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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
10.10.2014 L'abbandono dei curdi: quando l'Occidente volta la testa
Analisi di Maurizio Molinari - Commento di Alberto Stabile

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Alberto Stabile
Titolo: «Tasse, pene e sussidi. Così Al Baghdadi governa il Califfato - Tra i profughi curdi scappati da Kobane: 'Qui non siamo ricchi e nessuno ci aiuta'»

Riprendiamo dalla STAMPA dioggi, 10/10/2014, a pag. 12, con il titolo "Tasse, pene e sussidi. Così Al Baghdadi governa il Califfato", l'analisi di Maurizio Molinari; da REPUBBLICA, a pag. 19, con il titolo "Tra i profughi curdi scappati da Kobane: 'Qui non siamo ricchi e nessuno ci aiuta' ", la cronaca di Alberto Stabile.


Donne peshmerga combattono contro l'Isis

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Tasse, pene e sussidi. Così Al Baghdadi governa il Califfato"


Maurizio Molinari

Feroce pulizia etnica e servizi sociali per i musulmani distinguono lo Stato Islamico (Isis) gestito da istituzioni create dal Califfo Abu Bakr al Baghdadi, autorità assoluta. A differenza di altri gruppi jihadisti, Isis si considera uno Stato e dunque non si nasconde bensì, attraverso gli editti dell'Emiro dei credenti, rende pubblico il proprio funzionamento.

Assetto territoriale II Califfato su Siria e Iraq ha una spina dorsale, il Wilayat al-Furat, Provincia dell'Eufrate, da Al-Qaim nell'Anbar ad Albukamal nel Deir az-Zor. «Wilayat» sono pure le maggiori aree urbane - la capitale Raqqa, Mosul e la provincia di Aleppo - e tale status è assegnato a Damasco, sebbene Isis vi sia poco presente. Ogni «Wilayat» è suddiviso in «Qataa», settori, con responsabili dei due rami del governo locale: amministrazione e «servizi per i musulmani».

 Le corti islamiche L'«amministrazione» è il complesso di istituzioni e norme che hanno come obiettivo liberare i territori da tutti coloro che non sono sunniti ovvero sciiti, cristiani, curdi, yazidi e altre minoranze. II «Dawa» fa rispettare la legge islamica, diffonde il Corano e converte gli infedeli. «Al-Hisba» è la polizia religiosa col quartier generale in una chiesa dissacrata di Raqqa che deve «promuovere virtù e perseguire vizi» ovvero identificare chi offende il Corano e punirlo. Sono di «Al-Hisba» le pattuglie che terrorizzano i civili, eseguono decapitazioni e crocefissioni, vanno a cerca di infedeli e bloccano gli automobilisti per verificare se sanno pregare. Al loro fianco c'è la polizia locale che a Raqqa veglia sullo status di «dhimmi» della minoranza cristiana, a cui è consentito restare ma è obbligata a pagare una tassa speciale e a non esternare la fede. «Al-Talim» è responsabile dell'insegnamento del Corano nelle scuole e ai bambini degli infedeli catturati. Alle spalle di tali organismi c'è un sistema di corti islamiche che distribuiscono pene feroci ai «nemici» ma perseguono anche reati comuni come i furti.

Reclute e tribù Il motto del Califfato è «Baqiyya wa Tatamaddad» (restare ed espandersi) e per riuscirci tre sono le istituzioni cruciali: gli «uffici di reclutamento» per i volontari stranieri e locali; i campeggi «pulcini di Zarqawi» (dal nome del fondatore di Al Qaeda in Iraq) per gli adolescenti; l'«Ufficio per gli affari tribali», creato ad Aleppo, destinato a rappresentare le istanze delle tribù arabe presso il Califfo.

Servizi sociali «La buona amministrazione è una priorità per il Califfo perché consolida il consenso» spiega Aymenn Jawad Al Tamimi, il ricercatore della Oxford University, affermatosi come uno dei maggiori conoscitori di Isis. A gestire i rapporti con la popolazione è «L'amministrazione servizi pubblici» che si occupa di distribuire pane, acqua, elettricità, aiuti e assume anche gli ingegneri per dighe e pozzi di greggio. Circa 50 tecnici petroliferi sono stati inviati dalle milizie libiche. L'attenzione per i «servizi per musulmani» spiega l'esistenza di un tribunale «per le proteste dei cittadini» come anche la rabbia del Califfo per la fuga da Anbar di dottori e insegnanti, rifugiatisi a Baghdad. La contromossa è stata un editto che li minaccia di «espropriazioni e trattamento da infedeli» se non torneranno.

I dazi sui commerci A sostenere le finanze dello Stato Islamico non sono solo greggio, sequestri e donazioni private dal Golfo ma anche l'imposizione di dazi sui camion di merci in transito.

Obiettivi militari L'inno «Alba della Mia Umma» (la comunità dei musulmani) racchiude il progetto di dominio sull'Islam ma nel breve termine nel mirino ci sono Libano e Giordania mentre in Siria l'eventuale caduta di Kobani porterà a concentrarsi su Aleppo. Più complesso l'Iraq, dove «Isis deve vedersela con le molte sigle dell'insurrezione sunnita - dice Al-Tamimi - e senza prevalere non può attaccare Baghdad». Fermo restando che il nemico giurato è il «potere safavida», ovvero l'Iran sciita.

 
LA REPUBBLICA - Alberto Stabile: "Tra i profughi curdi scappati da Kobane: 'Qui non siamo ricchi e nessuno ci aiuta' "


Alberto Stabile

Arrampicati sul tetto di una moschea, in bilico sui muri a secco, o accovacciati su una pietra all'ombra di un ulivo in quel modo tutto loro di riposare, i curdi fuggiti da Kobane prestano l'orecchio agli schianti che risuonano nell'aria e aspettano che le colonne di fumo si alzino dal caseggiato, non più lontano di un chilometro o due, per decifrare l'andamento della battaglia. Dopo una giornata in cui sembrava che i bombardamenti della coalizione avessero danneggiato i jihadisti, l'armata del califfato è stata capace di contrattaccare e di prendere il controllo di un terzo della città. Notizie pessime, che però non piegano l'ardore di Ibrahim, il traduttore curdo che mi accompagna in questo viaggio: «Kobane — dice sicuro — sarà la nostra Stalingrado». Ma non tutti la pensano cosi. Anzi, a dire il vero, un certo scoramento serpeggia fra gli spettatori di questa battaglia in diretta. Un sorta di fatalismo misto alla sfiducia nei confronti della comunità internazionale e ad un'aperta acrimonia verso la Turchia. Il finto protettore accusato di doppiezza, che osserva il dramma di Kobane dipanarsi senza muovere un dito. Al punto, persino, da smarcarsi dagli Stati Uniti e dalla coalizione, dichiarando apertamente, come ha fatto ieri il ministro egli Esteri Mevlut Cavusoglu, che «non è realistico aspettarsi che la Turchia conduca un'operazione di terra da sola. Il che agli occhi dei curdi è la riprova, come abbiamo sentito ripetere mille volte in questa giornata, che «la Turchia aiuta quelli dell'Is».
In segno di lutto, di protesta e di solidarietà con Kobane i negozi di Suruc sono quasi tutti chiusi. Posti di blocco dell'esercito di Ankara scandagliano passaporti e carte d'identità decidendo a insindacabile giudizio dei militari chi può raggiungere il confine e chi no. Siamo sul primo gradino che porta all'altopiano del Kurdistan turco, quella che per i governanti di Ankara è e deve restare l'Anatolia sud-orientale. Terra contesa, teatro di un lunga e sanguinosa guerriglia mossa dal Pkk (il partito dei lavoratori del Kurdiatan considerato da Ankara e da Washington un'organizzazione terroristica) guidato da Ocalan. E qui si capisce come la nascita di un'entità autonoma o semi-autonoma come quella di Kobane, agli inizi della guerra civile siriana, abbia fatto temere ai governanti turchi la possibilità di una saldatura tra le due comunità. Tuttavia, nonostante i controlli, la strada che porta verso il confine con la Siria è un continuo via vai di persone, poche in macchina, molte a piedi, di ogni genere e di tutte le età. Si direbbe che stessero andando a una qualche manifestazione contadina, se non fosse che nell'aria echeggiano i suoni della battaglia. Un pentagramma che i curdi hanno imparato a decrittare. Questo tonfo secco è un mortaio. Questo boato, invece, è una bomba degli alleati. I pennacchi di fumo piegati dal vento non sono tutti uguali: «Se il fumo è nero vuol dire che sono stati quelli dell'Is a provocarlo, incendiando taniche di nafta o copertoni, per nascondersi agli aerei della coalizione. Se è bianco, invece, significa che sono stati colpiti», dice Maja, ex studentessa di Architettura all'Università di Aleppo, da tre settimane rifugiata in Turchia. Un coro insistente, come di slogan gridati con rabbia, copre la colonna sonora della battaglia. In un fazzoletto di terra a ridosso di Ziarad, una borgata di Suruc, sono state scavate 22 fosse, ciascuna con il suo perimetro di pietre levigate. Sono le tombe che accoglieranno 22 combattenti curdi di Kobane morti nelle ultime 24 ore negli ospedali della zona. Ad accompagnarli è una folla in cui spiccano alcuni giovani con il volto coperto da sciarpe colorate e le bandiere dei vari partiti curdi. Fra i morti c'è anche una donna, la cui cassa di legno grezzo, viene portata a spalla da altre donne. Tutto avviene molto in fretta. Le bare ondeggiano sopra i cortei. Vengono poggiate a terra e scoperte. I corpi avvolti nei sudari sono adagiati nelle buche, in direzione della Mecca. Poi un gruppo di uomini fa mulinare le pale per smuovere quanta più terra possibile. Farman Sheikh aveva soltanto 25 anni. «L'ho portato ieri da Kobane», dice il padre, Ahmad Shiek, un uomo sui 50 armi, la faccia tesa e immobile come una maschera di legno, gli occhi gonfi e arrossati. «Farman era stato ferito alla testa durante gli scontri vicino alla stazione di polizia — continua, voltandosi verso le colonne di fumo che si levano all'orizzonte — Sono andato io a prenderlo per portarlo in ospedale. Ma al posto di frontiera di Mursit Pinar i soldati turchi ci hanno fatto aspettare quattro ore». Gli chiedo quanti figli abbia: «Dieci — risponde guardando Sauli, la moglie, impietrita — e tre sono a Kobane». Daushan, Misanter, Atmanak.
I villaggi che incoronano Kobane sono pieni di rifugiati in ansia per la sorte della città, in breve, per il loro destino. Da una fattoria di Atmanak si vede il sole brillare sui parabrezza delle macchine che la gente di Kobane ha dovuto abbandonare vicino al posto di frontiera per passare a piedi. Ora, non si possono più avvicinare. I blindati dell'esercito turco fanno barriera e, al tramonto, cominciano a tirare fuori i cannoni ad acqua e i lacrimogeni. Mahmud sfoga la sua frustrazione litigando con altri profughi: «Tutti quelli che sono fuggiti da Kobane sono dei traditori», grida senza considerare che lui non è diverso dagli altri. Sulla via del ritorno incontro Abdul Bahaman Muslim, uno dei maggiorenti della comunità, operatore umanitario e fratello di Salah Muslim, il presidente del Partito dell'Unione Democratica del Kurdistan (PYD) le cui unità di autodifesa (YPD) hanno finora impedito la caduta di Kobane. «Abbiamo bisogno del vostro aiuto—dice senza mezzi termini alludendo all'Europa, all'Occidente—Se avessimo due raffinerie tutto il mondo occidentale sarebbe qui ad aiutarci. Ma non le abbiamo e, sfortunatamente, il mondo occidentale che ha pianificato il nostro destino pensa soltanto al denaro».

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