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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
15.08.2014 La fuga degli yazidi, i crimini dell'Isis, gli appoggi turchi e sauditi
Cronache e analisi di Maurizio Molinari, Lorenzo Cremonesi

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Rotto l’assedio, migliaia di yazidi in salvo - Basi in territorio turco, soldi sauditi così l’Isis ha costruito il suo esercito - Bushra e le donne rubate 'Si sono presi la mia vita'»
Riprendiamo, dalla STAMPA di oggi 15/08/2014,  a pag.  8, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Rotto l’assedio, migliaia di yazidi in salvo" e l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Basi in territorio turco, soldi sauditi così l’Isis ha costruito il suo esercito ", dal CORRIERE della SERA, a pag.  11, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo "Bushra e le donne rubate 'Si sono presi la mia vita' " .

Di seguito, gli articoli:


Terroristi dell'Isis

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Rotto l’assedio, migliaia di yazidi in salvo "


Maurizio Molinari

I marines rompono l’assedio di Monte Sanjar consentendo a migliaia di yazidi di mettersi in salvo e il presidente Usa Barack Obama rivendica il successo dell’«intervento umanitario» facendo capire che potrebbero esservene altri per «soccorrere i civili iracheni» che continuano a essere minacciati dai jihadisti dello Stato Islamico (Isis). Ecco perché «i raid continuano».
È lo sbarco di oltre un centinaio di marines sul Monte Sanjar e sbloccare la crisi nel Nord dell’Iraq perché i soldati americani creano corridoi d’uscita dall’assedio jihadista, verificano che il numero dei civili presenti è «inferiore a quanto pensavamo» e giudicano «relativamente in buone condizioni» i 4500 civili che ancora si trovano sulle montagna, metà dei quali sono pastori che vi risiedono. Per John Kirby, portavoce del Pentagono «la combinazione fra raid aerei, lanci di aiuti umanitari, evacuazioni notturne e sostegno delle unità curde» ha consentito a migliaia di yazidi di mettersi in salvo dai jihadisti.
Il presidente Barack Obama, parlando da Martha’s Vineyard, sottolinea il «successo degli Stati Uniti nel rompere l’assedio di Isis» ottenuto con una «combinazione di interventi militari ed umanitari» che non rende necessarie «ulteriori azioni», a cominciare dall’invio di truppe di terra. Ma ciò non toglie, aggiunge Obama, che «i raid contro Isis continuano» e «simili operazioni potrebbero ripetersi» perché analoghe minacce jihadiste permangono in Iraq «nei confronti di civili cristiani, curdi, sciiti e sunniti».
Ciò significa che per Washington l’intera popolazione irachena è sotto la minaccia di attacchi da parte di Isis e il Pentagono è pronto a ripetere operazioni di analogo «soccorso umanitario» assieme agli alleati: a cominciare dagli europei che si riuniscono oggi a Bruxelles per discutere proprio di aiuti a Baghdad e invio di armi alle autorità del Kurdistan. Se Obama ipotizza nuovi interventi è perché le Nazioni Unite confermano il «livello di emergenza 3» in Iraq - il più alto esistente - in ragione di 1,2 milioni di profughi che vagano senza meta all’interno dei confini, inclusi 150 mila rifugiati a Dohuk, dove la situazione appare più critica.
I jihadisti del Califfo Abu Bakr al Baghdadi reagiscono al blitz Usa sul Monte Sanjar continuando a premere su Erbil, la capitale del Kurdistan, e riprendendo l’offensiva a Ovest di Baghdad. A Fallujah si sono registrati intensi combattimenti - con almeno 10 guerriglieri e 4 bambini uccisi in raid governativi - in coincidenza con una nuova raffica di attentati dentro la capitale: dal quartiere commerciale di Baya alla centrale Sheik Omar. Il bersaglio sono ovunque i civili, riproponendo la strategia delle stragi con cui al Baghdadi - come il predecessore Abu Musab Al Zarqawi - tenta di indebolire credibilità e solidità del governo in carica. Anche per questo, forse, il premier uscente Nouri Al Maliki alla fine ha deciso, ieri sera, di cedere il posto al designato successore Haider Al Abadi.

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Basi in territorio turco, soldi sauditi così l’Isis ha costruito il suo esercito "


Recep Tayyp Erdogan


Campi di addestramento, finanziamenti e armi: le retrovie dei jihadisti dello Stato Islamico (Isis) sono nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan, dentro il territorio Nato. L’accusa è di alcuni parlamentari del Partito repubblicano del popolo - Chp, all’opposizione ad Ankara - secondo il quale il governo di Erdogan avrebbe consentito ai jihadisti di accedere a una serie di campi di addestramento che vanno dalle frontiere con Siria e Iraq alle porte di Istanbul.
«Il ministro dell’Interno Efkan Ala deve dare spiegazioni in merito ad un video di Isis - afferma il parlamentare Sezin Tanrikulu - in cui si vedono centinaia di jihadisti addestrarsi in Turchia e poi pregare nella festa di Id Al Firt». Altri deputati hanno scritto a Cemil Cicek, presidente del Parlamento, chiedendo «chiarimenti governativi» sui «camion senza insegne» avvistati ad Adana, Kilis, Gaziantep e Kayseri con probabili armi per Isis. Senza contare che i turchi sarebbero circa il 10 per cento dei componenti di Isis e Abu Muhammed, noto comandante Isis, è stato fotografato nell’ospedale turco di Hatay nell’aprile 2014.
Nelle scorse settimane indiscrezioni Nato avevano sollevato il sospetto di un sostegno non dichiarato della Turchia al califfo Abu Bakr al-Baghdadi, chiamando in causa Hikan Fidal, capo dell’intelligence fedelissimo di Erdogan. Il sospetto dell’opposizione è che Ankara abbia favorito la formazione di Isis per avere un efficace strumento di pressione sul regime di Assad in Siria ed ora Isis è cresciuto al punto da poter minacciare la Turchia. A dimostrarlo vi sono attacchi come quello al consolato turco di Mosul, dove in giugno 49 diplomatici sono caduti in ostaggio di Isis.
David Phillips, direttore del programma Diritti Umani della Columbia University di New York, in Turchia ha incontrato «parlamentari e politici» che gli hanno sottolineato «i legami fra Turchia, turchi e estremisti sunniti» partendo dall’esempio della Fondazione per i diritti umani (Ihh), che ha il figlio di Erdogan, Bilal, fra i più convinti sostenitori nella raccolta fondi per sostenere «gruppi all’estero». Cengiz Candar, fra i più apprezzati analisti turchi, ritiene che la Turchia abbia «fatto nascere Isis all’inizio del 2012» quando si accorse che «l’incapacità dell’Occidente di sostenere l’Esercito di liberazione siriana» poneva la necessità di avere altri strumenti.
Sarebbe questa l’origine della scelta di Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati di sostenere, con fondi ed armi, le cellule di Isis, Al-Nusra e del Fronte Islamico, portandole spesso a collidere per rafforzare i rispettivi interessi. Le singole potenze regionali musulmane si sono così create delle proiezioni paramilitari - spesso in competizione fra loro - e quella di maggiore successo è Isis grazie alle risorse: dalle basi ai confini con Siria e Iraq alla quantità di armi convenzionali disponibili fino all’efficienza di «Ihh», che raccoglie ogni anno donazioni per 100 milioni di dollari in 120 Paesi ed è già stata in prima fila nel sostegno ai Fratelli Musulmani in Egitto come anche a Hamas e Gaza.
Dietro questa strategia turca vi sarebbe la scelta di Erdogan e del ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu di diversificare le alleanze sostenendo gruppi islamici per sfruttare la decomposizione degli Stati arabi e riportare l’influenza di Ankara sui territori dell’ex Impero Ottomano. L’accordo Sikes-Picot del 1916, che vide Londra e Parigi spartirsi i possedimenti ottomani facendo nascere gli Stati arabi, è stato dichiarato «morto» da Al Baghdadi riportando il Medio Oriente in una stagione che consente ad Ankara di aspirare a tornare gendarme regionale.

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi: "Bushra e le donne rubate 'Si sono presi la mia vita' "



Lorenzo Cremonesi


Yazidi in fuga dall'Isis


CAMPO ONU BAJET KANDALA — «Si sono presi la mia vita. Ti prego vienimi a liberare, vienimi a vendicare», dice per telefono Bushra al marito Dakhill. Lui scoppia a piangere, seduto con le gambe incrociate sul materasso impolverato nella tenda appena eretta dai funzionari delle Nazioni Unite, non riesce a trattenere i singulti. La ragazzina diciassettenne che aveva sposato meno di un mese fa gli ha appena comunicato in pochi secondi di frasi spezzate che è stata violentata. Vicino a lei sta l’uomo che la violerà ancora. Non sappiamo perché le permetta di telefonare. Forse per pietà, oppure per renderla più «cooperativa», più docile, o ancora per continuare a terrorizzare gli yazidi in fuga. «Dove sei?», le chiede lui. Ma subito si rende conto che lei non potrà mai dirlo. Allora aggiunge rapido: «Dimmi di sì, se menziono il villaggio giusto, Jazeera, Sinjar, Zumani, Tall Afar, Al Bi’aj...». Lei lo interrompe sull’ultimo. «Questo», sussurra. Ma poi la linea viene interrotta. Dakhill guarda sulla mappa, Al Bi’aj dista una ventina di chilometri dalla loro casa che hanno dovuto abbandonare nel villaggetto di Qatania la notte tra il 3 e 4 agosto sotto l’incalzare della soldataglia del cosiddetto Califfato. Ma sono quasi cento chilometri da qui e in mezzo ci sono le maledette montagne di Sinjar. Soprattutto ci sono i fanatici che vogliono convertire ogni minoranza all’Islam, c’è il riproporsi di una storia di violenze antichissima, eppure assurdamente attuale. Un capo delle milizie ha confermato il rapimento di cento tra donne e bambini: «Li porteremo a Mosul e li convertiremo». Dakhill non trattiene le lacrime, esce dalla tenda per non farsi vedere dai bambini, scoppia in un lamento ancestrale che fa pensare al Ratto delle Sabine, ai racconti remoti delle donne prese come bottino, alle torri di avvistamento sulle coste cristiane del Mediterraneo contro le razzie delle navi saracene. «Io vorrei che il mondo sapesse... Non vedo mia moglie da due settimane... me l’hanno portata via. E non so cosa fare. Ora avrà figli di altri. Non la vedrò più...».
E’ il momento più intenso del lungo incontro avuto ieri con gli sfollati yazidi raccolti nel campo in via di costruzione nell’Iraq settentrionale, presso la città curda di Dohuq, a meno di cinque chilometri dal confine con la Siria. Gli Usa proclamano che la fase più acuta dell’emergenza è finita. Si calcola che all’inizio fossero oltre 40 mila i disperati assetati e affamati sulle sue sommità aride, bruciate dal sole. Ma gli americani hanno trovato solo 4.500 persone, di cui meno della metà sfollati. Di questi una piccola parte sono vecchi e infermi. Gli altri intendono restare a combattere. Cancellato il progetto di ponte aereo e via terra per l’evacuazione. Ieri dal canale di fuga attraverso le regioni curde in Siria erano arrivati in Iraq meno di 1.500 civili, contro le medie quotidiane di oltre 15 mila dei giorni precedenti. «Tuttavia l’operazione umanitaria resta in piedi. Stiamo costruendo nuovi campi di accoglienza», ci dice Marzio Babille, responsabile delle operazioni Onu in Iraq. Ufficiosamente la stima dei morti tra gli yazidi in fuga varia tra 2 mila e 4 mila persone. Sconosciuta è la cifra delle vittime assassinate nei villaggi, dei giovani obbligati a convertirsi, delle donne prese per servire da «schiave sessuali».
Il dramma del 24enne Dakhill Mahlo è indicativo. Quando chiedo se c’è qualcuno con una storia da raccontare, un suo cugino incontrato per caso mi porta da lui. Ha l’aspetto emaciato, la barba sfatta, le labbra screpolate. «Alle due di notte del 4 agosto le 14 famiglie che compongono il nostro clan, 106 persone in tutto, si sono messe assieme per fuggire verso le montagne. Ma gli islamici ci stavano alle calcagna. Tanti tra loro sono sunniti del nostro villaggio e del circondario. Conoscono benissimo le piste che conducono alle pendici di Sinjar evitando le strade asfaltate. Allora abbiamo abbandonato le nostre auto e proseguito a piedi. Io sono giovane, corro forte. Mio padre, mia madre e gli altri anziani con i bambini rallentavano la fuga. Già prima dell’alba erano stanchi, avevano sete. Ma i criminali del Califfato controllavano le sorgenti basse e dicevano che chi voleva bere doveva convertirsi. Abbiamo trovato un capanno. Allora mio padre mi ha detto: corri sulle cime, prendi cibo e soprattutto acqua. Noi ti aspettiamo qui e poi riprendiamo a salire assieme. Così ho fatto. Ma, sulla via del ritorno, dall’alto ho visto che gli arabi avevano circondato la catapecchia. Facevano uscire gli uomini, i miei fratelli, gli zii, i cugini, e uno a uno li obbligavano a stare in ginocchio, puntavano il mitra alla tempia, li obbligavano a offendere il nostro credo e promettere che sarebbero diventati buoni musulmani. Tre o quattro volte li hanno fatti entrare e uscire. Poi li hanno caricati sugli automezzi appena abbandonati dalla nostra gente e portati via. E’ stata l’ultima volta che ho visto mia moglie». Rovista nel portafoglio ed estrae un foglio spiegazzato: è la tessera da studentessa di Bushra Mojo, 17 anni, con la sua foto su sfondo azzurro che la fa sembrare quasi una bambina.
Da allora si parlano per sms e con telefonate brevissime. Tanti tra gli sfollati yazidi in qualche modo mantengono rari contatti più o meno diretti con i loro cari. Qualcuno parla con il vicino di casa che li vede ancora, magari prigionieri nella moschea o nella scuola locale. Persino parlano con i loro aguzzini. Sono sprazzi di una società sconvolta che preserva segmenti di umanità. Così Bushra ha raccontato al marito il calvario delle donne prigioniere. In un primo contatto già il pomeriggio del 4 agosto gli ha detto che si trovava nella stazione di polizia del villaggio di Jazeera assieme a centinaia di altre, per lo più ragazze giovani. «Vogliono che diventiamo tutte musulmane, dobbiamo indossare vestiti tradizionali arabi», ha aggiunto. Il giorno dopo era nel commissariato di Tall Afar. Ha specificato che le più carine erano state selezionate. Alle quattro della mattina un gruppo di uomini armati era venuto a cercare una certa Nazeh, pare che fosse particolarmente bella. E hanno picchiato qualcuna con i calci dei fucili perché sostenevano che non li aiutava a trovare Nazeh. Il quarto giorno dopo la cattura Bushra comunica di essere stata rinchiusa a Badush, il carcere maggiore di Mosul che le milizie del Califfato da metà giugno utilizzano come quartiere generale. Qui avviene la separazione: «Le vergini da una parte, le sposate dall’altra». Le prime, da quanto lei lascia capire, sarebbero state violentate e poi fatte partire, forse per la Siria. Tra gli yazidi dicono che alcune sarebbero vendute per 1.000 dollari al «mercato delle donne di Mosul», ma non ci sono conferme. Lei viene invece condotta in un altro luogo e qui data a un uomo. «Continuava a dirmi che l’avrebbero violentata. E penso sia avvenuto il 9 agosto», dice Dakhill. Cercando di smorzare la tensione domando se ha qualche notizia dei suoi fratelli. «Jamal ha 26 anni. Kamaj 21. So che sono rinchiusi nella moschea di Tall Afar», risponde e prova a comporre il loro numero. Risponde in diretta un miliziano del Califfato. «Stanno pregando con noi, chi sei?», chiede questi. «Sono loro fratello», risponde Dakhill. «Cane infedele, convertiti e solo allora potrai parlarmi», replica l’altro interrompendo la comunicazione. Pochi minuti dopo arriva la chiamata di Bushra: «Si sono presi la mia vita...»

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