardo Vigna a Shirin Ebadi.

Ecco gli articoli:

LA REPUBBLICA - Simonetta Fiori: "Le voci dell'islam: 'Questa Europa ci ha abbandonato' "

Quello che Simonetta Fiori non dice è che quasi tutti gli scrittori e intellettuali musulmani indipendenti e coraggiosi vivono in Europa o in America. l'unico a risiedere ancora in Algeria è Boualem Sansal, che rischia la vita. Nel mondo islamico domina la censura: l'unico libro presente ovunque è il Corano, gli indici di lettura di tutto il resto sfiorano lo zero. Chi vuole leggere, deve sapere il francese o l'inglese, i libri sono importati.

Ecco l'articolo:

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Simonetta Fiori

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Boualem Sansal

L’Europa non c’è più. L’Europa è traditrice. Dov’è finita la patria dell’illuminismo che oggi soffoca i diritti sotto i muri e le barriere? Visti da qui, dal Salone delle culture arabe, non facciamo una gran bella figura. «L’Europa vacilla perché si fa le domande sbagliate», dice Yasmina Khadra, lo scrittore algerino che vive da tanti anni a Parigi. Sta arrivando a Torino per parlare dell’“Attentato” (Sellerio), un romanzo sulle paranoie che il terrorismo genera quando diventa orrore quotidiano. «Certo i tempi sono duri: crisi finanziaria, esodi massicci, ascesa dell’estrema destra. Ma le grandi nazioni si riconoscono nella difficoltà. È tempo che l’Europa recuperi la sua lucidità, il suo talento e il suo discernimento».

Nella hall del Lingotto è già arrivato Boualem Sansal, il più autocritico tra gli intellettuali musulmani, anche lui algerino, l’artefice del potente affresco su un futuro teocratico e totalitario (2084. La fine del mondo, Neri Pozza). «Ho l’impressione che l’Europa non capisca granché del mondo. Ha l’aria di pensare che tutto il globo debba rassomigliarle, ma il mondo è quello che è», dice mantenendosi sul piano del ragionamento pacato. Insomma l’Europa come «un colosso dai piedi d’argilla ». Più tardi la furia polemica lo porterà a dire che è in atto una «islamizzazione seppure non violenta: ne è un esempio l’elezione a Londra di un sindaco musulmano».

Voglia di riflettori accesi? Fragile e appannato appare il Vecchio Continente nello sguardo di chi è stato accolto e poi deluso. Ed è un bel cambio di passo quello del Salone che apre alle letterature arabe, sostituendo al criterio geopolitico quello geoculturale. Il pubblico sembra rispondere, disponendosi in fila davanti agli ingressi quest’anno per la prima volta provvisti di metal detector. Il paese ospite non è più l’Arabia Saudita, scelta contestata per la natura illiberale di quel regime, «ma una patria culturale che non è piegata alle censure», raccontano le arabiste Paola Caridi e Lucia Sorbera, artefici della svolta. Scrittori, poeti, disegnatori, saggisti che vengono dai paesi più diversi e sono voci della dissidenza, dell’esilio e della migrazione. E che rischiano una duplice mortificazione, «il soffocamento da parte dei regimi autoritari e l’indifferenza dell’Occidente, che trascura e dunque rende invisibili le società civili arabe». E dimentica chi giace in galera con l’unica colpa di aver scritto un romanzo.

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Quaderni dal carcere arabo è il titolo della serata che sarà dedicata agli assenti, alle pagine censurate, alle libertà spezzate. Agli scrittori imprigionati e ai romanzieri a cui è negata la libertà di muoversi nel mondo. È questo il caso del giornalista saudita Abdo Khal che in Le scintille dell’inferno ha messo a nudo gli squilibri e gli eccessi d’una ricchezza senza limiti (vietato in patria, il romanzo è pubblicato in Italia da Atmosphere). Lo scrittore egiziano Ahmed Nàgi è stato condannato dal tribunale egiziano a due anni di prigione “per offesa alla morale pubblica”: il capitolo incriminato è il numero sei di Vita: istruzioni per l’uso (editore Il Sirente), cronache sentimentali che farebbero sorridere i maestri di letteratura erotica. Condanna ancora più severa — cinque anni — per Ala Abd El Fattah, uno dei primi blogger dal mondo arabo ora in carcere per aver difeso la libertà d’espressione. «Faremo leggere le loro pagine dagli scrittori italiani, perché non ci sia separazione tra i due mondi», dice Caridi. Indifferenza ed estraneità: è anche questo il tradimento dell’Europa.

«Ci si può definire democratici ed eredi dell’Illuminismo, guardiani della libertà di espressione, e ignorare completamente il massacri in Siria? I morti siriani sono soltanto numeri», denuncia Shady Hamadi, che conosce la sofferenza dell’esilio per esservi nato. Ventotto anni, Shady è figlio di padre musulmano siriano e di madre cristiana italiana. Per lui lo scontro di civiltà è lacerazione della doppia radice, come scrive anche nel suo ultimo Esilio dalla Siria (Add editore). «Dei nostri morti non sapete i nomi e non conoscete i volti. Perché provare dolore davanti al Bataclan e ignorare l’attentato a Beirut?» È lo «sdegno selettivo», così lo definisce Khadra, un sentimento intermittente «che mobilita il mondo intero quando la disgrazia colpisce l’Occidente e riduce l’orrore in Africa e in Asia a fatto di cronaca». Criticano tutti l’Europa ma da posi- zioni molto diverse. E la varietà delle critiche dipende anche dal diverso rapporto con l’Islam.

«Mi accusano di islamofobia ma io non posso farci niente», dice Sansal con aria sapienziale. «Premesso che sono musulmano, figlio di musulmani e vivo in un paese musulmano, mi permetto di dire che l’Islam è una religione difficile da vivere, molto dura, che impedisce alla popolazione di entrare nella modernità e nella democrazia. Però siamo davanti a un paradosso: l’Europa è diventata la custode dell’Islam. Lo dico da scrittore: è più facile criticare l’Islam nel mondo musulmano che nei vostri paesi. Perché sappiamo che l’Europa ha i suoi problemi con le comunità islamiche e non pochi interessi con l’Arabia Saudita, il Qatar, la mia Algeria. Così si mette a camminare sulle uova: ma la riforma dell’Islam o la si fa in Europa o dove altrimenti?».

Pochi metri più in là è il giovane Shady Hamadi, che guarda a Samsal come un alleato degli imprenditori d’odio numerosi in Europa: «Intellettuali come lui e come anche Adonis tendono ad accreditare una raffigurazione stereotipata dell’Islam che non fa bene al pubblico occidentale. Non capiscono che il terrorismo islamico si combatte comprendendo le ragioni del disagio, non liquidando la religione come fonte di tutti i guai». Anche il connazionale Khadra è piuttosto scettico: «Boualem è un romanziere ed è libero di scrivere quello che vuole, ma sbaglierebbe a prendersi troppo sul serio. Crede nel trionfo delle forze oscure, io credo fermamente nella vittoria del buon senso». L’Europa ha bisogno di un rinnovato umanesimo.

L’appello di papa Francesco sembra toccare le corde più profonde delle voci arabe. «Papa Francesco ha capito: non si può amare Dio senza amare l’uomo. Il suo discorso è un appello alla fraternità», dice Khadra. «C’è qualcosa in lui che fa pensare a Cristo stesso». Un umanesimo «aperto, inclusivo, che si faccia carico del dolore di chi vive dall’altra parte del mondo», incalza l’egiziana May Telmissany. Siamo davanti a «un nuovo fascismo », così lo definisce Tahar Ben Jelloun, che va combattuto ovunque, in Europa come negli Stati Uniti. Bisogna creare ponti, anche attraverso il cibo: è il monito che arriva da Soup for Syria, un manuale di “ricette per la pace e la condivisione” realizzato per fini umanitari da Barbara Abdeni Massaad (EDT). Perché il mondo non appartiene più a noi ma ai nostri figli, ricorda Khadra: «Cerchiamo di tramandare un pezzetto di paradiso, visto che noi abbiamo conosciuto l’inferno e i suoi rimorsi».

SETTE - Edoardo Vigna:  "Bombardiamo di libri il Medio Oriente"

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Edoardo Vigna

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Shirin Ebadi

"Se nascessi di nuovo, farei esattamente le stesse cose che ho fatto finora". Nessun rimorso? Nessun rimpianto? Le fatiche per diventare giudice — donna — in Iran; la difesa dei diritti umani in una teocrazia; le "pressioni" dei servizi di sicurezza della rivoluzione islamica; perfino — in un certo qual modo, come vedremo — la fine del suo matrimonio... Shirin Ebadi lo ribadisce come se il solo affermarlo contenga ogni spiegazione: «Rifarei assolutamente tutto». La premio Nobel per la Pace zoo3 è fatta così. Candidamente dritta. Di schiena e di parola. «La domanda "guida" della mia vita, quella che mi accompagna dal mattino, ogni giorno? Una, da sempre: "Fa' ciò che è giusto"». «Perché non porto il velo? Semplice: Perché non mi va». Con la stessa semplicità, Shirin Ebadi racconta gli ultimi tre lustri nella sua vita, senza omettere niente, senza giri di parole, nelle pagine di Finché non saremo liberi, sottotitolo Iran. La mia lotta per i diritti umani, in libreria da Bompiani.

Con l'intensità e la naturale autenticità di un diario. Parla delle sue paure, di notte, per le strade di Teheran; ricorda quando, ancora in Iran, «arrivando a casa la sera per prima cosa mi toglievo il velo, poi estraevo la batteria dal cellulare» per non essere intercettata; svela al mondo la telefonata con cui Javad, suo marito da quattro decenni, le ha rivelato il tradimento: «Mi perdonerai?», chiedeva lui, con voce tesa e scossa. Shirin Ebadi, 68 anni, fuori dall'Iran dall'anno delle grandi proteste di piazza, il 2009 («Dove vivo oggi? Negli aeroporti di tutto il mondo, i miei preferiti sono Heathrow, a Londra, e Amsterdam», dice), arriva all appuntamento con la stessa semplicità di stile. Entra nel club londinese per corrispondenti di guerra, zona Paddington, stringendosi sulle spalle il piumino nero, punta dritto al tavolo di legnaccio nell'angolo in fondo e chiede un cappuccino, non prima, però, d'aver offerto con un sorriso un caffé allospite italiano.

Indossa giacca e pantaloni color grigio ghiaccio con un bordo di raso, e un girocollo nero: uniche concessioni alla vanità, un velo di rossetto rosa e l'anello turchese al mignolo sinistro. «Un ricordo di mia madre», spiega, «non mi sono mai piaciuti i gioielli, non li ho mai portati». E in effetti, anche i lobi rivelano rassenza assoluta di orecchini.

«Il mio scopo, nello scrivere questo libro, è rendere testimonianza a dò che il popolo iraniano ha sopportato nell'ultimo decennio. Vedrete come uno stato di polizia può influire sulla vita delle persone e gettare le famiglie nella disperazione»: a dispetto dell'esordio, il volume è pervaso di speranza. Cosa spinge Shirin Ebadi a sperare, ancora, in un cambiamento nel suo Paese? La rivoluzione khomeinista data 1979, i fondamenti della repubblica islamica sono granititi, la presa del potere assoluta... «È la durezza della vita che gli iraniani hanno sperimentato. La situazione è molto diversa rispetto all'avvento della Rivoluzione o a io anni fa la situazione economica, per la crisi, è deteriorata terribilmente, i dati della disoccupazione sono altissimi, la gioventù che ha studiato vuole lasciare in blocco l'Iran, visto che è impossibile trovare un lavoro. E infatti, secondo l'Unesco, c'è il più alto livello di fuga dei cervelli nel mondo. Anche il livello di corruzione è elevato. Ma il movimento degli studenti, quello delle femministe e quello dei lavoratori, sono segni che la società è solida. C'è poi un alto livello d'istruzione, e, secondo me, si è diffusa la consapevolezza che la religione debba essere separata dallo Stato. Perciò penso che l'Iran abbia grandi possibilità di approdare alla democrazia».

Le ultime elezioni, fra il primo turno di febbraio e il secondo di fine aprile, hanno visto il successo di riformatori e moderaiL (Le donne, 18 su 290 parlamentad, non sono mai state così tante). «Qui bisogna partire da un semplice punto: in Iran le elezioni non sono libere. I candidati devono essere vagliati, per prima cosa, dal Consiglio dei Guardiani. E i membri di quest'organo non sono eletti dal popolo ma incaricati dalla Guida Suprema. Al voto di febbraio, una minoranza di riformisti è riuscita ad approdare in Parlamento. Ma Il loro numero è così ridotto che non avranno un peso nelle future votazioni. Pem...».

Ah, bene, un però. «... però, anche se fossero stati la maggioranza, non ci sarebbe stata differenza. Il presidente Khatami era un riformatone, e aveva i numeri per decidere nell'assemblea, e per due mandati — 8 anni in tutto (dal 1997 al 2005, ndr) - potere legislativo ed esecutivo erano nelle mani dei riformisti. Ebbene? E successo qualcosa? Niente. E il semplice motivo sta nella struttura politica de11'Iran: la Costituzione stabilisce che c'è una Guida Suprema con il potere assoluto. Che può mettere il veto a qualsiasi legge. Che ha un'autorità illimitata Se non è stato possibile cambiare qualcosa allora, che erano di più, figuriamoci oggi che sono di meno».

Lo storico accordo sul nucleare del luglio 2015, tra l'Iran e i Paesi del 5+1, con i controlli accettati da Teheran e il progressivo alleggerimento delle sanzioni economiche imposte negli ultimi anni, può agevolare un cambiamento? «In Iran ci sono alti ufficiali contrari all'accordo. Teheran ha testato per due volte missili a lunga gittata con cui raggiungere Israele. Gesti così hanno un significato preciso nell'opporsi all'accordo. Vorrei che si continuasse sulla strada intrapresa, ma penso sia improbabile, ha oppositori sia in Iran, sia negli Stati Uniti. Inoltre questi accordi non hanno un impatto sulla situazione economica interna iraniana, non si sono tradotti in investimenti stranieri, che sono poi quelli che davvero cambiano le cose».

Della Guida Suprema — dall'89 — Ali Khamenei, massima autorità religiosa e politica dell'Iran, Il successore dell'ayatollah Khomeini, si dice die sia malato. «Voci, che non posso né confermare né smentire. Ma il vem problema è la Costituzione, che dà il potere a una sola persona».

Questo significa che, chi vuole cambiare, ha dunque solo l'extrema ratio della rivoluzione...? «Gli iraniani non la vogliono, non un'altra I fanno visto che risultati porta una rivoluzione. Ma sanno anche quanto sia spietato questo governo. Sanno che se vanno in piazza a protestare possono essere uccisi. Nel 2009, durante le elezioni presidenziali, l'abbiamo visto (nelle manifestazioni post-elettorali mori Neda Agha-Soltan, che divenne un simbolo, ndr). No, gli iraniani non vogliono certo che il Paese diventi un'altra Siria. Ecco perché resistono al governo, ma pacificamente. E visto che gli oppositori sono numerosissimi, e crescono ogni giorno di più, arriverà il momento in cui il governo dovrà cominciare a cedere».

Nel libro, in cui racconta la sua lotta per i diritti umani caso per caso, la sua fiducia è rivolta alla «disobbedienza pacifica». È dunque Gandhi, il modello? «I lo un grande rispetto per il Mahatma, ma le circostanze e la situazione dell'Iran al momento sono molto differenti da quelle in cui viveva lui. No, non mi sono ispirata a lui. Io guardo alla situazione dell'intero Medio Oriente, a come i governi possano essere aggressivi. E, più semplicemente, vorrei solo individuare strade per cui la gente possa soffrire meno. Tutto qui».

Lei getta il cuore oltre l'ostacolo: "Finché non saremo libere"... Ma quanta paura ha provato per la sua vita? E quando? «I Io ricevuto molte minacce di morte. Ma non ho mai permesso loro di sottrarmi al lavoro, anche se la ragione mi diceva di fermarmi. E queste minacce continuano ancora oggi: un giorno, "sono" venuti a Londra e hanno affittato l'appartamento accanto all'ufficio in cui avevo aperto la mia ong sui diritti umani (il Center for Supporters of Human Rights, ndr) in una moderna torre di vetro ad I Iammersmith».

I servizi di sicurezzia, come lei ricorda, avevano già affittato Il palazzo accanto alla sua ong quando viveva a Teheran. «Esatto! Evidentemente amano il mio stile... qualsiasi cosa io compri, "loro" vogliono comprare la stessa cosa. Sono diventata un modello...».

Nel libro racconta di una sera, a Teheran nel 2005, dopo la prima elezione a presidente di Ahmadinejad, in cui tornando a rasa dopo mezzanotte cm le sue figlie si trovò davanti due uomini minacdosi, «con i capelli tirati indietro col gel», di cuI uno «con un blazer a quadri da cul sembrava spuntare qualcosa». In quell'occasione le porte di un ristorante si aprirono all'improvviso, gli ospiti di un matrimonio si riversarono in strada e non successe nulla. Si è mai chiesta come mai è ancora viva? «Sono stata fortunata! Sa che mi è anche capitato di vedere l'ordine di morte emesso dalle autorità? Avevano avuto anche l'ok del ministero... Però era Ramadan, e il responsabile disse: "Aspettate che finisca la festa". Cosi rinviarono l'esecuzione... Quando mi sono trovata davanti il documento, in realtà fui sorpresa».

Perché? «Io non ero un leader politico. Non lo sono mai stata. Perché devono essere preoccupati a tal punto da valermi morta? Forse temono la mia popolarità. O il fatto che abbia accesso alla stampa internazionale».

Forse c'è chi vede in lei una potenziale Aung San Suu Kil: Nobel (nel '95), simbolo di resistenza contro la dittatura militare birmana, poi traghettatrice del Paese verso la democrazia. «Ma io non sarò mai come lei. Aung San Suu Kyi ha fatto politica fin dall'inizio. Io non san') mai una leader politica. Né membro di un partito. Sono e sarò sempre solo un'avvocato. Loro lo sanno. A me non piace nemmeno, la politica».

In queste pagine racconta per la prima volta la fine del suo matrimonio. E dò die è successo a suo marito javad: attirato dagli uomini dell'intelligente in un incontro intimo con una donna - una vecchia amica -, filmato, arrestato, indotto a certe dichiarazioni nel suoi confronti. Fino alla separazione. Non siamo stall più «padroni della nostra storia», dice perché ha voluto rendere tutto noto? «Quello che hanno fatto a mio marito, l'hanno fatto a tanti altri uomini, compresi diversi miei clienti quando ero avvocato a Teheran. A loro ripetevo: devi dire a tutto il mondo ciò che è accaduto. Ma loro non lo hanno fatto perché questo è un argomento considerato un tabù. Ho raccontato apposta la mia storia proprio per rompere questo tabù e incoraggiare altri a parlare. Allo stesso tempo volevo che la gente di tutto il mondo sapesse come il governo tratta i suoi cittadini. Cose ne pensa mio marito? Questo libro non è stato pubblicato in persiano. Le mie figlie hanno approvato del tutto la mia scelta».

Ricorda com'era l'Iran prima degli ayatollah? Anche quello era un sistema che aveva le sue responsabilità. «Quando ero all'università, ogni cosa era bella, felice. Ovviamente nella mia valutazione bisogna metterci che ero giovane... Ma, in quegli anni, l'Iran era anche un Paese in cul c'era un sistema di welfare. E c'era tanto lavoro: chi si laureava sapeva che entro due, massimo tre mesi, avrebbe trovato un buon lavoro. Tutti gli studenti che andavano magari a studiare in un'unhersità straniera tornavano subito dopo la laurea: gli stipendi, per I neo-assunti, erano molto più alti che altrove».

Ricorda ancora il momento in cui lei decise di fare il giudice? «Era all'ultimo anno di legge e Il governo di allora — pre-rivoluzione islamica—annunciòche la magistratura veniva infine aperta anche alle donne. Decisi lì, in un attimo. Per riusdrd, però, occorreva passare un esame e una valutazione. Poi c'erano sei, difficilissimi mesi di apprendistato. E alta fine diventavi giudice. I cinque migliori della classifica sarebbero stati assegnati al tribunale di Teheran, gli altri andavano in provincia. Ma i miei genitori vivevano nella capitale, e lo volevo rimanere lì. Insomma: studiai tantissimo, e alla fine arrivai prima».

Trentasette anni di un mondo diverso, secondo lei, ha cancellato la consapevolezza nelle donne che possono fare dò che vogliono, proprio come l'aveva lei? «Le donne iraniane hanno ancora tanta fiduda in se stesse. E sono motto combattive. Il movimento femminista è fortissimo in Iran. Al momento un centinaio di loro sono in prigione. Morrei parlare di una in particolare: Narges Mohammadi. A causa del suo lavoro con me e del suo attivismo per la causa delle donne è in prigione con una sentenza a sei anni. In prigione è stata torturata e si è ammalata. Nonostante questa condizione, ha iniziato una campagna di sensibilizzazione, dal carcere, per difendere le donne detenute. Quando i figli di chi è stato condannato a una pena detentiva sono molto piccoli, devono vivere con la madre dietro le sbarre, in piccole celle in cui non c'è luce. Non c'è nemmeno una nursery, per loro. E quando i ragazzi invece sono grandi, e vivono fuori dal carcere, le madri non hanno nemmeno la possibilità di chiamarci al telefono ogni giorno, perché — mentre nelle carceri maschili un apparecchio c è — nelle carceri femminili non c'è. Ecco perché lei ha lanciato la sua lotta. Naiges, che ha anche vinto ll premio Alexander Langer, è una donna condannata per il suo impegno, è malata, deve ancora scontare 5 anni, sempre che non venga avviato contro di lei un altro processo per chissà cosa: eppure è ancora attivissima. Ecco come sono le donne iraniane. Il movimento femminile può essere il fulcro per cambiare le cose, definitivamente: è il più forte che c'è nel Paese. Per questo il governo ha tanta paura delle donne. E anche perché il movimento ha tanti sostenitori fra gli uomini iraniani: a Teheran, come avvocato, ne avevo molti come clienti, arrestati per la loro lotta».

Negli Stati Uniti Hillary Clinton corre per diventare presidente. Può essere un simbolo per le donne di tutto il mondo? «Sono fencedi vedere qualsiasi donna raggiungere il potere politico, ma non penso che il suo successo possa avere un particolare impatto in tutto il mondo. Ricordo Margaret Thatcher al vertice del Regno Unito (1975-1990, ndr) ha avuto "effetto" altrove? Ricordo Golda Meir in Israele ('69-'74) ha miglioratola condizione delta donna nel suo Paese? E non parlo del mondo intero...».

Nel '79, la svolta islamica fu segnata quasi subito dall'obbligo del velo. Ora la ministra Laurence Rossignol ha dello che in Franda ci sono «musulmane che scelgono il velo come c'erano negri americani favorevoli allo schiavismo». «Io non aedo nel velo, non Io indosso per questo. Ma questa è la condizione normale: dovrebbe essere una libera scelta della donna In Iran anche molti clerici di alto profilo la pensano come me. Ma nel mio Paese, il velo è un punto politico. Il governo obbliga le donne a metterlo. Ogni donna che non lo fa, è considerata una criminale e punita. Nel Paesi in cui la legge non c'è, invece, indossarlo è solo una scelta personale. Penso alla Malesia o ailindonesia. Là c'è chi porta l'hijab e chi no, e lavorano tutte una accanto all'altra senza problemi. Dipende dai Paesi e dalle circostanze».

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