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Corriere della Sera-La Repubblica Rassegna Stampa
06.10.2015 Siria: un alleato sgradevole e i curdi dimenticati
Editoriale di Paolo Mieli, analisi di Federico Rampini

Testata:Corriere della Sera-La Repubblica
Autore: Paolo Mieli-Federico Rampini
Titolo: «Un despota alleato inevitabile-Curdi a arabi per l'attacco di terra»

Riprendiamo da CORRIERE della SERA e REPUBBLICA di oggi, due articoli sulla Siria. Il primo, l'editoriale di Paolo Mieli, a pag.1, il secondo l'analisi di Federico Rampini a pag.12.

Corriere della Sera-Paolo Mieli: " Un despota alleato inevitabile"

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Paolo Mieli

Non c’è soltanto Romano Prodi. Anche l’ex ministro degli Esteri francese, fondatore di Médecins Sans Frontières, Bernard Kouchner, pur non avendolo mai apprezzato, ha riconosciuto che, nella partita siriana, il leader russo si è dimostrato «un grande giocatore di scacchi» e che «in questa fase sembra avere sempre una lunghezza d’anticipo». Laddove l’altro giocatore sarebbe il presidente degli Stati Uniti. In effetti c’è qualcosa che non torna nella strategia anti Isis dell’Occidente. Punto primo: definiamo il Califfato «nuovo nazismo», con ciò conferendogli — se le evocazioni storiche hanno un senso — il rango di nemico numero uno. A questo punto la logica imporrebbe di considerare alleati pro tempore o in ogni caso non nemici tutti quelli che si oppongono all’Isis. A cominciare dal despota siriano Bashar al Assad (stendendo momentaneamente un velo sulle sue nefandezze scrupolosamente riepilogate qualche giorno fa sul Foglio da Daniele Raineri). Quell’Assad il cui potere adesso vacilla e che evidentemente Obama ritiene conveniente sia tolto di mezzo per bilanciare un fattivo impegno contro le milizie di al Baghdadi. Una bizzarria. Come se, ai tempi dell’assedio di Stalingrado (luglio 1942-febbraio 1943) inglesi e statunitensi avessero sotto sotto tifato per la contemporanea sconfitta del generale von Paulus e del maresciallo Zukov. A nzi come se — in considerazione del fatto che ancor prima dell’ascesa al potere di Hitler (30 gennaio 1933) Stalin aveva già provocato la morte di almeno tre milioni di persone, tre le stava facendo fuori nel genocidio ucraino, e altre sei le avrebbe sterminate nel corso degli anni Trenta — come se, dicevamo, nell’ottobre del ’42, allorché i tedeschi portarono gli scontri dentro la città che prendeva il nome da Stalin, gli angloamericani si fossero compiaciuti nel veder vacillare il potere sovietico. Invece i loro sentimenti furono opposti. E lo furono nonostante, ripeto, considerassero il dittatore georgiano alla stregua di un Satana e gli imputassero anche di aver facilitato quell’aggressione nazista alla Polonia da cui aveva avuto origine la Seconda guerra mondiale. Certo, americani e inglesi all’epoca erano legati da un patto d’alleanza con i sovietici, ma erano consapevoli (quantomeno lo era Churchill) del fatto che, quando Hitler fosse stato debellato, il confronto con il leader del comunismo mondiale sarebbe stato assai duro. E seppero scegliere. Ebbero il coraggio di scegliere. L’Occidente di oggi no. Lancia proclami altisonanti contro l’Isis e sostiene milizie locali che si battono contro più di un nemico alla volta e che, fatta eccezione per quelle curde, non appaiono in grado di ottenere grandi risultati . E come potrebbero ottenerli? Dove si reclutano persone disposte a combattere? Il New York Times ha calcolato che dal 2011 a oggi si siano trasferiti in Iraq e Siria circa trentamila foreign fighter , provenienti da oltre cento Paesi, per fare la guerra dalla parte dell’Isis. Thomas L. Friedman si è domandato se ha un senso che noi, per reclutare combattenti «nostri», andiamo alla ricerca dei moderati locali, «come un rabdomante fa per l’acqua con una bacchetta in mano». Se ha un senso doverli istruire, dal momento che nessuno deve addestrare i jihadisti i quali affluiscono in così gran numero e per giunta sono «ideologicamente incentivati». Ammettiamolo: «non esiste alcuna massa critica di siriani animati da ideali», scrive Friedman; «sì, combatteranno per le loro case e le loro famiglie, ma non per un ideale astratto quale la democrazia». Noi «cerchiamo di sopperire a ciò con l’”addestramento” militare, ma non funziona mai». Esistono, chiede ancora Friedman, «veri democratici nell’opposizione siriana? Potete scommetterci, ma non sono abbastanza e non sono organizzati, motivati e spietati quanto i loro nemici». E si può immaginare che Friedman pecchi di ottimismo: ammesso che quel ceto medio riflessivo di Damasco esista davvero, si deve ritenere che sia già emigrato in Europa o si accinga a farlo, anziché impegnarsi in un’impresa alquanto ardua qual è quella di impugnare le armi. Soprattutto in quella parte del mondo . Ancor più ottimista ci è parso poi Bernard-Henri Lévy, reduce da un viaggio in loco. Nell’anniversario dell’11 Settembre, Lévy ha pubblicato un articolo in cui ripeteva una dozzina di volte, a ogni capoverso, che quelli dell’Isis «saranno sconfitti». «Saranno sconfitti perché le truppe del presidente Barzani possono riprendere Mosul quando vogliono: i piani sono pronti; gli uomini sono pronti; basterà qualche ora per riconquistare la pianura di Ninive e consentire ai cristiani e agli yazidi di ritrovare le loro case razziate. Le truppe aspettano un segnale, uno solo per sapere quando i sunniti rimasti a vivere sotto l’Isis ne avranno abbastanza di quei gangster e di quei teocrati assassini», i quali «finiranno come i khmer rossi con l’uccidersi a vicenda nella più grande confusione». «Saranno sconfitti infine perché la coalizione internazionale che si batte al fianco dei curdi un giorno si deciderà a dare il colpo di grazia». Un giorno? Più o meno quando? È senz’altro lodevole l’intento di infondere speranza nei cuori dei lettori che poco conoscono delle dinamiche di quel conflitto. Ma è pericoloso spargere l’idea che nell’area del Daesh (è il nome che lo Stato Islamico dà a se stesso) la vittoria sia a portata di mano. Perché se poi le cose, di qui a qualche mese, non dovessero andare nei modi annunciati da Bernard-Henry Lévy, c’è il rischio che in quegli stessi lettori subentri un senso di demoralizzazione. E lo sconforto, com’è noto, è meno effimero dell’euforia .

La Repubblica- Federico Rampini: "Curdi a arabi per l'attacco di terra"

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Federico Rampini

"Il Pentagono ha speso 500 milioni per addestrare cinque ribelli anti- Stato Islamico. Speriamo siano cinque Terminator". Il sarcasmo è di John Mc-Cain, l’avversario di sempre di Barack Obama in politica estera, il repubblicano più autorevole sui temi strategici. Gli fa eco l’umorismo sprezzante del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov: «I ribelli moderati che appoggia Obama? Sono dei fantasmi. Nessuno sa nulla di loro». È per reagire a queste percezioni che Barack Obama lancia un riesame della sua strategia in Siria. Tanto più urgente, ora che la Russia si agita militarmente in quel teatro di guerra, provocando tensioni a non finire, inclusi gli sconfinamenti nello spazio aereo della Turchia ( membro Nato). Obama non ci sta a farsi descrivere come «il leader dalla retroguardia» (altra battuta di McCain) che abbandona la Siria alle scorribande di Vladimir Putin. Il suo nuovo piano è anticipato dal New York Times che ne rivela due elementi. C’è la preparazione di una nuova offensiva nella Siria nord-orientale, un “grosso fronte” che deve mettere sotto pressione Raqqa, capitale dello Stato Islamico (Is). L’attacco terrestre dovrebbe mettere in campo le forze più affidabili e filo-americane, cioè i peshmerga curdi, insieme con un nuovo battaglione di combattenti arabi. Con un certo squilibrio fra loro: i curdi possono schierare 20.000 soldati di provata efficacia, mentre i nuovi combattenti arabi sarebbero al massimo 5.000. Un’altra operazione affidata alle milizie dei ribelli siriani, è la “chiusura totale” di 60 miglia del confine fra Turchia e Siria, un settore dal quale continuano a passare rifornimenti di armi e di volontari jihadisti verso le aree controllate dall’Is. A sostegno di queste due offensive terrestri, dovrebbe partire un’altra fase nei raid aerei, stavolta usando soprattutto la base aerea più vicina, quella di Incirlik in Turchia. L’avvio di questa nuova fase nelle operazioni della coalizione, è anche la conseguenza dello “stallo tattico” riconosciuto esplicitamente dal generale Martin Dempsey, che di recente ha lasciato la guida delle forze armate Usa. I sarcasmi dell’opposizione repubblicana Washington, e anche le critiche venute da Hillary Clinton (che propone una no-fly zone e corridoi umanitari in Siria) sono un problema per Obama. Ma non così recente come quello posto da quando la Russia è entrata in azione. A una settimana dal primo annuncio che Putin diede qui a New York durante l’assemblea Onu, per Obama è diventato urgente reagire. Molti lo accusano di avere “lasciato la Siria ai russi”, magari dimenticando che la Siria è “dei russi” almeno dal 1971, anno d’inaugurazione della base aerea — allora sovietica — a Latakia, e di quella navale a Tartus. Tuttavia il ritorno di Putin come attore decisivo in Medio Oriente, è una sfida per Obama. La Casa Bianca non può sottovalutare le implicazioni dell’intervento militare russo. In sette giorni di bombardamenti, gli americani si sono convinti che Putin non sta attaccando l’Is bensì l’opposizione filo-americana. Il teorema secondo cui bisogna appoggiare Assad “unico baluardo contro il terrorismo”, è un’invenzione di Putin che la Casa Bianca contesta — Assad ha più volte appoggiato i jihadisti. Più nell’immediato, crescono i rischi di “incidenti”: tra la coalizione guidata dagli Usa, e l’aviazione russa. Il piano per “de-conflict”, cioè la consultazione tecnica fra militari americani e russi finalizzata a prevenire collisioni e altri incidenti involontari, per ora funziona poco. Figurarsi cosa potrà accadere quando entreranno in funzione i cosiddetti “volontari russi”: cioè scatterà anche l’intervento militare terrestre sotto la guida di Putin. Obama deve vedersela anche con il crescente nervosismo dei suoi alleati arabi, dall’Arabia saudita al Qatar, esasperati per l’appoggio russo al regime di Assad. All’interno della Siria 41 fazioni ribelli denunciano «la brutale occupazione russa che preclude ogni soluzione politica». «Putin non fa altro che gettare benzina sul fuoco», continua a ripetere il segretario Usa alla Difesa, Ashton Carter. Ma ora Obama punta su una risposta concreta, sul terreno, e si affida alla Syrian Arab Coalition: questo il nome della nuova coalizione tra una dozzina di fazioni ribelli, che dovranno combattere a fianco dei peshmerga curdi conto l’Is. Una presenza importante anche politicamente: per rassicurare la Turchia che diffida dei combattenti curdi. Sperando che questa Syrian Arab Coalition non sia l’esercito delle ombre dileggiato da Lavrov. E che plachi l’ira del Congresso per quei 500 milioni di dollari pagati dal contribuente americano.

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