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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
17.08.2014 Conversione o morte: l'alternativa dello 'Stato islamico'. Armi ai curdi, anche dall'Italia, contro la barbarie jihadista
Cronache di Marco Nese, Guido Olimpio, Lorenzo Cremonesi, Domenico Quirico

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Marco Nese - Guido Olimpio - Lorenzo Cremonesi - Domenico Quirico
Titolo: «Mitragliatrici, niente blidati: cosa può inviare l'Italia - Sfida dei miliziani: conversione o morte. Così hanno fucilato 80 yazidi - Bibbia e kalashnikov così l'ultimo monaco aspetta gli jihadisti»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/08/2014, a pag. 8, l'articolo di Marco Nese e Guido Olimpio dal titolo "Mitragliatrici, niente blidati: cosa può inviare l'Italia " e da pag. 9 l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Sfida dei miliziani: conversione o morte. Così hanno fucilato 80 yazidi", dalla STAMPA, a pagg. 1-2-3, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo "Bibbia e kalashnikov così l'ultimo monaco aspetta gli jihadisti "

Di seguito, gli articoli:


Abu Bakr Al Baghdadi, capo dello "Stato islamico"

CORRIERE della SERA
- Marco Nese, Guido Olimpio:  " Mitragliatrici, niente blidati: cosa può inviare l'Italia"



Marco Nese


Guido Olimpio

L'11 agosto l'aviazione del generale libico Haftar ha colpito al largo della costa di Derna una nave con un carico di armi. Venivano dalla Siria ed erano destinate agli islamisti di Al Ansar. Rotta inversa a quella seguita fino a un paio d'anni fa, quando il materiale per gli insorti siriani arrivava proprio dagli arsenali saccheggiati di Gheddafi. Un episodio che spiega quanto possa essere articolato il traffico bellico. Un giro destinato ad aumentare con la necessità di aiutare i curdi dell'Iraq. Molti Paesi occidentali sono pronti a dotare i peshmerga di nuovi armamenti per contrastare i jihadisti dell'Isis. Il Kurdistan iracheno ha comprato da tempo equipaggiamento di origine mista. Ci sono gli anticarro Tow, i fuoristrada Humvee e autoblindo Mrpa di concezione statunitense accanto ai carri armati T-55 dell'era russa. I militari usano l'eterno kalashnikov ma anche l'M4 americano. Dunque la risposta deve essere per forza diversificata Per questo gli alleati contano su fonti di approvvigionamento complesse: i) il mercato «libero» che poggia essenzialmente sulle fabbriche dell'Est Europa. Molto citate Bulgaria, Croazia e Serbia. 2) Gli stock gestiti dall'intelligence. Famoso Camp Stanley, in Texas, a disposizione della Cia. 3) I depositi costituiti in vista di un aiuto agli insorti siriani e dai quali è possibile pescare. Sembra che la Giordania ne abbia aperto qualcuno. Una cornice larga, che lascia spazio ai mediatori indispensabili per accelerare i passaggi. Gli Stati Uniti dovrebbero fornire all'esercito curdo mezzi blindati — oltre a quelli ceduti da un paio d'anni — sistemi anticarro, apparati di comunicazione e probabilmente piccoli droni. La Gran Bretagna ha promesso molto: si parla di Javelin antitank, giubbotti antiproiettile. La Germania invierà mezzi blindati, caschi, radio e rilevatori di mine. La Francia, scattata per prima, ha assicurato «materiale sofisticato» ma non ha rivelato per ora di cosa si tratti. La Repubblica Ceca e il Canada hanno approntato 4 aerei cargo: saranno riempiti di fucili d'assalto e munizioni. Anche l'Italia si sta muovendo. L'arma principale che Roma è pronta a consegnare ai curdi è la mitragliatrice Beretta Mg 42/59. E un'arma di antica concezione tedesca e sviluppata in seguito dalla «casa» italiana in una versione più moderna. Attualmente è usata solo da unità di carabinieri e polizia in servizio lungo le coste che la montano su veicoli e su mezzi navali. Invece l'Esercito ha sostituito la Mg con la più maneggevole mitragliatrice Minimi. Di conseguenza sono disponibili nei magazzini numerose Mg che potrebbero formare il grosso degli armamenti offerti ai curdi. Per il momento allo stato maggiore della Difesa hanno compilato un quadro del materiale disponibile, ma avvertono di essere «in attesa di una decisione politica sia di Bruxelles che di Roma per capire bene quanto armamento e di che tipo si attende che l'Italia fornisca». E comunque esclusa la possibilità di inviare blindati e mezzi pesanti. E presa invece in considerazione l'ipotesi di mandare sistemi d'arma terra-aria da impiegare, ad esempio, per colpire elicotteri. Su questa filiera peserà in qualche modo il giudizio di due governi interessati. Il primo è, ovviamente, quello dell'Iraq che per oltre un anno aveva posto il veto sulle forniture ai curdi. Ora hanno dato il permesso in quanto non avevano scelta davanti alla progressione dei seguaci del Califfo. Il secondo è l'esecutivo turco che, oltre ad appoggiare discretamente gli islamisti, ha sempre manifestato grandi timori verso un riarmo curdo. Questo perché in alcune zone nel nord dell'Iraq agiscono i guerriglieri del Pkk, simbolo del separatismo curdo in Turchia e duri avversari dell'Isis. Ad Ankara, che pure ha avviato un difficile dialogo con i ribelli di Ocalan, non vogliono che le vie infinite delle armi finiscano per rafforzare anche il Pkk. Tutto è possibile. L'episodio di Derna che abbiamo raccontato ne è la prova.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi: " Sfida dei miliziani: conversione o morte. Così hanno fucilato 80 yazidi"


Lorenzo Cremonesi


DAHUK (Iraq settentrionale) — Qualche volta i soldatacci del Califfato massacrano subito uomini e ragazzi di fronte alle famiglie per annichilire qualsiasi volontà di fuga. E' avvenuto tra il 4 e il 6 agosto nella città di Sinjar. Ma anche in miriadi di centri urbani vicini come Jazeera, Tal Afar, Babir, Al Bi'aj, Wardiya. In altri casi li hanno rinchiusi più giorni in moschee, scuole e commissariati locali, per poi invitarli a convertirsi all'Islam salvo ucciderli in piccoli gruppi. Donne e bambini sono stati portati via dopo selezioni frettolose. Le donne più giovani e carine prese come «schiave sessuali» o, le altre costrette nel ruolo di madri «adottive», obbligate a farsi musulmane e quindi a crescere le nuove generazioni di combattenti dello Stato Islamico (Is, l'acronimo in inglese) proclamato nel giugno scorso da Abu Abu Bakr al-Baghdadi, il leader del gruppo fino ad allora conosciuto come Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del Levante) e dagli arabi con l'acronimo Dish. L'Isis è diventato Is, ma il suo marchio di morte non cambia e attraversa i confini. In Siria l'Osservatorio siriano dei diritti umani (Ondus) ha reso noto che nelle ultime due settimane i jihadisti hanno ucciso oltre 700 membri della tribù Chaitat (600 civili) nell'est del Paese. Da questa parte della frontiera in Iraq gli anziani yazidi sono uccisi di fronte ai loro cari per fiaccarne la resistenza e facilitare le conversioni. Quasi sempre i sunniti locali hanno collaborato volontariamente con le milizie arrivate dall'esterno, spesso sono stati proprio loro a occupare le abitazioni degli ex vicini, rubare le loro automobili, i loro attrezzi agricoli, cercare di prendere le loro donne. I miliziani arrivati dalla Siria e i volontari delle brigate jihadiste internazionali operano come avanguardie. Sono descritti dalle loro vittime come: «Drogati, senza paura di nulla, desiderosi di diventare martiri, adoratori del sacrificio supremo, in preda a sostanze eccitanti, con gli occhi arrossati». Ma, senza la collaborazione di parte della popolazione locale, le loro operazioni sarebbero meno efficaci. Ad ascoltare le testimonianze degli sfollati yazidi nelle regioni dell'enclave curda nell'Iraq settentrionale, appare evidente che — pur nella declinazione variegata nei dettagli di violenza, abusi e crudeltà — c'è un piano preciso, un modello di comportamento studiato a tavolino da parte dei capi del Califfato. II loro sogno è «sunnificare» tutto il territorio che riescono a conquistare, a loro modo reclutano chi collabora, omogeneizzano la popolazione e fanno terra bruciata contro coloro che si oppongono, a costo di sterminarli in massa. I rappresentanti locali dell'Onu guardano ora con preoccupazione al villaggio di Amerli, nelle zone orientali presso l'enclave curda, abitato da un numero compreso tra 5.000 e 10.000 turcomanni di fede sciita. Segnalano che è stato completamente accerchiato dalle brigate del Califfato: si rischia un bagno di sangue. Riprova delle strategie del terrore è l'ennesimo episodio che pare si sia consumato venerdì nel villaggio di Kawju (anche scritto Kocho), dove un'ottantina tra uomini e ragazzi yazidi sarebbero stati fucilati dopo aver rifiutato l'opzione della conversione. Lo descrivono un pugno di sopravvissuti ai funzionari Onu e ai giornalisti nelle zone curde. Le donne sono state portate su minibus nella stazione di polizia della vicina città di Tal Afar. Più tardi, l'aviazione Usa ha compiuto alcuni raid nella zona distruggendo almeno due veicoli della guerriglia sunnita. Abbas Kheder Solo, ventenne residente nel villaggio di Jazeera, ha raccontato al Corriere che lui con altri 74 uomini faceva parte della milizia yazida di difesa locale. «Nella notte tra il 3 e il 4 agosto ci hanno catturato e chiusi nella moschea. Dopo poche ore hanno detto che ci avrebbero uccisi se non abbracciavamo l'Islam. Quando hanno cominciato a sparare sono scivolato a terra ferito alla spalla e alla schiena. I compagni morti mi sono caduti addosso. Cinque ore dopo sono riuscito a scappare. Ho contato 57 corpi ». Tra gli accampati alla periferia di Dahuk il 46enne Jassim Shammo Takhlo, del villaggio di Babir, spiega di avere visto la presa della diga di Mosul: «Sono guardiano della diga. Ma con i miei compagni e gli stessi guerriglieri curdi siamo corsi a mettere in salvo le nostre famiglie quando abbiamo capito che quei terroristi stavano per catturare donne e bambini». Proprio contro la diga si sono concentrati i raid Usa delle ultime ore. Pare che i bombardamenti abbiano causato la morte di almeno una ventina di miliziani sunniti e facilitato ai militari curdi di riprendere il controllo della parte orientale del grande lago artificiale che si estende a nord di Mosul lungo il corso del Tigri. L'offensiva è in corso. Si tratta di un obbiettivo cruciale: il bacino garantisce le riserve idriche e l'energia elettrica per larga parte delle regioni settentrionali. Ma c'è anche il tentativo di evitare danni maggiori alla struttura. Se dovesse cedere, gli allagamenti sarebbero catastrofici. Mosul e Kirkuk rischiano di essere investite da un muro d'acqua alto 11 metri. I comandi militari curdi stanno mandando nuove unità sul posto. Ma sostengono che le loro risorse militari sono ormai esaurite. Agli Stati Uniti e all'Europa chiedono aiuti civili, ma soprattutto armi pesanti e munizioni.
Dall’alto della collina, un sedile di sasso.

LA STAMPA - Domenico Quirico: "Bibbia e kalashnikov così l'ultimo monaco aspetta gli jihadisti "



Domenico Quirico

La vedo di lassù, Al Qosh, aggrembata nella conca, le sue case e cupole e macchie alberate, con quella innocenza mansueta che le città, anche le più terribili e derelitte, assumono da lontano. A girarvi dentro strada per strada, vicolo per vicolo, questa città cristiana d’Iraq era fino a pochi giorni fa tutta lucentezza e spavalderia. Ma da quassù essa è un’altra: non più l’addizione delle sue pietre, case e chiese, la città sembra buona e attonita come dietro un miraggio, dentro a un sortilegio che di lì a poco la dissolverà. Sembra sospesa al suo ultimo minuto, tra un grido di clemenza e una gigantesca paura che subito si abbatterà su di lei per cancellarla. Si è tentati di protendere la mano in una impossibile carezza. Le poche luci adesso che si abbuia narrano a gara di felicità gentili, come se in ogni casa si adunasse a mensa una famiglia allegra e riconoscente a Dio. Ma per questo appunto Al Qosh è trista e fa dolore: perché completamente vuota. Tutti i suoi cinquemila abitanti, uomini, donne, bambini, sono fuggiti una sera alle dieci e trenta quando un grido li ha sferzati: «Arrivano gli uomini del califfo di Mosul, i soldati curdi scappano…». Era il sei agosto. E allora via, sulle auto, i pick up, i trattori, a piedi lasciando le luci accese, il cibo nei piatti. Ci sono ancora le sedie rovesciate a terra davanti ai caffè con i bicchieri pieni di tè rappreso. Qualche uomo è tornato solo per fuggire subito. Perché le truppe del nuovo califfato sono a cinque chilometri da qui, in fondo alla pianura di Ninive. La terra di nessuno. Tra loro e la città un velo di peshmerga, i combattenti curdi. Sto intento con l’orecchio, nel subbuglio del cuore, nel gocciolare degli attimi, intento con l’orecchio verso le case per sentire un rumore. Strade, clamori di mercati, brusio di botteghe, la vita come gli altri giorni, la vita dentro cui c’è anche la vita nostra, di cauti testimoni di questa tragedia, i suoni della città dentro cui c’è anche il battito del nostro cuore. No, la città tace. Gli islamisti sono, nei racconti, un’ombra, rumori, raffiche di mitra… dio è grande… Ma hanno messo in fuga decine di migliaia di persone. Più il Califfato ha i confini erosi dal massacro e più si strappa dal cuore nuovi guerrieri pieni di forza e di sangue. A Nord, a Sud, a Ovest, Libia, Sahara, Siria, Iraq… dappertutto battaglia, dovunque ci si volta la guerra è in qualunque punto di questa vastità. La macchia immensa dell’islamismo, macchia caotica e nera della quale intravediamo solo i bordi. In mezzo inni, olocausti, file di persecuzioni, e il cozzo, in lunghe nuvole e teorie di eserciti, di noi e loro, occidente e islam. Gli ultimi curdi armati li ho incontrati in un piccolo villaggio, anche questo abbandonato, sulle rampe della montagna dove zampilla un torrente limpido alimentato da sorgenti nelle rocce: sorvegliavano, si direbbe, il casto sortilegio dell’acqua, questo elemento così carico di naturalità e di metafisica. Li comandava un vetusto «peshmerga» che ha fatto tutte le guerre: la guerriglia di Barzani contro Saddam Hussein; il tempo di esser perdonato per finire, soldato, nelle paludi di Bassora; sedici anni prigioniero in Iran mentre i figli crescevano senza conoscerlo. E adesso un’altra guerra con il califfo e gli islamisti di nuovo a pestare contro queste montagne. Sorride, è felice sotto un grande arazzo che rappresenta San Giorgio infilzare l’eterno drago: «Ci sono buone notizie, stanotte gli americani hanno colpito, con le bombe, a Telkepe qui davanti a noi». I curdi: cento anni fa li abbiamo ingannati a Versailles, promettendo loro uno Stato e poi li abbiamo abbandonati nelle mani brutali di Saddam e ai suoi gas. Ora li coccoliamo, li riempiremo di armi perché ci tengano lontano il nemico che diciamo nostro e loro. Forse fidiamo troppo negli invincibili «peshmerga». Hanno messo su pancia, si sono fatti, sparito Saddam, un po’ borghesi. Perché sono venuto in questa città fantasma? Perché ho incontrato padre Gabriel, il rettore del convento di Nostra Signora delle messi di Al Qosh. L’ho trovato a Zakho, la grande città non lontano dalla frontiera turca dove ha trovato rifugio con i suoi monaci caldei e migliaia di cristiani e di yazidi, quelli che chiamano adoratori del diavolo. Ma qui, nella piana di Ninive, nell’anno primo del Califfato di Abu Bakr, dio e il diavolo guardano, uno a fianco dell’altro, le loro creature spremute dalla sofferenza: il dolore, l’unica cosa che unisce davvero l’uomo a qualsiasi dio. Sono passato da Bodan, cittadina yazida abbandonata. Deserto anche il tempio bianco dalla strana forma di cono gelato, nell’ombra spessa un satana pentito e demiurgo osservava le offerte dei fedeli. Chissà se tornerà un giorno ad accudirlo un monaco eunuco come impone la regola. Li ho visti i loro profughi a Zakho, gettati come cose nelle strade, sotto gli alberi. I materassi e le coperte stese a terra palpitano e tossiscono. Vedo la loro disperata solitudine come vedo loro. Ma giovani donne già sfaccendano con il poco che è rimasto, regine e serve delle cose, col nervosismo lieto e guerriero delle massaie sempre in ritardo. Altre che sono già madri, dagli occhi di smalto, timide e tenere, cullano i loro bimbi in culle di legno chiaro coperte di amuleti. E sembrano affascinate dalla vita come da una fiaba, da un sogno, nonostante tutto. Nella lotta contro i terribili patimenti continui sembra che ciascuna di loro sia sul punto di confessare, ecco quello che ho potuto, saputo, osato fare di fronte alla immane miseria che mi si è abbattuta addosso. Poi volgono il capo e riprendono a cullare. Non racconto mai storie che non ho visto di persona; ma credo, voglio credere, non per il suo orrore ma per la sua pietà, a quella del mercato di Nakhasa, a Mosul, ora la capitale del Califfato. Lì dicono siano state messe in vendita come schiave mille donne razziate nelle città yazide e cristiane: 160 dollari l’una, per il piacere dei soldati di dio e dei cittadini sunniti osannanti e lascivi. C’è un musulmano che ne ha comperate tre, quanto poteva con i suoi mezzi: ma per liberarle e riconsegnarle ai parenti fuggiti. La guerra, eterna, dei giusti e degli ingiusti. Ieri, secondo i curdi, ottanta di loro sono stati massacrati nel villaggio di Kocho, altri duecento, donne e bambini, portati via come armenti. Bisogna far qualcosa di grosso e di immediato per questa sterminata gente che soffre e sogna la felicità. Bisogna capovolgere il mondo, metterlo come un carro a ruote in aria. Come mi ha detto il monaco Gabriel: «Cristo non ha ribaltato il mondo?». Allora padre Michael: «È semplice: o resteremo a sopportare sotto la “misericordia” di questi musulmani fanatici, o partiremo per sempre. E sarà così: tra cinque anni qui non ci sarà più un cristiano. Che ha fatto la chiesa, quella di qui e quella di Roma per noi? Niente. Il Papa ha mandato 40 mila euro per i cristiani di Iraq. Con rispetto, Santità, poteva darli ai cardinali per i loro viaggi. E gli Usa che hanno fatto? Hanno portato la democrazia e gli iracheni continuano a soffrire. Siamo traditi, abbandonati: l’agonia di Cristo non è stata la croce, è stata la solitudine di Getsemani. Allora questa è la fine, ad al Qosh tante volte i monaci sono fuggiti: davanti ai persiani, agli ottomani, ai curdi e ogni volta sono tornati, questa volta no, è la fine. Non ci può essere democrazia nell’Islam, la loro idea è non accettarci». Ecco. Nel monastero di Nostra Signora delle Messi, il Vaticano dei caldei (nel convento antico sulla montagna nel sesto secolo fu segnata la pace con Roma), il portone spalancato, stagna un silenzio così profondo che sento i movimenti degli insetti tra gli alberi e l’erba del chiostro. Non soffia più il vento caldo del giorno e l’aria trasparente, tesa e sensibile, è sempre eguale, immobile. Sembra aver conservato nelle sue tese profondità tutto ciò che gli uomini, gli animali e gli uccelli hanno gridato e cantato in questi giorni, lacrime e pianti e allegre melodie, preghiere e maledizioni. E tutte queste voci immote e vitree nella città abbandonata l’hanno resa pesante, tesa e satura di una vita invisibile. Sotto di noi era, infinita, la grande pianura di Ninive fitta di erba gialla, attraverso cui confluivano greggi di pecore e capre, abbandonate dai padroni che cercavano cibo belando, qualche capanna di malta, le colonne alte di fuochi misteriosi. E l’ultima pallida luce dorata che inondava la pianura, cadendo dall’alto della cresta di monti che la delimitava come dall’estremità del mondo e faceva pensare a una luce che continuasse all’infinito attraverso un pacifico spazio disabitato. Ma quello spazio non era pacifico e vuoto: a cinque chilometri… Ora mi aggiro nel monastero abbandonato, illuminato da pallide lampade che sembrano fuochi fatui, cerco una delle celle vuote dove dormire. Un cauto rumore, un’ombra che avanza nel chiostro: ha una maglietta mimetica, scarpe da soldato, kalashnikov alla spalla e caricatori. «Sono padre Raphael». È rimasto, racconta, al monastero, isolato guardiano. Ma perché questa divisa? «Perché se arrivano, vestito così, ho qualche probabilità di sopravvivere. Come monaco invece...». Dalla finestrella della mia stanza lo vedo passare di ronda. Poi, nel cuore della notte, accende tutte le luci del convento che diventa un grande, accecante globo di luce. Forse davvero tutto questo finirà, diventerà rovine per l’arroganza dei massacratori. Ma dio non cessa di esistere, neppure quando gli uomini perdono la fede in lui. Durante le persecuzioni e gli esili è rimasto nascosto dietro scaffali di libri, nelle tasche di qualche bambino, dentro salotti e prigioni. Ha l’Eternità dalla sua. Qui mi sono sentito beato e insieme maledetto. Vorrei non esser salito su questa montagna e non vorrei andarmene mai.

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