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Riprendiamo dalla STAMPA dioggi, 10/10/2014, a pag. 12, con il titolo "Tasse, pene e sussidi. Così Al Baghdadi governa il Califfato", l'analisi di Maurizio Molinari; da REPUBBLICA, a pag. 19, con il titolo "Tra i profughi curdi scappati da Kobane: 'Qui non siamo ricchi e nessuno ci aiuta' ", la cronaca di Alberto Stabile.
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Tasse, pene e sussidi. Così Al Baghdadi governa il Califfato"
Feroce pulizia etnica e servizi sociali per i musulmani distinguono lo Stato Islamico (Isis) gestito da istituzioni create dal Califfo Abu Bakr al Baghdadi, autorità assoluta. A differenza di altri gruppi jihadisti, Isis si considera uno Stato e dunque non si nasconde bensì, attraverso gli editti dell'Emiro dei credenti, rende pubblico il proprio funzionamento. Assetto territoriale II Califfato su Siria e Iraq ha una spina dorsale, il Wilayat al-Furat, Provincia dell'Eufrate, da Al-Qaim nell'Anbar ad Albukamal nel Deir az-Zor. «Wilayat» sono pure le maggiori aree urbane - la capitale Raqqa, Mosul e la provincia di Aleppo - e tale status è assegnato a Damasco, sebbene Isis vi sia poco presente. Ogni «Wilayat» è suddiviso in «Qataa», settori, con responsabili dei due rami del governo locale: amministrazione e «servizi per i musulmani». Le corti islamiche L'«amministrazione» è il complesso di istituzioni e norme che hanno come obiettivo liberare i territori da tutti coloro che non sono sunniti ovvero sciiti, cristiani, curdi, yazidi e altre minoranze. II «Dawa» fa rispettare la legge islamica, diffonde il Corano e converte gli infedeli. «Al-Hisba» è la polizia religiosa col quartier generale in una chiesa dissacrata di Raqqa che deve «promuovere virtù e perseguire vizi» ovvero identificare chi offende il Corano e punirlo. Sono di «Al-Hisba» le pattuglie che terrorizzano i civili, eseguono decapitazioni e crocefissioni, vanno a cerca di infedeli e bloccano gli automobilisti per verificare se sanno pregare. Al loro fianco c'è la polizia locale che a Raqqa veglia sullo status di «dhimmi» della minoranza cristiana, a cui è consentito restare ma è obbligata a pagare una tassa speciale e a non esternare la fede. «Al-Talim» è responsabile dell'insegnamento del Corano nelle scuole e ai bambini degli infedeli catturati. Alle spalle di tali organismi c'è un sistema di corti islamiche che distribuiscono pene feroci ai «nemici» ma perseguono anche reati comuni come i furti. Reclute e tribù Il motto del Califfato è «Baqiyya wa Tatamaddad» (restare ed espandersi) e per riuscirci tre sono le istituzioni cruciali: gli «uffici di reclutamento» per i volontari stranieri e locali; i campeggi «pulcini di Zarqawi» (dal nome del fondatore di Al Qaeda in Iraq) per gli adolescenti; l'«Ufficio per gli affari tribali», creato ad Aleppo, destinato a rappresentare le istanze delle tribù arabe presso il Califfo. Servizi sociali «La buona amministrazione è una priorità per il Califfo perché consolida il consenso» spiega Aymenn Jawad Al Tamimi, il ricercatore della Oxford University, affermatosi come uno dei maggiori conoscitori di Isis. A gestire i rapporti con la popolazione è «L'amministrazione servizi pubblici» che si occupa di distribuire pane, acqua, elettricità, aiuti e assume anche gli ingegneri per dighe e pozzi di greggio. Circa 50 tecnici petroliferi sono stati inviati dalle milizie libiche. L'attenzione per i «servizi per musulmani» spiega l'esistenza di un tribunale «per le proteste dei cittadini» come anche la rabbia del Califfo per la fuga da Anbar di dottori e insegnanti, rifugiatisi a Baghdad. La contromossa è stata un editto che li minaccia di «espropriazioni e trattamento da infedeli» se non torneranno. I dazi sui commerci A sostenere le finanze dello Stato Islamico non sono solo greggio, sequestri e donazioni private dal Golfo ma anche l'imposizione di dazi sui camion di merci in transito. Obiettivi militari L'inno «Alba della Mia Umma» (la comunità dei musulmani) racchiude il progetto di dominio sull'Islam ma nel breve termine nel mirino ci sono Libano e Giordania mentre in Siria l'eventuale caduta di Kobani porterà a concentrarsi su Aleppo. Più complesso l'Iraq, dove «Isis deve vedersela con le molte sigle dell'insurrezione sunnita - dice Al-Tamimi - e senza prevalere non può attaccare Baghdad». Fermo restando che il nemico giurato è il «potere safavida», ovvero l'Iran sciita.
Arrampicati sul tetto di una moschea, in bilico sui muri a secco, o accovacciati su una pietra all'ombra di un ulivo in quel modo tutto loro di riposare, i curdi fuggiti da Kobane prestano l'orecchio agli schianti che risuonano nell'aria e aspettano che le colonne di fumo si alzino dal caseggiato, non più lontano di un chilometro o due, per decifrare l'andamento della battaglia. Dopo una giornata in cui sembrava che i bombardamenti della coalizione avessero danneggiato i jihadisti, l'armata del califfato è stata capace di contrattaccare e di prendere il controllo di un terzo della città. Notizie pessime, che però non piegano l'ardore di Ibrahim, il traduttore curdo che mi accompagna in questo viaggio: «Kobane — dice sicuro — sarà la nostra Stalingrado». Ma non tutti la pensano cosi. Anzi, a dire il vero, un certo scoramento serpeggia fra gli spettatori di questa battaglia in diretta. Un sorta di fatalismo misto alla sfiducia nei confronti della comunità internazionale e ad un'aperta acrimonia verso la Turchia. Il finto protettore accusato di doppiezza, che osserva il dramma di Kobane dipanarsi senza muovere un dito. Al punto, persino, da smarcarsi dagli Stati Uniti e dalla coalizione, dichiarando apertamente, come ha fatto ieri il ministro egli Esteri Mevlut Cavusoglu, che «non è realistico aspettarsi che la Turchia conduca un'operazione di terra da sola. Il che agli occhi dei curdi è la riprova, come abbiamo sentito ripetere mille volte in questa giornata, che «la Turchia aiuta quelli dell'Is». Per inviare la propria opinione alla Stampa e a Repubblica, telefonare: lettere@lastampa.it rubrica.lettere@repubblica.it |
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