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La Repubblica-Il Messaggero Rassegna Stampa
06.10.2015 Menzogne e Omissioni: come funziona la propaganda
di Fabio Scuto e Eric Salerno

Testata:La Repubblica-Il Messaggero
Autore: Fabio Scuto-Eric Salerno
Titolo: «La terza intifada, uccisi due ragazzi palestinesi, uno aveva 13 anni-Israele nuovi scontri e nuovi morti, rischiamo un'altra guerra»

Per conoscere i fatti rinviamo alla pagina con gli articoli di Maurizio Molinari, quasi solitario, oggi, 06/10/2015, nel riportare sulla STAMPA quanto avviene, senza menzogne, omissioni e propaganda. Chi ci sguazza, sono come al solito Fabio Scuto su REPUBBLICA e Eric Salerno, la cui firma appare sul MESSAGGERO come quella di Igor Man usciva sulla Stampa in attesa che la natura facesse il suo corso. Il nostro commento prima dei due articoli

Repubblica- Fabio Scuto: " La terza intifada, uccisi due ragazzi palestinesi, uno aveva 13 anni "


Fabio Scuto

A partire dalla titolazione, tutto il pezzo di Scuto è intriso dalla più bieca retorica. Ci chiediamo se si beccasse lui una molotov incendiaria sul crapone starebbe tanto a sofisticare sull'età di chi gliel'ha tirata, attento a non chiamarlo terrorista, ma ragazzo, ragazzino o addirittura adolescente ! Definisce poi 'martiri' gli aggressori, il linguaggio di  chi incita quei disgraziati a farsi uccidere seguendo gli ordini di Abu Mazen, Al Quds va liberata, aveva annunciato alla Assemblea dell'Onu, gli 'adolescenti' di Scuto non hanno fatto altro che mettere quegli ordini in pratica. Conta poco se cita poi, bontà sua, gli israeliani morti ammazzati, termina il pezzo con una accusa a Netanyhau, mentre in tutto l'articolo non ha fatto altro che lisciare il pelo a Abu Mazen. Possiamo dire quando sia indecente per REPUBBLICA avere un corrispondente come Scuto ?

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invitiamo i nostri letteri a chiederlo a Ezio Mauro, direttore di Repubblica.
e.mauro@repubblica.it


Ecco l'articolo:

I cinquanta ragazzini del campo profughi di Aida non hanno nemmeno aspettato di arrivare alla Middle School di Betlemme che dista un paio di chilometri per mettere giù gli zainetti. Con questi hanno invece formato la loro prima linea sull’incrocio che da questa parte della città porta verso la Chiesa della Natività. Hanno cominciato prima a insultare i soldati israeliani schierati sull’altro lato della strada, poi a loro si è aggiunto qualche adolescente e sono volati pietre e sassi, mentre l’aria si riempiva dell’odore nauseabondo dei lacrimogeni. Forse ringalluzziti dalla presenza dei “più grandi” gli shebab sono rimasti lì, a prendere il fumo dei gas, mentre la battaglia si faceva più violenta. Sono arrivate le molotov e le pallottole di gomma, ma con l’anima d’acciaio, e poi i colpi veri. Uno di questi ha centrato in petto Abed, un ragazzino di 13 anni, cresciuto con la famiglia nel piccolo campo profughi di Aida che è a ridosso della città. È stato dichiarato morto al pronto soccorso di Beit Jala, un suo compagno di scuola è stato invece ferito alle gambe. «Non è il primo martire e non sarà l’ultimo ma almeno è morto per la sua patria», dice Othman Abdullah, il padre del ragazzino sulla porta del piccolo ospedale, «come possono chiederci pace quando ci fanno questo?». La stessa domanda che si sono fatti i parenti delle vittime israeliane di questi giorni. L’esercito israeliano è in attesa di completare le indagini, ma nega che possano essere state usate “armi letali” in quello scontro. Abed è il secondo teenager palestinese a essere ucciso in questo modo nelle ultime 24 ore in Cisgiordania — Houzeifa Othman Suleiman, 18 anni, è stato ucciso ieri notte a Tulkarem — dove sono scoppiati scontri a macchia d’olio che hanno investito anche Hebron, Jenin e i quartieri arabi di Gerusalemme. La morte del ragazzino ha scatenato la rabbia per le strade di Betlemme, dove circa 300 giovani hanno attaccato con pietre i soldati israeliani al check point d’ingresso della città, vicino al Muro di separazione costruito da Israele. Nella Città santa è stata battaglia in quasi tutti i sei quartieri arabi. In questa spirale di violenze, mai sopite, ma riaccese questa estate, solo nell’ultima settimana sono morti quattro israeliani — la coppia uccisa in auto giovedì scorso nei pressi di Nablus e i due accoltellati a Gerusalemme — e nove palestinesi. I numeri di questa crisi cominciano ad essere preoccupanti. Solo nelle ultime 24 ore la Mezzaluna Rossa, la Croce Rossa palestinese, ha curato 456 persone: 36 feriti da pallottole vere, 136 da quelle in gomma, il resto intossicati dai gas. A dispetto di un cielo azzurro che solo il Medio Oriente sa dare in questa stagione, grava invece una cappa asfissiante che rende pesante il respiro, perché questa escalation risveglia ancora una volta lo spettro di una nuova Intifada. C’è chi ne parla per scongiurarne la venuta, altri per invece per accelerarne l’arrivo. Di fatto, israeliani e palestinesi — consumati da questa tragedia nella quale è difficile sempre stabilire quali sono i “buoni” e quali i “cattivi” — si preparano a una terza rivolta di piazza. Il rischio è che l’attuale situazione possa degenerare in una spirale di scontri, attacchi, rappresaglie come quelle della prima Intifada (1987-1993) e della seconda (2000-2005) che hanno provocato migliaia di vittime è molto alto. Dall’inizio dell’anno le violenze hanno causato 31 morti palestinesi e 8 israeliani. Esperti, diplomatici, ong da mesi mettono in guardia contro il pericolo di una nuova esplosione di violenze. La parola Terza Intifada è già su molte bocche già alla fine dell’anno scorso. Nessuno oggi è in grado di dire se stiamo andando a grandi passi verso una nuova crisi che potrebbe durare anni. La frustrazione e l’esasperazione tra i palestinesi è notevole dopo un’attesa durata decenni, il processo di pace è moribondo e la maggioranza — come ha rivelato l’ultimo sondaggio — ormai sostiene una rivolta armata in assenza dei colloqui di pace. Le autorità palestinesi sono ampiamente screditate e corrotte, mentre l’espansione in Cisgiordania degli insediamenti prosegue come il “blocco” attorno alla Striscia di Gaza. Lo scambio di reciproche accuse sul podio dell’Onu fra il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Abu Mazen, sono lo specchio delle speranze fallite, del futuro senza futuro. In questo la Spianata delle Moschee — il nocciolo del conflitto israelo- palestinese — ha fatto da catalizzatore. Sito sacro per i musulmani come per gli ebrei vive uno status quo precario, minacciato per i palestinesi da un’annessione “de facto” da parte di Israele. Netanyahu nega, ma i fatti non sempre confermano le sue parole. Per i palestinesi la difesa della Spianata è rimasto l’ultimo grido di battaglia per un’identità religiosa e nazionale.

Il Messaggero-Eric Salerno: "Israele nuovi scontri e nuovi morti, rischiamo un'altra guerra"

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Arafat, il suo idolo                                                             Eric Salerno

 Idem il pezzo di quel vecchio arnese di Eric Salerno. Dopo aver scritto tutto il male possibile quando era in Israele, continua ora con qualche commento, in attesa - come avvenne per Igor Man sulla Stampa - che la naura faccia il suo corso. La menzogna iniziale - che Arafat fosse stato colpo di sorpresa dalla precendete intifada, avendola organizzata lui stesso- è talmente ridicola che screditerebbe qualsiasi cronista- Ma non Salerno, che di menzogne ne aggiunge un'altra, su Abu Mazen, che gli ordini di conquistare Al Quds (Gerusalemme in arabo) li  ha dati proprio lui, ma Salerno pur di attaccare Israele lo fa passare per rimbambito. Altro paragone ridicolo è quello tra quanto avviene in Israele e nel resto del Medio Oriente. Una semplice interpreatazione psicoanalitica direbbe che Salerno se lo augura.

Ecco l'articolo:

Quattro ebrei israeliani uccisi nell'ultima settimana; almeno tre palestinesi morti sotto i colpi di polizia ed esercito israeliani; centinaia gli arabi feriti. La città vecchia di Gerusalemme, per la prima volta, è off limits per gli arabi non residenti ma gli scontri cominciati attorno ai luoghi santi delle tre religioni monoteistiche si sono estesi agli altri territori occupati. Per il cronista chiamato a registrare l'impennata di violenza che ha accompagnato le feste ebraiche dell'ultimo mese, il quadro assomiglia all'inizio della prima Intifada. Nel 1987, Yasser Arafat e la leadership dell'Olp erano in esilio e la rivolta palestinese li colse di sorpresa. Come sorprese le autorità e il popolo israeliani. La rabbia dei giovani che tiravano pietre contro i carri armati non era organizzata così come, sostengono i dirigenti dell'Autorità palestinese, sono iniziative non coordinate quelle di chi oggi protesta e, talvolta, uccide. Il premier Netanyahu ha introdotto draconiane misure di sicurezza - sparare a chi tira pietre, abbattere le case dei loro genitori - mentre il leader palestinese Abu Mazen sbraita contro Israele ma fa di tutto per impedire una nuova Intifada.  Il successore di Arafat, invecchiato, frustrato e ormai poco amato dal suo stesso popolo si è appellato alla comunità internazionale. Non ha mai creduto nella lotta armata e oggi teme, quanto Netanyahu, che in mancanza di un intervento diplomatico veramente incisivo la Palestina e Israele finiranno nel caos che sta devastando l'intero Medio Oriente. La guerra di due popoli per la stessa terra rischia di trasformarsi in una guerra di religione. Per l'ex ambasciatore israeliano Uri Savir, uno degli artefici degli accordi di Oslo, l'abisso è sempre più vicino. «È sufficiente una provocazione», dice. «Una bomba a mano gettato in mezzo agli arabi in una moschea. O una bomba a mano in mezzo agli ebrei davanti al muro del pianto. È facile immaginare quello che potrebbe succedere visto che la scena è dominata da gruppi di fanatici». L'esercito ha arrestato cinque palestinesi ritenuti responsabili dell'omicidio dei due coniugi israeliani Eitam e Naama Henldn, in Cisgiordania. Farebbero parte di una cellula di Hamas. Altri palestinesi arrestati recentemente avevano sposato l'ideologia dell'Isis. E dall'altra parte della barricata, agiscono «terroristi ebrei» - come sono stati definiti dallo stesso Netanyahu nel promettere che saranno presto arrestati anche loro.

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