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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
30.08.2014 In Siria i profughi sono milioni. Ma Obama confessa: non ho una strategia
Cronaca e analisi di Maurizio Molinari, Mattia Ferraresi

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Mattia Ferraresi
Titolo: «L'Onu: tre milioni di profughi siriani. E la macchina degli aiuti s'inceppa - Obama si lascia sfuggire la verità: 'Non abbiamo ancora una strategia'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/08/2014, a pag. 11, con il titolo "L'Onu: tre milioni di profughi siriani. E la macchina degli aiuti s'inceppa", l'articolo di Maurizio Molinari, e dal FOGLIO, con il titolo "Obama si lascia sfuggire la verità: 'Non abbiamo ancora una strategia' ", l'articolo di Mattia Ferraresi.

Di seguito gli articoli:


Profughi siriani

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "L'Onu: tre milioni di profughi siriani. E la macchina degli aiuti s'inceppa"


Maurizio Molinari

Tre milioni di profughi fuggiti all'estero, altri 6,5 milioni che vagano senza interruzione dentro i confini nazionali alle prese con peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie, rincari del cibo, ricatti delle fazioni armate e trappole dei trafficanti di uomini: è l'Apocalisse siriana descritta da un rapporto dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Onu (Unhcr), la cui conclusione è che si tratta della «più grave emergenza umanitaria della nostra era». Senza contare che non c'è luce in fondo al tunnel. Negli ultimi 12 mesi l'Unhcr ha registrato un milione di nuovi profughi fuggiti all'estero che, andandosi ad aggiungere ai precedenti 2 milioni, portano la cifra complessiva oltre il record di 3 milioni a cui bisogna sommare i 6,5 milioni che hanno abbandonato la propria casa ma continuano a muoversi dentro la Siria «in certi casi cambiando residenza per 20 volte di seguito» per sfuggire ad un conflitto che ha già causato almeno 191 mila vittime. A conti fatti il totale dei profughi sfiora i 10 milioni ovvero quasi la metà della popolazione siriana «e in circa la metà dei casi si tratta di minorenni» si legge nel rapporto dell'Unhcr, pubblicato dal quartier generale di Ginevra, secondo cui «un crescente numero di famiglie sta arrivando nei Paesi confinanti in stato di choc perché hanno alle spalle viaggi molto lunghi - anche un anno - durante i quali vengono bersagliati da malattie, ricatti di danaro, carenza di cibo e ogni sorta di violenze». Fra coloro che sono riusciti ad andare all'estero,1,14 milioni si trova in Libano - dove la popolazione locale è di 5 milioni - 608 mila in Giordania e 815 mila in Turchia. «Siamo impegnati nella più grande operazione realizzata dall'Unhcr in 64 anni di Storia - afferma Antonio Guterres, Alto Commissario Onu per i Profughi - perché di fronte abbiamo la maggiore crisi umanitaria della nostra era». Ad aggravarla è quanto sta avvenendo sul terreno perché «il fronte delle operazioni militari si sposta in continuazione» portando la guerra nelle aree più imprevedibili e spingendo all'esilio anche chi si trova ad abitare in città come Raqaa e Aleppo. Le esecuzioni di Isis e le violenze dei reparti governativi si sommano «all'impennata dei prezzi del cibo, della benzina e dell'acqua» con balzi in avanti «anche di 10 volte in 12 mesi» mentre la carenza di strutture mediche funzionanti rende impossibile sottoporsi a cure per chi è malato di diabete, cuore o tumore. Per non parlare della «catastrofe scolastica» dovuta all'impossibilità di andare a scuola per milioni di bambini. Circa 150 agenzie, organizzazioni ed Ong collaborano con l'Unhcr per gestire gli aiuti umanitari trovandosi però in crescente difficoltà «a causa della scarsa sicurezza lungo i confini con Turchia, Libano, Giordania e Iraq». A tale riguardo Davide Terzi, capo della missione in Giordania dell'Organizzazione internazionale per la migrazione (Oim) spiega che «l'ultima risoluzione delle Nazioni Unite ci permette l'invio di convogli umanitari dalla Giordania alle comunità più isolate in Siria» ma questi interventi oltre-confine, coordinati dall'Onu, devono vedersela con «nuovi rischi come quelli evidenziati dal sequestro di 43 osservatori Onu delle isole Fiji sulle Alture del Golan». La sovrapposizione fra «più rischi in Siria» e «maggiori controlli in Giordania» fa osservare a David Terzi che «in alcuni giorni sono appena 140 le anime che riescono a raggiungerci». Se il lavoro degli operatori umanitari diventa più rischioso, sul fronte della racconta fondi i problemi sono simili: dei 4 miliardi di dollari di donazioni finora raccolti per i «bisogni urgenti» resta assai poco e l'Unhcr afferma che «servono in fretta altri 2 miliardi».

 IL FOGLIO - Mattia Ferraresi: "Obama si lascia sfuggire la verità: 'Non abbiamo ancora una strategia' "

Mattia Ferraresi
Mattia Ferraresi

New York. Il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, è corso in televisione di prima mattina a cercare di correggere il messaggio uscito in modo maldestro dalla bocca del presidente il giorno prima. A quel punto però non c'era operazione di "damage control" che tenesse o rilievo semantico che potesse attutire gli effetti di una formula che è diventata il nuovo tormento del presidente: "We don't have a strategy yet", non abbiamo ancora una strategia. Earnest l'ha spiegata così: il presidente non ha "un piano in questo momento" per combattere lo Stato islamico in Siria, ma ha un "piano generale" contro lo Stato islamico in Iraq. Se è vero che la frase scivolata freudianamente via dalle labbra di Obama riguardava nello specifico le manovre contro il Califfato in Siria, altrettanto vero è che il "non abbiamo ancora una strategia" è risuonato alle orecchie del mondo - e in particolare a quelle dei leader dello Stato islamico - come un'affermazione di carattere generale, una sintesi dell'intera politica estera dell'Amministrazione, orfana di un'idea strategica. "Non mettiamo il carro davanti ai buoi", è la sintesi popolaresca di Obama. Dopo una settimana dedicata all'escalation retorica sullo Stato islamico come "cancro" da estirpare e "minaccia a tutti gli interessi degli Stati Uniti", Obama ha rallentato la corsa verso l'azione, spiegando che ha chiesto al segretario della Difesa, Chuck Hagel, di studiare diverse opzioni militari da porre alla sua attenzione, e al capo della diplomazia, John Kerry, di andare nelle capitali mediorientali a cucire una coalizione anti Stato islamico - non importa quanto rabberciata - per sollevare l'America dalla responsabilità di agire direttamente. Chi aveva visto nell'invio di aerei da ricognizione nei cieli della Siria il preludio di un intervento, deve adattarsi ai tempi morti del multilateralismo, tenue stella polare nella navigazione obamiana. "L'assunto della politica estera di Obama è: se noi facciamo un passo indietro, altri faranno un passo avanti. Ma sulla Siria e sull'Is, quando abbiamo arretrato, anche gli altri hanno fatto lo stesso", dice Shadi Hamid, della Brookings Institution. Le varie conferme militari circa la necessità, per sconfiggere lo Stato islamico, di attaccare le sue roccheforti in Siria sono state per il momento accantonate dal presidente. La recente conquista della base aerea di Tabqa, strappata al regime di Assad, dimostra che la campagna di bombardamenti contro il Califfato in Iraq ha prodotto effetti circoscritti, senza cambiare il "momentum" della guerra. "Lo Stato islamico si è mosso agilmente per guadagnare porzioni di territorio anche dopo l'inizio dei bombardamenti aerei", spiega uno studio dell'Institute for the Study of War, che smentisce frontalmente la tesi dell'Amministrazione, secondo cui gli attacchi hanno "invertito l'inerzia" del conflitto. "Stiamo soltanto spingendo il nemico altrove", ha detto un funzionario del Pentagono al Daily Beast, che ha subito raccolto gli anonimi malumori della fazione interventista malamente sconfitta nel dibattito interno all'Amministrazione. "Non abbiamo ancora una strategia" è frase foriera di ulteriore imbarazzo se letta alla luce di un report del centro antiterrorismo dell'Accademia di West Point: "Lo Stato islamico non è diventato improvvisamente efficace nel giugno del 2014. Si è progressivamente rafforzato e ha attivamente creato le basi del suo dominio nel corso di quattro anni". Detta altrimenti: loro una strategia ce l'hanno. Il presidente in conferenza stampa è sembrato "sinceramente confuso", ha detto David Ignatius, decano dei commentatori di politica estera, e la confusione è apparsa ancora più profonda quando ieri il primo ministro britannico, David Cameron, ha preso la parola per annunciare l'innalzamento del livello di sicurezza a "severe", il secondo gradino nella scala delle minacce. La decisione si accompagna a restrizioni sui passaporti e altre misure di sicurezza per fronteggiare "la più grande minaccia che abbiamo mai visto" e con la quale non c'è possibilità di appeasement: "La radice di questa minaccia è chiara. E' una velenosa versione di estremismo islamico che è stata condannata da tutte le fedi e da tutti i leader religiosi". All'assertività delle manovre inglesi, la Casa Bianca ha risposto che un cambio del livello di guardia negli Stati Uniti al momento è "improbabile". Per ora Obama manda emissari in medio oriente e accorcia il suo ponte del Labour day dedicato al fundraising democratico e allo svago per riunire di nuovo il team della Sicurezza nazionale. Magari a qualcuno è venuta in mente una strategia.

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