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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
27.03.2015 Medio Oriente in fiamme: la fallimentare linea politica di Obama
Analisi di Daniele Raineri, editoriale del Foglio, commento di Massimo Gaggi

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Daniele Raineri - Massimo Gaggi
Titolo: «Obama sta con l'Iran. E contro l'Iran - Le incoerenze del presidente Obama - Ma adesso Obama dovrà ripensare l'asse con Teheran»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/03/2015, a pag. 1, con il titolo "Obama sta con l'Iran. E contro l'Iran", l'analisi di Daniele Raineri; a pag. 3, l'editoriale "Le incoerenze del presidente Obama"; dal CORRIERE della SERA, a pag. 10, con il titolo "Ma adesso Obama dovrà ripensare l'asse con Teheran", il commento di Massimo Gaggi.

Ecco gli articoli:


Obama lucida il suo premio Nobel per la pace mentre il Medio Oriente è in fiamme

IL FOGLIO - Daniele Raineri: "Obama sta con l'Iran. E contro l'Iran"


Daniele Raineri

Roma. Da poco dopo la mezzanotte di giovedì l’America è in guerra contro l’Iran e – allo stesso tempo – in guerra a fianco dell’Iran. In Yemen l’Amministrazione sostiene l’Arabia Saudita – che ha scatenato una coalizione araba contro la minoranza Houthi; è un intervento che può essere letto come un atto di guerra contro una milizia che è appoggiata e diretta da Teheran. In Iraq l’Amministrazione ha sciolto le riserve delle ultime quattro settimane e sta bombardando Tikrit, la città nell’Iraq centrale controllata dallo Stato islamico: quindi sta direttamente appoggiando un’operazione militare in cui l’Iran è un alleato importantissimo con le sue milizie sciite locali.

Il presidente Obama aveva scelto in medio oriente una linea ponderata e cauta: ora quella realpolitik cede il passo alle acrobazie. In entrambi i paesi, Yemen e Iraq, l’intervento americano è dichiarato: nel primo caso Washington fornisce aiuto logistico, intelligence e anche “targeting assistance”, vale a dire che individua i bersagli degli Houthi da colpire e distruggere – che è uno dei ruoli più importanti, gli aerei di dieci diversi paesi arabi poi si occupano del resto. A Tikrit gli aerei americani (e anche quelli francesi) colpiscono invece senza intermediari, su richiesta del governo iracheno. E’ vero che per conservare una facciata di legittimità a tutta la campagna di Tikrit da ieri le milizie sciite – le stesse che minacciano una pulizia settaria contro i sunniti del posto e hanno già bruciato un po’ di case come punizione – hanno lasciato la prima linea e si sono attestate poco lontano. Ma si tratta pur sempre di una manovra militare diretta da un generale iraniano, Qassem Suleimani, che si fa fotografare assieme ai capi dell’esercito iracheno e le cui apparizioni sempre più frequenti e sempre meno formali creano ovazioni tra i fan sui social media (pensare che un tempo lui è stato un discretissimo pianificatore di interferenze iraniane nei paesi dell’area, una creatura dell’ombra, tanto che era chiamato “lo spettro”).

Lo stesso Suleimani è dietro al progetto recente di espansione dell’egemonia iraniana in Yemen, che in pochi mesi ha trasformato una ribellione locale nel nord in un movimento che ha preso quasi tutto il paese, ha costretto alla fuga il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi (riparato a Riad) e ha scatenato la reazione dei paesi arabi. Questa guerra di Aden è un capitolo anticipato di uno scontro latente e più ampio tra il blocco di potere sunnita e il revival sciita (titolo di un saggio essenziale di Vali Nasr sul ritorno al potere degli sciiti), che da anni grava sul medio oriente e a tratti si manifesta con violenza estrema, dal Libano alla Siria all’Iraq al Bahrein. Ieri fioccavano le dichiarazioni di alleanza e lealtà all’uno e all’altro fronte, a disegnare con più chiarezza la mappa del confronto: l’Egitto e il Pakistan (potenza nucleare) promettono aiuto militare a Riad in caso di necessità, il Sudan ha dimostrato la sua fedeltà con tre raid aerei quasi simbolici (tre su oltre centocinquanta), la Turchia di Recep Tayyip Erdogan pure appoggia i sauditi. Persino alcuni gruppi di ribelli siriani hanno fatto arrivare la loro solidarietà.

Dall’altra parte l’Iraq guidato dagli sciiti filoiraniani si schiera contro l’interferenza (mentre americani, francesi e iraniani si stanno occupando dello Stato islamico sul suo territorio nazionale), Hezbollah minaccia, l’Iran critica l’intervento in Yemen “che può destabilizzare la regione” e dice che “quest’operazione deve fermarsi”, senza specificare per ora cosa accadrà in caso contrario. Tutto questo succede mentre a Losanna, in Svizzera, sono in corso i negoziati sul programma nucleare dell’Iran: il segretario di stato americano, John Kerry, dice con aplomb quasi surreale che l’argomento Yemen è stato a malapena sfiorato durante le dodici ore di colloquio di ieri con il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif.

Associated Press scrive che gli americani hanno concesso agli iraniani che le centrifughe che produrranno il (poco) combustibile nucleare per l’energia civile possano lavorare all’interno di bunker sotterranei fortificati (come d’uopo in ogni programma civile al di sopra di ogni sospetto). Il raggiungimento del patto sull’atomica tra Iran e occidente sta per avvicinarsi alla scadenza – doveva essere a fine marzo, verosimilmente slitterà di qualche mese – ed è il grande traguardo che l’America ha inteso raggiungere da quattro anni a discapito del resto. L’accordo rischia però di arrivare in un medio oriente ormai sconvolto da guerre e bombardamenti che vannoda Kobane, sul confine tra Siria e Turchia, ad Aden, sullo stretto di mare di Bab el Mandab. La violenza sta avendo effetto pure sul prezzo del greggio, che da luglio 2014 aveva imboccato una tendenza al ribasso costante e invece ieri è aumentato di quattro punti percentuali. La guerra dei dieci alleati arabi in Yemen – operazione “Tempesta decisiva” – è la terza volta in meno di un anno in cui paesi arabi che siedono su scorte immense di armamenti costosi scelgono di intervenire, invece che fremere di sdegno diplomatico o delegare l’azione ad altri (gli americani). Quest’estate ci sono stati gli strike aerei degli Emirati arabi uniti e dell’Egitto in Libia contro gli islamisti di Tripoli – mai confermati ufficialmente.

Poi c’è stata la campagna aerea contro lo Stato islamico, cominciata come gesto poco più che simbolico per non far sembrare gli strike aerei un’iniziativa occidentale e – dopo il video dell’uccisione del pilota giordano catturato a Raqqa – diventata una campagna durissima con la Giordania in prima linea. Nella storia recente però non s’era ancora formata una coalizione araba così larga e forte (forte sulla carta, per ora). E’ chiaro che il messaggio che si vuole lanciare non riguarda soltanto gli Houthi, ma i loro sponsor iraniani: avete di fronte una lega di nazioni. E già si parla di intervento di terra, nei prossimi giorni. “Tempesta decisiva” per adesso è ancora sospesa a mezz’aria tra questo senso dell’obbligatorietà dell’azione militare – “non potevamo lasciare che i filoiraniani si mangiassero via lo Yemen”, è il ragionamento più diffuso – e il rischio di una escalation incontrollata che può portare la guerra fuori dallo Yemen. Grande è la confusione sotto il cielo arabo, la situazione è dunque ottima per lo Stato islamico e al Qaida. La guerra a Tikrit rende attuali le profezie sgangherate di al Qaida in Iraq, che dieci anni fa parlava di un’alleanza tra Iran e Stati Uniti (oggi quasi vera, alla luce del sole), e la guerra in Yemen apre possibilità insperate per i due gruppi, che si ergono a protettori dei sunniti e quindi hanno soltanto da guadagnare in una guerra settaria.

IL FOGLIO: "Le incoerenze del presidente Obama"

 
Barack Obama

Seguendo l’adagio di Longanesi, Barack Obama non si è mai appoggiato troppo sui princìpi, per timore che potessero piegarsi. La sua politica estera, si sa, è un’incoerente giustapposizione di scelte indipendenti che di tanto in tanto il presidente ha l’ardire di chiamare strategia (salvo poi freudianamente incappare in qualche involontaria verità, genere “we don’t have a strategy yet”) ma sulla difesa della propria immagine politica, quella su cui si costruisce la legacy, ha fatto sempre tutto ciò che era in suo potere fare. E parte fondamentale dell’immagine che Obama coltiva con cura è quella del presidente che si chiude alle spalle le guerre, quello che accompagna l’America ideologicamente affaticata e afflitta da disturbi da stress post traumatico all’uscita di sicurezza dalle guerra, giuste o sbagliate che fossero in origine.

Ci sono altri punti dell’agenda obamiana investiti di una certa carica simbolica, ma nessuna riforma sanitaria ha la capacità di penetrazione dei ragazzi che rientrano dal fronte per non ritornarvi mai più. Negli ultimi due giorni anche questa illusione obamiana si è schiantata contro il muro della realtà. Prima la Casa Bianca ha dovuto spiegare che il ritiro dei soldati dall’Afghanistan ha subìto un altro rallentamento, occorrono più forze per garantire quel minimo di sicurezza e addestramento delle forze locali che serve a non far sembrare l’operazione un disastro istantaneo. Questo per quanto riguarda la guerra che anche Obama considerava giusta.

Dalla guerra dell’Iraq, incarnazione di tutti i mali del passato, Obama si è già affrancato, salvo poi trovarsi costretto a bombardare Tikrit a fianco delle milizie sciite telecomandate dall’Iran, approfondendo una volta di più il coinvolgimento americano nel teatro di guerra che aveva promesso di chiudere per sempre. Obama, va notato, non si sta discostando dalla sua linea ideale per un improvviso e incontrollabile stravolgimento degli equilibri geopolitici dell’area, eventi esterni e indipendenti dall’America ai quali il presidente reagisce aggiustando le vele, come dice un’antica massima cara ai realisti.

Le ragioni per cui Obama contraddice le sue promesse vanno cercate nella cucina politica di Obama, un luogo caotico dove non si trovano mai tutti gli ingredienti che servono. La conduzione degli affari in Siria, in Libia, in Iraq, in Afghanistan, in Iran e altrove era idealmente finalizzata alla pace, ma praticamente ha generato altra guerra. Perché non basta gridare “andiamocene!” per uscire da una guerra. La chiamano exit strategy proprio perché la fase delicatissima dell’uscita richiede una strategia, non basta spegnere la musica e smettere di ballare.

E’ per una lunga serie di mancanze strategiche che l’America di Obama si trova a bombardare lo Stato islamico in Iraq a fianco dell’Iran – al quale sarà permesso di tenere centrifughe nucleari a scopo civile, come no, nel contesto dei negoziati – e in Yemen aiuta i sauditi ad abbattere i ribelli sciiti Houthi sponsorizzati da Teheran che hanno preso il controllo dello stato. A forza di ritirare truppe e disimpegnarsi, Obama si trova sempre più impegnato a fare patti con qualunque diavolo gli prometta un po’ d’immortalità.

CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi: "Ma adesso Obama dovrà ripensare l'asse con Teheran"

 
Massimo Gaggi

Non si tratta solo dell’imbarazzante condizione di Washington che a Tikrit, in Iraq, combatte a fianco di una coalizione dominata dalle forze iraniane mentre in Yemen appoggia la coalizione sunnita che attacca i ribelli filo iraniani e sfida Teheran. Con gli ayatollah che ora avvertono che si rischia una conflitto generale nel Golfo. Non è la prima volta che, in un mondo così frammentato, una grande potenza si ritrova alleata di un altro Paese su un fronte, in conflitto su un altro. Ma se il disegno di Barack Obama era quello di siglare un accordo con Teheran sul nucleare per poi spingere l’Iran a giocare un ruolo di stabilizzazione in Medio Oriente a fronte delle profonde fratture emerse nel mondo sunnita, quello che sta accadendo in Yemen e anche a Tikrit probabilmente costringerà la Casa Bianca a rivedere qualcosa.

Proprio nelle ore in cui a Losanna, in Svizzera, il segretario di Stato Usa John Kerry e il suo collega iraniano, Zarif, mettevano a punto il sospirato accordo sul nucleare che dovrebbe vedere la luce nei prossimi giorni, l’«escalation» in Yemen ha cambiato radicalmente lo scenario. La conquista del potere da parte dei ribelli Houthi, appoggiati dall’Iran, ha provocato una reazione durissima e massiccia dell’Arabia Saudita, dietro la quale sembra essersi ricompattato l’intero mondo sunnita. Questo ha consentito al nuovo sovrano wahabita di Riad non solo di lanciare un’offensiva aerea massiccia sul Paese vicino e di prepararne una da terra e dal mare, ma anche di mettere insieme a tempo di record una coalizione assai estesa di Paesi. A bombardare ci sono anche Kuwait, Qatar, Bahrein, Emirati Arabi e Giordania mentre diverse altre nazioni, dal Marocco al Pakistan al Sudan sono pronte a intervenire e l’Egitto di Al Sisi ha annunciato un’offensiva via mare con sbarco ad Aden.

Gli Stati Uniti hanno dichiarato il loro appoggio all’offensiva della coalizione: non partecipano alle missioni militari, ma assicurano supporto logistico e un sostegno di intelligence. Ritrovatasi improvvisamente sotto scacco, Teheran ora minaccia un conflitto generale. Minacce sulla carta, certo, ma sopravvivrà il fragilissimo negoziato nucleare a questi sviluppi drammatici? Usa e Iran cooperano ancora a Tikrit, è vero, ma nemmeno qui le cose vanno come previsto: per ottenere l’intervento dei bombardieri americani, il premier iracheno Abadi, che è sciita ma guida un governo di coalizione, ha chiesto alle milizie di Teheran di fare un passo indietro. Pare che, furenti per l’intervento Usa, tre dei quattro gruppi di combattenti iraniani che avevano messo sotto assedio la città di Saddam Hussein abbiano abbandonato il campo. Anche qui si aprono scenari inediti e imprevedibili.

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