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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio - Libero Rassegna Stampa
19.03.2015 Israele/Elezioni: Vince il Bibi-sitter: è Netanyahu l'alternativa all'appeasement di Obama
Analisi di Giuliano Ferrara, Rolla Scolari, Carlo Panella; Andrea's Version di Andrea Marcenaro

Testata:Il Foglio - Libero
Autore: Giuliano Ferrara - Rolla Scolari - Andrea Marcenaro - Carlo Panella
Titolo: «La vittoria del Bibi-sitter - Così Herzog è rimasto intrappolato nella sua bolla radical chic - Andrea's Version - Netanyahu vince perché spara. E Obama ora trema»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 19/03/2015, a pag. 1, con il titolo "La vittoria del Bibi-sitter", l'editoriale di Giuliano Ferrara; a pag. 3, con il titolo "Così Herzog è rimasto intrappolato nella sua bolla radical chic", l'analisi di Rolla Scolari; a pag. 1, "Andrea's Version" di Andrea Marcenaro; da LIBERO, a pag. 7, con il titolo "Netanyahu vince perché spara. E Obama ora trema", il commento di Carlo Panella.

Ecco gli articoli:


La Knesset, il parlamento di Israele

IL FOGLIO - Giuliano Ferrara: "La vittoria del Bibi-sitter"


Giuliano Ferrara

La vittoria molto netta del Bibi-sitter o Mr Security di Israele, cioè di Benjamin Netanyahu, si definisce con le parole minimaliste ma chiare del giornalone liberal e obamiano che è stato il suo peggior avversario, il New York Times: “In base ai risultati, Netanyahu può formare una stringata coalizione di nazionalisti e partiti religiosi libera dalle divisioni ideologiche che hanno ostacolato il corso del suo ultimo governo. E’ quello che voleva quando ha dissolto la Knesset in dicembre” (Jodi Rudoren). No pareggio, no Herzog, no Tzipi.

Il presidente Reuven Rivlin auspica l’unità nazionale, che presenta anche i suoi vantaggi, ma è Bibi che decide. Con l’aiuto di una legge elettorale proporzionale fortemente rappresentativa, secondo la regola della maggioranza e secondo il gioco politico di una forte leadership istituzionalmente legittimata alla gestione di ampi poteri e forti conflitti. Il commento è praticamente finito, con un “in bocca al lupo” per lo squalo di Gerusalemme, statista pragmatico che sa mordere quando deve, e il suo magnifico paese. A domani. Invece si possono dire alcune altre cose. Sempre il New York Times indulge nei peggiori vizi dei liberal, di cui noi abbiamo in casa le caricature progressiste. “It turns ugly”: se vince il tuo avversario la vittoria è brutta, ugly, il domani non conta, hanno vinto la guerra, il razzismo, le divisioni, l’arroganza, la menzogna, hanno perso i più fragili, i beati costruttori di pace, i lungimiranti, gli unitari. Ragionano così anche i conservatori più stupidi, a parti rovesciate, ma nel sistema dell’informazione mondiale sono una sparuta minoranza (insomma, se lo possono permettere).

Ma perché ugly? Ha insultato gli arabi. Non è vero, ha fatto appello ai suoi dicendogli che con la forte partecipazione al voto dell’unico popolo arabo libero, quello di Israele ora ben rappresentato nella Knesset, il governo della destra e suo personale era in pericolo. Embè? Oppure. Ha promesso che non avallerà la soluzione dei due stati. Ugly? Ma questa è una politica, reversibile a tempo come ogni politica. Lo scrittore grandissimo Amos Oz non è d’accordo e vota Herzog o Bogie, una faccina onesta ma fin troppo presentabile per uno stato guarnigione che vive in mezzo alle peggiori canaglie del mondo, e anche questa è una linea, non si dica di no. Ma è quella sconfitta. In favore, per adesso, di una seria, responsabile, accorta “gestione del conflitto”. Ci sono momenti nella storia in cui è risibile dire: ci siamo, ed è preferibile auspicare: speriamo di arrivarci prima o poi, dipende, per ora è da escludere. Scrivono anche che ha isolato il paese da Obama, dai suoi soldi, dalla sua calda amicizia.

L’elezione di Bibi è in effetti uno degli ultimi capolavori di un presidente carismatico e competente in ogni suo speech, campione planetario di retorica, ma inadatto a padroneggiare i fatti, che sarebbe il compito primo di una buona politica. Barack Hussein Obama sta per firmare un accordo prenucleare con l’Iran molto controverso anche in casa sua, se ce la farà, ma fra un anno e mezzo se ne va. Netanyahu avrà un po’ di tempo per discutere con il successore, e chissà che non sia tra quelli che lo hanno festosamente accolto a Washington (Grand Old Party e democratici non conformisti) quando ha tenuto un discorso che oggi il New York Times, buon fiancheggiatore della presidenza oltraggiata, definisce in un editoriale “sovversivo”.

E’ poi vero che le elezioni hanno mostrato anche una notevole insofferenza verso Netanyahu e i suoi “games”, come scrive Roger Cohen (sempre sul New York Times). Non è un piacione. Non è indulgente. Non fa finta di niente. E’ un tipo occhio per occhio, trabocchetto per trabocchetto, a corsaro corsaro e mezzo, e alla fine potrebbe anche lui mordere la polvere o finire all’Inferno (sono personalmente certo che la sua destinazione è il Purgatorio, perché i cattivi della politica sono i buoni della vita, e viceversa). Dopodiché, Moshe Kahlon il capo di Kulanu è stato suo ministro e come suo ministro ha guadagnato popolarità liberalizzando i telefonini e con varie altre misure grate. Bibi gli ha già offerto il dicastero delle Finanze.

Vedremo: come il suo candidato Michael Oren, storico, già ambasciatore di Bibi a Washington, Kahlon è un uomo di centrodestra. Difficile che con questi risultati vada con Herzog. Puede ser, ma è molto difficile. Accusano Netanyahu di aver denunciato in modo inurbano una vasta cospirazione internazionale per buttarlo giù, cose che non si fanno, mezzucci demagogici. Invece sono invenzioni il boicottaggio europeo, università e imprese, fino alla pretesa che il capo di Israele rinunciasse ai funerali dei giornalisti di Charlie Hebdo e degli ebrei trucidati a Parigi, la diffidenza ostile del Dipartimento di stato e della Casa Bianca, oggi in combutta militar- diplomatica con gli ayatollah, la campagna di stampa micidiale alla quale Sheldon Adelson, il ricco ebreo americano che tifa per il Likud, ha dovuto opporre un giornale free press, gratis, da lui finanziato per sostenere il primo ministro contro l’establishment popolare di Yedioth Ahronoth, il giornale più diffuso, e la Repubblica di Tel Aviv, Haaretz.

Della congiura facevano parte, senza fare i conti con l’oste cioè il popolo elettore, anche molti ricchi e ricchissimi di Israele, il più ricco tra loro, e quasi tutti gli ex dei servizi segreti e molti ex dell’esercito, tutta gente che ama essere amata sopra tutto dagli americani, ovvio, e meno decisivi ma non inoffensivi gli istituti di sondaggio, molti corpi intermedi, per dir così, che hanno fatto di tutto allo scopo di incentivare un’immagine vincente di Campo Sionista, l’alleanza di sinistra e pro obamiana che alla fine ha avuto un suo “che” ma le ha prese di brutto dall’Orco con il sontuoso riporto e il sorriso dentato. Onore a David Grossman, che ha confidato a Repubblica: Bibi non lo voto ma sulla bomba iraniana aveva ragioni da vendere al Congresso, e Obama deve rispondergli, altro che fare spallucce, sennò la sua ingenuità diventa delittuosa. “Delittuosa”, letterale. Nell’immagine degli occidentali perbenisti Israele ha perso il suo cachet multitutto, il suo esotismo allegro, il suo profumo di tolleranza senza confini: notizia, non lo ha mai avuto. (“Ho una notizia per gli esteti: la vecchia Vienna una volta era nuova”, lo scrisse Karl Kraus). Israele è sempre stato un paese fantastico di diversità, nato sulle diversità, litigioso all’estremo, frammentato, pluri-identitario, plurietnico, pluriculturale, altro che maggioritario, ma non multitutto, non multiculti.

La base è la storia, la religione come metastoria, il racconto biblico, il nazionalismo socialista dell’Ottocento, il nazionalismo sionista di ogni variante da Ahad Haam a Jabotinsky, tutte correnti importanti di spiritualità, politica e civiltà. La sua base è anche lo sterminio degli ebrei d’Europa e il gigantesco senso di colpa che ha prodotto in tutta l’umanità o quasi, ebrei compresi. Non sarebbe male staccare Israele come per incanto dai suoi racconti fondativi e dai suoi fantasmi, dalla sua missione impossibile, dalla sua lotta per la sopravvivenza, e farne un seminario per la gioventù educata e perbene che ora lo boicotta. Ma non si può. Bibi troverà si spera il modo di sanare qualche ferita sanguinante, per il resto è importante che corrisponda alle attese del suo popolo interno ed esterno, tutto, anche quello di sinistra e ultralaico, e noi compresi: difendere la patria ebraica costi quel che costi. E’ una città sulla collina, spande luce come le democrazie costituzionali e le grandi nazioni di civiltà e cultura cosmopolita, deve essere protetta, deve poter rovesciare l’assedio, e non a chiacchiere.

IL FOGLIO - Rolla Scolari: "Così Herzog è rimasto intrappolato nella sua bolla radical chic"


Rolla Scolari

Tel Aviv. Ci ha creduto veramente la sinistra israeliana. Guidata da un rampollo della più blasonata “aristocrazia” laburista, sperava di tornare a governare dopo quindici anni. Isaac “Buji” Herzog, il figlio del presidente Chaim, il nipote di un rabbino capo e di un iconico ministro degli Esteri, con l’atteggiamento fresco del ragazzo nato e cresciuto tra i viali alberati e la spiaggia di Tel Aviv rompe con la figura sottotono degli ultimi leader del partito, e si oppone alle maniere brusche del suo rivale Benjamin Netanyahu.

I comizi e le tribune di questa passata campagna elettorale assomigliavano un po’ a lui, all’idea di sinistra che rappresenta: i palloncini colorati – bianco e blu di Israele ma anche il rosso del partito – le birre artigianali ai gazebo, le spille in stile corsa presidenziale americana, i giovani israeliani squattrinati e frustrati dal costo della vita, figli dei professionisti soddisfatti delle città, gli incontri dell’ultima ora di campagna organizzati in un bar del centro di Tel Aviv, tra i festoni dorati, i cocktail, gli slogan: “Cambiamento”, “Bibi torna casa”. E quella maglietta, dove l’immagine stilizzata di Buji su sfondo blu ricorda il design della campagna di Barack Obama 2008 ma ha anche qualcosa di vagamente JFK, con quello sguardo che punta lontano. Con il consolidarsi dei numeri e della sconfitta, Herzog ha chiamato ieri mattina il suo rivale per congratularsi. Nella notte elettorale, gli exit poll avevano fatto sperare gli attivisti non soltanto in un pareggio ma in un ottimo risultato: 27 seggi per un partito che fatica a imporsi a livello nazionale dopo il trauma dell’assassinio di Yitzhak Rabin. Ne ha ottenuti invece 24, soddisfacendo comunque le aspettative dei sondaggi e degli attivisti. Perché, numeri alla mano, quello di martedì per la sinistra israeliana è un buon risultato. Azzerato, livellato, spianato da un esplosivo, sorprendente successo di re Bibi. “E’ esattamente quello che ci aspettavamo di ottenere”, dice al Foglio Eitan Schwarz, uno dei candidati della lista dell’Unione sionista, nella squadra del sindaco di Tel Aviv.

Nel 2013, quando a guidare il partito c’era la corrucciata giornalista Shelly Yachimovich e i laburisti correvano da soli, senza alleati come l’ex ministra della Giustizia Tzipi Livni, avevano ottenuto 15 seggi. “Non siamo noi che abbiamo perso – continua Eitan – E’ Netanyahu a essere riuscito in maniera fenomenale a raccogliere il voto degli elettori di altri piccoli partiti della destra”. Non è “mobilitazione”, sostiene, ma “cannibalismo politico”. E per vincere, Herzog “baby face”, faccia d’angelo, il rilassato ragazzo di Tel Aviv, avrebbe dovuto essere un po’ come Bibi, avrebbe dovuto essere anche lui un po’ cannibale. “Non ha capito che per essere più grande del Likud avrebbe dovuto strappare i voti ai piccoli partiti attorno”, ha spiegato al Foglio Anshel Pfeffer, giornalista di Haaretz. Avrebbe dovuto fare meno sorrisi e puntare a quegli undici seggi di Yesh Atid (C’è Futuro) del ministro Yair Lapid. Avrebbe dovuto fare quello che ha fatto aggressivamente negli ultimi minuti della campagna elettorale il più navigato stratega della sopravvivenza politica in Israele, che ha rosicchiato voti a partiti come quello nazionalista duro del suo stesso alleato Naftali Bennett, più a destra: “Se resto premier non ci sarà uno stato palestinese”, aveva detto Netanyahu lunedì, rivolgendosi proprio a quegli elettori che votano Bennett perché contrario a una soluzione a due stati del conflitto.

“C’è un rischio reale che la sinistra arrivi al potere”, ha gridato il premier protetto da un vetro antiproiettile due giorni prima del voto a migliaia di sostenitori dalla piazza simbolo della sinistra. Avrebbe dovuto fare lo stesso anche Herzog, gridare più forte contro Bibi e puntare di più al voto dei piccoli partiti. Il paragone con il candidato Kerry In Israele era idea condivisa che il malcontento sociale, il prezzo stratosferico di case e affitti, del budino e dei formaggini avrebbero almeno in parte mosso l’elettorato. Quello che forse ci si era scordati è che, a dispetto dei sondaggi che indicavano un apprezzamento per l’Unione sionista tra gli strati più poveri della popolazione, la sinistra israeliana resta il partito della classe media. E che gli strati più poveri della popolazione sono da tempo la base della destra del Likud: “Tendono però a essere più religiosi, nazionalisti, di destra – spiega il giornalista Pfeffer – Non votano per chi ha una migliore politica sociale ed economica”, ma per chi ha un più robusto discorso nazionalista e promette di garantire la sicurezza, l’identità nazionale.

Quando John Kerry sfidò George W. Bush nella corsa alla Casa Bianca del 2004, il Financial Times si chiese quale era il tipo umano che gli americani avrebbero preferito avere come presidente: il raffinato “aristocratico” della sinistra radical chic che nella sua East Coast sorseggia un whiskey su un divano Chesterfield, o il texano in stivali che beve una birra al bancone del bar e gioca a freccette. Di “radical” e di “chic”, scherza Pfeffer, la sinistra israeliana non ha molto, ma il paragone con Kerry è calzante: “Ci sono una classe media, un’intellighenzia che è andata all’università e pensa di capire tutto, ma in realtà vive in una bolla staccata dalle classi più popolari”.

Queste due realtà, la bolla radical chic della classe media e lo zoccolo duro del nazionalismo, potrebbero nominalmente riconciliarsi nelle prossime settimane se, come qualcuno in Israele sui giornali e nelle tribune politiche ha già ipotizzato – e come spera per primo il presidente Reuven Rivlin – il premier sopravvissuto decidesse di smussare gli spigoli di una coalizione che sarà costruita attraverso alleanze con partiti ultra religiosi e nazionalisti. E chissà se, per evitare un principio di isolamento internazionale, per mettere una faccia moderata al suo futuro governo e al suo futuro politico re Bibi non decida di tentare un’alleanza con quella sinistra un po’ radical chic così lontana dai suoi modi, dalla sua base, ma che con 24 seggi alla Knesset rappresenta oggi più di prima una parte di Israele stufa dei suoi modi e del suo lungo regno.

IL FOGLIO - Andrea Marcenaro: "Andrea's Version"


Andrea Marcenaro

E va bene, sarà vero. Avrà pure sbagliato nella veste di osservatore politico, il nostro Gad. Si sarà fatto prendere la mano, scrivendo che “una sola certezza c’è in Israele, alla vigilia del voto: di Netanyahu ne ha abbastanza anche l’elettorato di destra”. Avrà confuso quello morto con quello vivo. Ammettiamolo pure. E vieppiù elaborato il concetto, allorché ha garantito: “Mentre Netanyahu, in calo di consensi, si arrocca a destra, il centrosinistra vede la concreta possibilità di un ricambio e tesse la sua politica delle alleanze”. Con quell’aggiunta puntuta: “Ma Bibi non è per nulla in grado di sovvertire la volontà di una maggioranza di israeliani che di un simile premier non ne può più”. E radicati un po’ di più sul territorio, figliolo mio, gli avrebbe detto un Cuperlo. E sarà giusto. Ma non significa nulla. Perché, vogliamo esagerare? Esageriamo. E concediamo pure che nemmeno dopo il voto, Gad ci abbia capito un cazzo: “Netanyahu resta leader d’Israele, forse punterà alla grande coalizione”. Sorbole!, direbbe uno. E lo si può capire. Ma sempre di errori veniali, si tratta. Decisiva, su Netanyahu, sarà solo l’analisi di domani. E il nostro Gad l’ha già in tasca. E sarà colta e tagliente, e scientifica e geniale. Farà sapere: “Mi si dice che sia un puttaniere”.

LIBERO - Carlo Panella: "Netanyahu vince perché spara. E Obama ora trema"


Carlo Panella

Vittoria netta di Bibi Netanyahu e dèbacle totale dei sondaggi: questo in estrema sintesi il responso delle urne israeliane dopo il conteggio dei voti che hanno ridicolizzato non solo le previsioni della vigilia, ma anche gli exit polls. Con trenta seggi conquistati, il  Likud migliora il suo risultato del 2013 e per di più può sicuramente contare sui 10 seggi conquistati dal suo ex ministro delle telecomunicazioni Moshe Khalon (popolarissimo per aver imposto l'abbattimento delle tariffe telefoniche) col suo nuovo partito Kulanu.

Nessuna difficoltà quindi per raggiungere e anzi superare largamente la soglia di maggioranza alla Knesseth di 61 seggi, cumulando ai propri 30, gli 8 seggi conquistati dal “partito dei coloni”, il Focolare Ebraico di Naftali Bennet, i sei seggi di Yisrael Beitenu del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman a cui si sommano i 14 seggi dei partiti religiosi Shas e Torah Unita nel Giudaismo. Nel complesso Netanyahu potrà contare su una maggioranza di 68 seggi.

Tralasciando la riflessione sul flop dei sondaggi (ennesimo, a riprova che lo strumento è in crisi), l'elemento di maggiore interesse di queste elezioni è da ricercare nelle ragioni della sostanziale sconfitta della sinistra israeliana di Isaac Herzog e Tizpi Livni che hanno conquistato solo 24 seggi, a cui si somma il ridimensionamento del Meretz, lo storico partito dell'estrema sinistra israeliana che ha perso un seggio e si attesta a soli 4 seggi (due in meno rispetto al 2013).

L'analisi deve iniziare da un dato di fatto: la prima motivazione del voto degli israeliani (con l'economia) è la sicurezza. Non la trattativa con i palestinesi (questa è preoccupazione solo dell'Occidente), ma la capacità di un governo di garantire ai cittadini di non essere vittime di stragi e di attacchi con i missili da Gaza. Evidentemente, anche su questo terreno, il governo uscente è stato capace di rassicurare gli elettori, usando con straordinario successo il “Dome”, lo scudo contro i missili piovuti da Gaza, alleandosi con l'Egitto di al Sisi per combattere e isolare la Gaza di Hamas e governando con efficienza la sicurezza interna.

Di fatto, oggi Israele è l'unico Paese del Mediterraneo che dimostra di avere un sistema capillare di controllo del territorio che funziona perfettamente, nonostante la presenza di un milione di arabi e le centinaia di migliaia di palestinesi che passano ogni giorno nei due sensi i confini con i Territori occupati. Sistema di sicurezza che ovviamente impone misure restrittive, controlli continui, perquisizioni, dispiegamento di militari e forze di polizia ovunque. Esattamente quello che i paesi arabi - la Tunisia insegna - non riescono a mettere in pratica all'interno dei loro confini. Ma i sondaggi hanno sbagliato anche nel prevedere l'influenza negativa del dato economico sul voto. Le tensioni sociali prodotte dalla mancata ridistribuzione del reddito a favore delle classi medio-basse erano infatti palpabili (soprattutto sul tema della scarsità di abitazioni) e venivano indicate dai tutti i sondaggisti come causa certa del previsto scrollo di Netanyahu e della vittoria di Herzog.

Previsione sbagliatissima, che porta al cuore del problema: in Israele, come in Europa, la sinistra socialdemocratica non sa più elaborare una proposta politica affascinante neanche sui temi economici. È appesantita da vecchi schemi sindacalesi che l'elettorato non segue. A questo, si somma una carenza di leadership che si incarna nella figura evidentemente giudicata scialba dagli elettori del suo candidato premier Herzog. Infine, ma non per ultimo, in queste elezioni c'è un altro perdente: Barack Obama. D'ora in poi Netanyahu sarà l'affilato punto di riferimento della comunità ebraica americana contro la sua politica di appeasement con l'Iran. Una spada, non una spina, nel fianco per tutti i Democratici Usa. Anche per Hillary Clinton, che dovrà comunque recuperare quel rapporto con Netanyahu che Obama ha perso, tanto che non si è congratulato con lui per la vittoria.

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