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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica - Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.03.2015 Netanyahu negli Usa: oggi il discorso di fronte al Congresso sul pericolo Iran
Cronaca di Alberto Flores d'Arcais, editoriale di Massimo Gaggi, analisi di Davide Frattini

Testata:La Repubblica - Corriere della Sera
Autore: Alberto Flores d'Arcais - Massimo Gaggi - Davide Frattini
Titolo: «'Israele si difenderà': Netanyahu al Congresso e l'America si spacca - Iran, il nucleare a altri sospetti - Bronci, silenzi e ammaccature di una relazione tutta speciale»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 03/03/2015, a pag. 19, con il titolo " 'Israele si difenderà': Netanyahu al Congresso e l'America si spacca", la cronaca di Alberto Flores d'Arcais; dal CORRIERE della SERA, a pag. 1, con il titolo "Iran, il nucleare a altri sospetti", l'editoriale di Massimo Gaggi; a pag. 14, con il titolo "Bronci, silenzi e ammaccature di una relazione tutta speciale", l'analisi di Davide Frattini.

Ecco gli articoli:


Barack Obama: a lezione di politica estera

LA REPUBBLICA - Alberto Flores d'Arcais: " 'Israele si difenderà': Netanyahu al Congresso e l'America si spacca"


Alberto Flores d'Arcais  Benjamin Netanyahu

Gli Stati Uniti e Israele «sono più che amici, sono una famiglia». Benjamin Netanyahu, arrivato in America tra polemiche, dichiarazioni stizzite e qualche sgarbo diplomatico (invitato dal Congresso a maggioranza repubblicana non sarà ricevuto alla Casa Bianca), sceglie una platea amica nel tentativo di dimostrare ai critici (qui e nel suo Paese) che il suo viaggio negli Usa non è una visita-provocazione. All’American Israel Public Affairs Committee, primo intervento pubblico (al Congresso parlerà questa mattina) della sua agenda americana, il premier israeliano non nasconde i «disaccordi attuali» con la Casa Bianca («sono sempre spiacevoli ma dobbiamo ricordare che siamo una famiglia»), evita attacchi diretti ad Obama («non ho mai voluto mancargli di rispetto, apprezzo molto quello che ha fatto per Israele»), ma conferma in toto una linea — quella sull’Iran e su come fermare il nucleare degli ayatollah — che è drasticamente differente da quella Usa. Lo fa ricordando la «barbarie medievale» in atto in Medio Oriente e i «valori» diversi che incarna Israele, porta come esempi contrapposti il dittatore siriano Assad (che «lancia bombe sui propri cittadini») e i medici israeliani (che i siriani feriti li «operano e curano») e incassa gli applausi dei 16mila presenti alla conferenza annuale dell’Aipac (la più potente delle lobby pro-Israele che ci sia a Washington) scandendo le parole: «Di fronte all’Iran che minaccia la sicurezza di Israele ho l’obbligo morale di alzare la voce. Per duemila anni gli ebrei sono stati senza potere, non succederà mai più. Oggi non stiamo più in silenzio, oggi abbiamo una voce. Io sono qui per mettere in guardia dalle minacce di chi vuole annichilirci mentre ancora c’è tempo per evitarle. Non resteremo passivi».

Per rendere meglio l’idea il premier israeliano dispiega una mappa che mostra i legami di Teheran con il terrorismo in diverse aree del mondo, «questo è quello che fanno senza armi nucleari, provate ad immaginare cosa potrebbero fare con la bomba atomica». Fa anche una simpatica battuta Netanyahu, quando ricorda che mai si è parlato così tanto di un discorso che ancora «non è stato pronunciato» (quello che farà stamattina davanti al Congresso). E a chi lo accusa di tempismo quanto meno sospetto (arriva negli Stati Uniti a due settimane dalle elezioni politiche in Israele) risponde che non c’era scelta, considerando che i colloqui tra Usa e Iran — il Segretario di Stato John Kerry è a Ginevra per questo — hanno come scadenza la fine di marzo. Vuole anche evitare che il suo viaggio sia considerato di parte («mi dispiace che qualcuno lo abbia pensato, Israele dovrà restare sempre una questione bipartisan»), impresa non facile considerato che l’irritazione della Casa Bianca è nata proprio dall’invito fatto dal leader repubblicano Boehner senza avvisare l’amministrazione.

Se la battuta iniziale serviva a sdrammatizzare l’atmosfera (cosa andrà a dire al Congresso lo sanno già tutti, sono in sostanza le stesse cose che ha anticipato ieri davanti ai delegati Aipac) non sembra aver sortito alcun effetto reale. Obama, la diplomazia Usa e molti democratici continuano a ritenere il viaggio di Netanyahu uno sgarbo senza precedenti. Sono almeno una ventina i membri (quasi tutti democratici) del Congresso che questa mattina boicotteranno l’intervento, per protestare contro Boehner prima ancora che contro il premier israeliano. E Dianne Feinstein, la popolare senatrice democratica (ed ebrea) della California ha lanciato l’ennesimo slogan “non in mio nome” contro il premier israeliano: «Penso che la comunità ebraica sia come tutte le altre, al suo interno ci sono diversi punti di vista. Credo che questa arroganza non faccia bene ad Israele». Non è servito a smorzare le polemiche neanche il fatto che — poco prima di Netanyahu — alla tribuna dell’Aipac fosse intervenuta Samantha Powers, l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite che insieme a Susan Rice (la potente ‘consigliera’ per la Sicurezza Nazionale di Obama, presente anche lei alla conferenza) forma il tandem (tutto al femminile) che più influenza la politica estera Usa: «Non ci sarà il tramonto dell’impegno americano per la sicurezza di Israele, non ci sarà mai». Anche se poi non si è risparmiata uno stoccata velenosa quando ha detto che «la partnership tra i due Paesi non dovrebbe mai essere politicizzata».

Un clima di tensione confermato da una nota della Casa Bianca: «Obama ha delineato una strategia per evitare che l'Iran si doti di armi nucleari, Netanyahu no». Non resta che attendere il discorso di stamattina. Quando Netanyahu riceverà in dono da Boehner un busto di Winston Churchill. Perché il premier israeliano è il primo dopo il grande statista britannico ad aver parlato per ben tre volte davanti al Congresso in riunione plenaria.

CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi: "Iran, il nucleare e altri sospetti"


Massimo Gaggi

Giugno 1981. Reagan è furibondo con Israele per il bombardamento del reattore nucleare iracheno di Osirak, vicino a Bagdad. Gli Usa condannano l’azione e non difendono Gerusalemme davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu. La reazione del premier israeliano Begin è durissima. Convoca l’ambasciatore americano e lo ammonisce: «Non permettetevi di interferire nella nostra autonomia trattandoci come vassalli, non siamo una repubblica delle banane». Chi oggi pensa che le relazioni tra i due Paesi non verranno scosse più di tanto dallo «sgarbo diplomatico» di Netanyahu, arrivato a Washington senza accordi preventivi con la Casa Bianca per esprimere (ieri all’Aipac, il gruppo di pressione pro Israele in America, oggi al Congresso) la sua ferma opposizione all’accordo sul nucleare che si sta delineando con l’Iran, ripensa a questo e altri precedenti di tensione. Dalla crisi di Suez del 1956 alla guerra del Kippur, molte sono state le scintille tra i due alleati. Ma alla fine gli interessi comuni hanno sempre prevalso sui dissensi.

Accadrà anche stavolta? È possibile, ma questa è una crisi diversa dalle altre. Non solo perché ai contrasti di politica estera si aggiungono la profonda disistima reciproca tra Obama e Netanyahu e il sospetto della Casa Bianca che, spaccando il Congresso per vincere le elezioni in Israele, stavolta sia il leader ebraico a cercare di trattare l’America come una banana republic . Tutto molto grave, certo, ma anche 35 anni fa Begin bombardò l’Iraq alla vigilia delle elezioni. Reagan aveva con lui un pessimo rapporto e reagì con mosse (come il taglio delle forniture militari) che oggi sarebbero considerate inaudite. Obama ha denunciato, sì, il viaggio di Netanyahu come dannoso, ma si è limitato a fargli il vuoto attorno: il premier non vedrà il presidente, né il suo vice Biden, né il segretario di Stato Kerry. Ma le voci di riduzioni degli aiuti militari a Gerusalemme sono state smentite.

La vera gravità di questo conflitto non sta nella pesantezza dello sgarbo di Netanyahu, nei pessimi rapporti tra i leader e nemmeno nell’approccio più muscolare di Israele. La giustificazione data ieri dal premier per il suo intervento «a gamba tesa» è la stessa di Begin: «Voi combattete per la vostra sicurezza, Israele per la sua sopravvivenza». Stavolta c’è di più: visione strategiche profondamente diverse. Obama crede che l’Iran possa diventare un fattore di (relativa) stabilità in un Medio Oriente sconvolto dalla frantumazione del mondo arabo sunnita. Netanyahu considera una visione simile un pericolo mortale. Se arrivasse l’accordo con Teheran, e Israele non cambiasse rotta, il conflitto potrebbe diventare insanabile.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini: "Bronci, silenzi e ammaccature di una relazione tutta speciale"


Davide Frattini

Dieci settimane al freddo di Washington e al gelo di Franklin Delano Roosevelt. Nel dicembre del 1941 David Ben-Gurion affitta una suite di due stanze all’hotel Ambassador dove aspetta una telefonata: ha chiesto al presidente americano un appuntamento (gli basta un quarto d’ora, assicura) per promuovere la causa dello Stato ebraico. Quella convocazione non arriva mai, eppure quando il 14 maggio del 1948 Ben-Gurion dichiara la nascita di Israele, gli Stati Uniti sono la prima nazione a riconoscerlo. Undici minuti dopo. Da allora la relazione speciale non si è mai interrotta. Ha sopportato qualche ammaccatura diplomatica, ha vissuto i momenti di silenzio e gli incontri imbronciati, ha superato queste crisi e — prevedono gli analisti — supererà anche quella tra Benjamin Netanyahu e Barack Obama.

Perché l’attuale leader americano — fa notare Chemi Shalev sul quotidiano Haaretz — non è tra i più maldisposti come vorrebbero presentarlo gli assistenti del primo ministro. George Bush padre ha torchiato i governi israeliani con più aggressività — e ritorsioni ben più concrete — di Susan Rice, la consigliera per la Sicurezza nazionale di Obama, che ha definito «distruttiva per i nostri legami» la visita di Netanyahu. Nel 1991 pretende che Yitzhak Shamir fermi le costruzioni nelle colonie e minaccia di bloccare i 10 miliardi di dollari in aiuti. Durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, si lamenta di quanto sia influente la lobby ebraica e poco dopo calcola che gli Stati Uniti donano a Israele «l’equivalente di 1.000 dollari per ogni cittadino».

Una scarsa empatia verso l’alleato mediorientale, riassunta da James Baker, il suo segretario di Stato: «Quando gli israeliani saranno pronti a parlare seriamente di pace, possono telefonare alla Casa Bianca. Il numero è 001-202-456-1414». Un’avversione ancor più sintetizzata da Baker in una conversazione privata: «Vaff... gli ebrei, tanto non votano per noi». Ed è una profezia che si autoavvera: alle elezioni del 1992 Bill Clinton conquista il 78 per cento tra gli ebrei americani, Bush solo il 15 per cento, il risultato peggiore per un repubblicano negli ultimi ventotto anni. Gli stalli diplomatici non nascono solo da posizioni strategiche differenti. Clinton non è riuscito a ricreare con Netanyahu la sintonia che aveva con Yitzhak Rabin e che facilitò gli accordi di Oslo nel 1994. Considerava il primo ministro israeliano — allora al suo primo mandato — arrogante e se poteva evitava di incontrarlo. Quando Netanyahu viene ricevuto per la prima volta alla Casa Bianca nel 1996, Clinton lascia la stanza ed esclama agli assistenti: «Chi si crede di essere, chi c... è la superpotenza qui?». E’ la lezione che Ronald Reagan decide di impartire a Menachem Begin.

Nel 1981 lo punisce per aver bombardato — senza avvertire gli americani — il reattore nucleare di Osirak in Iraq: ordina di fermare la consegna di nuovi jet all’aviazione israeliana e gli Stati Uniti condannano alle Nazioni Unite il raid contro Saddam Hussein. «La decisione di umiliare pubblicamente un nostro tradizionale alleato — commenta allora il conservatore William Safire sul New York Times — non ci ha dato un nuovo amico tra gli arabi e ha distrutto quella fiducia necessaria per spingere Israele a prendere rischi per arrivare alla pace». Le parole scelte da Begin sono ben più dure di quelle scritte da Safire, quando per rappresaglia convoca l’ambasciatore americano Samuel Lewis: «Che espressione sarebbe: punire Israele? Siamo un vostro vassallo? Siamo una repubblica delle banane? Siamo degli adolescenti che se non si comportano bene vengono schiaffeggiati? Mi lasci dire da chi è composto il mio governo: è gente che è cresciuta nella resistenza, gente che ha combattuto e sofferto. Non ci spaventerete con le vostre minacce».

I tredici giorni di negoziati nel settembre del 1978 a Camp David cominciano con una preghiera comune voluta da Rosalynn, la moglie del presidente Jimmy Carter, e finiscono con l’accordo di pace tra Israele e l’Egitto. In mezzo urla, valigie fatte e disfatte, un torneo di scacchi tra Begin e Zbigniew Brzezinski, consigliere di Carter. Il premier israeliano vince 3 partite su 5, non gli basta per sciogliere la diffidenza: arriva a definire Camp David «un campo di concentramento de luxe». Sa però che Israele ha bisogno degli Stati Uniti, stringerà la mano ad Anwar Sadat.

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