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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
27.05.2015 L'80% degli arabi sostiene il Califfato: lo dice Al Jazeera
Analisi di Paolo Mastrolilli, Giampaolo Cadalanu; intervista di Paolo Mastrolilli a Daniel Pipes

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Paolo Mastrolilli - Giampaolo Cadalanu
Titolo: «Sondaggio choc su Al Jazeera: l'80 per cento degli arabi è per l'Isis - 'Sostegno destinato a sparire' - Via all'offensiva contro l'Is ma il Califfo schiera missili, Mig e carri armati: ecco l'arsenale segreto»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 27/05/2015, a pag. 13, con il titolo "Sondaggio choc su Al Jazeera: l'80 per cento degli arabi è per l'Isis", l'analisi di Paolo Mastrolilli; con il titolo "Sostegno destinato a sparire", l'intervista di Paolo Mastrolilli a Daniel Pipes; dalla REPUBBLICA, a pag. 18-19, con il titolo "Via all'offensiva contro l'Is ma il Califfo schiera missili, Mig e carri armati: ecco l'arsenale segreto", l'analisi di Giampaolo Cadalanu.

Ecco gli articoli:

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Lo Stato Islamico verso Baghdad

LA STAMPA - Paolo Mastrolilli: "Sondaggio choc su Al Jazeera: l'80 per cento degli arabi è per l'Isis"

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Paolo Mastrolilli

E dopo le decapitazioni, i roghi umani, gli stupri e la distruzione di preziose opere d’arte sopravvissute millenni, l’81% degli arabi sostiene le conquiste dell’Isis. Generalizzare in realtà è scorretto, perché ci riferiamo ad un sondaggio digitale condotto dalla televisione «al Jazeera» fra il suo pubblico, che ha un valore scientifico molto relativo. Però un’indicazione, una misura della popolarità del Califfato la offre.

«Al Jazeera» ha fatto in arabo sul suo sito questa domanda: «Sostieni le vittorie dello Stato islamico in Iraq e Siria?». Oltre 38.000 utenti hanno deciso di rispondere, e l’81% ha votato «sì». Naturalmente non è un vero sondaggio, e sappiamo che «al Jazeera» è basata nel Qatar, da dove sono partiti molti finanziamenti per l’Isis. Inoltre il suo pubblico è composto soprattutto da sunniti, e un rilevamento analogo condotto l’11 settembre del 2006 aveva riportato che il 50% dell’audience appoggiava Osama bin Laden. Di recente, l’intelligence americana ha classificato il capo della sede della televisione in Pakistan come un membro di al Qaeda e della Fratellanza Musulmana.

Leader religiosi «timidi»
Il sondaggio di «Al Jazeera» in sostanza, non può essere preso come un’espressione equilibrata e scientifica dei sentimenti del mondo musulmano, e forse neanche dell’intera componente sunnita, ma pone un problema che esiste. Nella società islamica il Califfato gode di una certa popolarità. Gli stessi leader religiosi sono stati abbastanza timidi nella loro condanna, e fino a quando la società islamica non rifiuterà l’Isis, sarà difficile sconfiggerlo.

Secondo diversi analisti, il motivo principale sta nella storica disputa fra sunniti e sciiti, esplosa ora in tutta la regione. Ieri ad esempio le forze irachene hanno annunciato l’avvio della controffensiva per riprendere Ramadi, ma le truppe mobilitate sarebbero soprattutto milizie sciite legate all’Iran. Se fossero loro a riconquistare le città sunnite prese dall’Isis, fra ovvie distruzioni e violenze, la popolarità del Califfato aumenterebbe ancora di più tra gli abitanti della provincia di al Anbar.

Il fascino della crudeltà
Le atrocità dell’Isis hanno un doppio effetto: da una parte favoriscono il reclutamento, soprattutto fra i giovani e i militanti stranieri, e dall’altra inorridiscono i moderati. Finora, però, il primo effetto è stato chiaramente più forte del secondo, anche perché molti sunniti considerano l’Isis come il male minore, rispetto ad una dominazione sciita teleguidata dall’Iran. Paesi in teoria storicamente alleati degli Stati Uniti, come appunto il Qatar, ma anche la Turchia e la stessa Arabia, sono stati ambigui o favorevoli al Califfato, perché serviva a contrastare Assad ed Hezbollah in Siria, e l’influenza iraniana in Iraq. Altri alleati, come l’Egitto, hanno preso posizioni diverse, determinate soprattutto dalla lotta alla Fratellanza Musulmana. Così però il consenso nella società e nei governi, aperto o velato, resta il principale pilastro dell’Isis.

LA STAMPA - Paolo Mastrolilli: "Sostegno destinato a sparire"

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Daniel Pipes

«L’Isis è il gruppo terroristico islamico che è riuscito ad ottenere più sostegno nella società musulmana - dice Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum - grazie al suo estremismo. Ma è un sostegno fragile: quando la gente lo conosce meglio lo abbandona, come in Giordania dopo il rogo del pilota».

Cosa dobbiamo fare per contrastare la popolarità dell’Isis?
«Raccontare meglio le condizioni di vita in luoghi come Mosul e Raqqa. Le violenze aiutano il reclutamento, ma quando la gente vede la società che vuole costruire il Califfato, si allontana».

Non c’è anche un problema legato alla mancata condanna dell’Isis da parte dei leader religiosi musulmani?
«In realtà fra i leader religiosi c’è un consenso abbastanza compatto contro Daesh, ma poi sono ipocriti o timidi nella condanna: dicono che non è un vero movimento islamico e quindi non li riguarda. In realtà l’Isis è molto islamico: i leader religiosi musulmani devono riconoscerlo, e dire con chiarezza che le sue azioni sono sbagliate e vanno contrastate».

La stessa ipocrisia non c’è anche fra i governi?
«Qatar, Turchia e Arabia appoggiano l’Isis in funzione anti iraniana. Finché non cambieranno idea, sarà impossibile sconfiggere il Califfato».

LA REPUBBLICA - Giampaolo Cadalanu: "Via all'offensiva contro l'Is ma il Califfo schiera missili, Mig e carri armati: ecco l'arsenale segreto"


Giampaolo Cadalanu

Riconquistare Ramadi: la parola d’ordine dell’operazione lanciata ieri mattina dalle forze irachene è riprendere il capoluogo di Al Anbar, e allo stesso tempo assicurarsi il controllo dell’intera provincia, caduta fin troppo rapidamente nelle mani dei jihadisti del sedicente Stato Islamico. Le truppe di Bagdad non devono affrontare solo il fuoco dei fondamentalisti, ma anche l’esame dell’alleato americano, che nei giorni scorsi non ha risparmiato critiche agli iracheni. Ieri era il nome dell’operazione a suscitare l’irritazione di Washington: le milizie l’hanno battezzata “Labaik Ya Hussein”, cioè “Eccomi, Hussein”, con riferimento al nipote del Profeta, figura fondamentale per il credo sciita.

Ma prima ancora era stato il segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, a sottolineare che Ramadi è caduta «troppo in fretta» perché «le forze irachene non hanno mostrato alcuna volontà di combattere ». La durezza dei commenti statunitensi serve due scopi. Il primo è stuzzicare l’orgoglio dei combattenti iracheni, il secondo sottolineare ancora che la guerra contro lo Stato Islamico non vedrà truppe di terra americane, i governativi devono far da soli. Ma il richiamo del Pentagono non è adeguato alla realtà del campo di battaglia, perché una serie di elementi ridimensionano la presunta “remissività” rimproverata ai soldati del nuovo Iraq.

Prima osservazione: le truppe dell’Is non sono rivoluzionari in ciabatte. Hanno arsenali di prima grandezza e disponibilità di armamenti non convenzionali, oltre ai capitali per rifornirsi sul mercato clandestino. Le armi sono frutto di conquiste e razzie, ma anche di traffici e passaggi di mano più o meno opachi, magari spedite al Fronte Al Nusra da Arabia Saudita o Qatar, quando il nemico più pericoloso sembrava Bashar Assad. In mano all’Is ci sono persino elicotteri Black Hawk e caccia sovietici MiG-21 e MiG-23 strappati rispettivamente alle guarnigioni di Mosul e all’aviazione siriana. Non è ben chiaro se gli uomini di Al Baghdadi siano in grado di pilotarli, ma forse sì, visto che Damasco vanta l’abbattimento di due MiG sul cielo di Raqqa. L’Is ha poi diverse decine di carri armati sovietici, compresi i moderni T-72.

Voci non confermate parlano di uno o due potentissimi carri americani Abrahams, catturati anch’essi a Mosul. Batterie di artiglieria pesante, missili antiaerei brandeggiabili (cioè portati da un uomo e lanciati dalla spalla), lanciagranate e missili leggeri filoguidati completano lo scenario. Fonti non verificabili parlano della disponibilità di armi chimiche, compreso un deposito di iprite, il “gas mostarda” che sarebbe già stato usato contro i peshmerga curdi. Gli ordigni proverrebbero da un vecchio deposito di Saddam Hussein, ma non è chiaro come queste armi siano sfuggite ai capillari controlli internazionali avviati in Iraq dopo l’invasione americana.

Quanto alle armi non convenzionali: l’abilità a costruire mine artigianali IED ha un utilizzo modesto per quello che si chiama “Stato” Islamico, visto che basa il suo potere appunto sul controllo del territorio. Resta la disponibilità di aspiranti martiri, kamikaze a piedi o autobomba che siano, una carta importante già giocata in abbondanza a Falluja e a Ramadi: in contesti di equilibrio la motivazione fanatica può persino fare la differenza.

C’è poi un elemento che i vertici Usa cercano di dimenticare: sono proprio gli ex ufficiali iracheni un tempo fedeli a Saddam Hussein, sunniti, abili e spesso istruiti nelle scuole occidentali, che comandano le truppe di Al Baghdadi. Se per loro la motivazione ideale e religiosa può essere trascurabile, certo non lo è l’onta di essere stati licenziati con un tratto di penna nella campagna di de-Baathificazione, l’azzeramento del partito di Saddam, voluta dal- l’allora proconsole americano a Bagdad, Paul Bremer, in quello che la Storia ricorda come l’errore più grave dell’intera operazione Iraqi Freedom.

Non va sopravvalutato, ma neanche dimenticato, infine, l’elemento etnico-religioso: Ramadi è il cuore della zona che un tempo si chiamava “triangolo sunnita”. È quasi inutile aggiungere che qui gli integralisti godono di simpatie e sostegno, mentre dei soldati governativi (in gran prevalenza sciiti) si ricordano più facilmente gli eccessi e le rese dei conti. La riconquista della città è comunque alla portata, ma il prezzo di sangue sarà molto alto.

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