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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
14.08.2014 Iraq: i marines a soccorso degli yazidi, i cristiani in fuga, gli jihadisti europei che combattono per il Califfato
Cronache e analisi di Maurizio Molinari, Domenico Quirico, Pio Pompa

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Domenico Quirico - Pio Pompa
Titolo: «Scatta il blitz americano. Sul monte Sinjar 100 marines - 'Traditi dai nostri vicini. Hanno sfondato le porte e preso i bimbi dai letti - Il silenzio dell'Occidente sui nostri uomini nello Stato islamico»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi,  14/08/2014, a pag. 11, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Scatta il blitz americano. Sul monte Sinjar 100 marines  ", a pagg. 1-10-11, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo "'Traditi dai nostri vicini. Hanno sfondato le porte e preso i bimbi dai letti ", dal FOGLIO, a  pag. 3, l'articolo di Pio Pompa dal titolo  "Il silenzio dell'Occidente sui nostri uomini nello Stato islamico".

Di seguito, gli articoli:


Iracheni in fuga dall'Isis

LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Scatta il blitz americano. Sul monte Sinjar 100 marines "


Maurizio Molinari


Almeno cento marines sono atterrati sul Monte Sinjar, nel Nord dell’Iraq, per organizzare la fuga di 30 mila yazidi minacciati dai jihadisti dello «Stato Islamico». I soldati Usa sono arrivati con gli aerei ad atterraggio verticale V-22 Osprey, andando a rafforzare un contingente ridotto di truppe speciali, americane e britanniche, che negli ultimi giorni ha guidato a distanza i raid aerei contro le artiglierie dei jihadisti del Califfo Abu Bakr al Baghdadi. La base delle operazioni militari alleate è un vecchio aeroporto che ha ospitato le truppe speciali Usa durante tutta la durata dell’intervento in Iraq, dal 2003 al 2011. Civili yazidi in fuga affermano di aver visto da lontano i soldati americani «in aree protette dai pashmerga curdi». La pista da cui operano i marines può servire per il ponte aereo di soccorso umanitario. L’accelerazione dell’intervento angloamericano coincide con quanto afferma Ben Rhodes, consigliere della Casa Bianca sulle questioni strategiche, da Edgartown in Massachusetts: «Nei prossimi giorni il presidente Barack Obama riceverà delle raccomandazioni su come salvare i civili assediati nel Nord Iraq e includeranno l’invio di truppe di terra». Ciò significa che le unità arrivate sul Monte Sinjar verranno seguite da contingenti più numerosi. Si tratterà di una «missione umanitaria» e «non di combattimento» aggiunge Rhodes, per limitarne lo scopo al soccorso della minoranza yazidi, ma quanto sta avvenendo nel Nord Iraq preannuncia un intervento ad alto rischio per le truppe Usa. I 129 consiglieri giunti a Erbil - a integrare i 250 già presenti - hanno già trasmesso al Pentagono i primi rapporti nei quali si descrive una situazione in rapido deterioramento: i raid aerei Usa hanno avuto scarso effetto sui jihadisti che continuano ad avvicinarsi alla capitale del Kurdistan e l’inizio delle forniture di armi ai peshmerga da parte della Cia richiede tempo, senza contare l’impossibilità logistica di rifornire dal cielo 30 mila civili assediati, bisognosi di tutto. Ciò significa che lo Stato Islamico si rafforza a Nord di Mosul, minaccia di «genocidio» la minoranza yazidi e potrebbe lanciare l’affondo contro il Kurdistan in tempi brevi. Si prospetta per la Casa Bianca uno scenario da incubo, con l’enclave curda - roccaforte dell’Occidente - invasa dalle bande armate del Califfo, sostenute da un imprecisato numero di tribù sunnite. Per l’inviato Onu in Iraq, Nickolay Mladenov, «l’emergenza umanitaria è al livello più alto» perché oltre ai yazidi assediati vi sono «almeno 200 mila profughi a Dahuk». L’Eliseo preannuncia l’invio di «armi ai curdi nelle prossime ore» e la convocazione dei ministri Ue per Ferragosto punta a superare l’ostacolo dell’embargo di armi all’Iraq, ancora in vigore. Il Segretario di Stato John Kerry ha comunicato ai partner dell’Ue l’intenzione di realizzare un «piano di evacuazione dei yazidi» con corridoi umanitari, no-fly zone e truppe speciali per tenere a distanza i jihadisti. Ecco perché il premier australiano Tony Abbott si dice già favorevole a «truppe di terra». Al Baghdadi intanto fa distruggere con l’esplosivo il tempio yazidi di Lalish, a Nord di Mosul, giudicandolo un «nido di Satana», e firma una raffica di attentati a Baghdad che causano almeno 29 vittime, dimostrando che la capitale è nel raggio d’azione. A complicare i piani Usa c’è quanto avviene a Baghdad: il premier uscente Nuri Al Maliki rifiuta di cedere il passo a Maher Al-Abadi, ordinando alle truppe di non abbandonare il centro della capitale. Pur osteggiato da Iran, Arabia Saudita e Usa, Al-Maliki si arrocca per impedire la nascita del nuovo governo e dunque priva Washington dell’interlocutore con cui concordare l’intervento umanitario.

LA STAMPA
- Domenico Quirico:  " 'Traditi dai nostri vicini. Hanno sfondato le porte e preso i bimbi dai letti "


Domenico Quirico

Un giorno, presto, molto presto, metteremo un dito sull’atlante: questo spicchio di vicino oriente, qui sono stati i cristiani. Ci sono passati come la goccia di mercurio che non bagna e invano tra qualche anno ne cercheremo le tracce. Il Nord dell’Iraq, e la Siria, sipario di enigmi, hanno ingoiato nelle loro viscere millenarie anche un lembo di questo Vangelo che è di tutti noi. Telkepe, Batnaya, Tel Esqof, Karamlish, Bashiqa, Qaraqosh, Mosul: imprimetevi nella mente questo che sembra un arido elenco di città e villaggi. È la storia scritta da Dio che ha questo preludio di nomi crudi, agglomerati di uomini che durano il tempo necessario a pronunciare le loro sillabe, tutti coagulati in un segno sulla carta che la pronuncia dei fuggiaschi fa come precipitoso. Un milione erano i cristiani in Iraq nel 2003 prima dell’invasione americana. Ora sono ridotti a 400 mila. Questa, lo Stato islamico del Nord, è l’ultima ondata che li spazzerà via. Solo in questa città di tribolati che ha nome Erbil sono cinquantamila; nelle chiese, in accampamenti ricavati sulle strade, negli edifici in costruzione sono gli uomini che raccontano, uomini in cui si annida l’orgoglio cristiano, senza languori e malinconie, solo cupezza e attesa. Tremila hanno trovato rifugio nella cattedrale dedicata a san Giuseppe, seicento almeno i bambini. Riuniti anche nella fuga per parrocchie, crocifissi in ogni crocefisso. Nella loro città sono rimasti trenta cristiani: i vecchi e i malati che non potevano fuggire. A custodire case che suppongono saccheggiate, chiese profanate. Ora vuoto, silenzio. Le aule, i banchi accatastati per fare spazio, sono diventati dormitori, sei famiglie sono accampate in un sottoscala, molti vivono sotto tendaggi improvvisati all’aperto, fulminati dal sole a 50 gradi, in un puzzo insopportabile di urina. Non hanno portato nulla con sé, la cosa che sognano di più è il certificato di battesimo, perché passato il confine darà loro la qualifica di rifugiati. Le città e i villaggi della pianura del Tigri, dunque, la pianura di Ninive, terra cristiana, sarchiata dal sudore cristiano prima che gli arabi arrivassero qui: ogni volta che compaiono nel racconto degli scampati al furore del Califfato trionfante, un mondo perduto fa un passo verso di noi; fra mille arabeschi di generazioni avanza nel fogliame di incroci di fede misteriosi e prestabiliti. Le loro liti e divisioni risalgono alle bizantine dispute di Calcedonia. Miserie, ombre. Ma l’attesa e lo sconforto, il grande afoso sconforto che opprime l’animo dei cristiani che si preparano a fuggire, questa volta definitivamente, è tutta scandita in questo elenco di nomi menzionati tutti per uno, come una collana tastata da un cieco per controllare i frammenti di un gioiello. Non illudetevi per le tardive bombe di Obama e la timida controffensiva dei guerrieri curdi che era annunciata per ieri notte. Chiediamo, per salvare i cristiani, aiuto ai curdi, ora, i curdi che furono gli zelanti massacratori degli armeni cento anni fa! Il cristianesimo nelle terre dei due fiumi, invecchiato come in un involucro trasparente, è finito. Per sempre. Papa Francesco, venga qui, prima che accada, prenda un aereo e scenda a Erbil baciando la terra dove è l’orma degli apostoli Tommaso e Taddeo. Francesco l’avrebbe fatto. Tutta l’umana miseria dei corpi, eccola, le sarà fitta e gemente intorno, incredula e supplichevole ma capace di soffrire. Uomini che soffrono: sì, la cosa più concreta e urgente che ci sia. Stracci, carne sfortunata e occhi pieni di Storia. Salirà le scale puzzolenti di edifici abbandonati dove i cristiani fuggiti agli odiatori senza speranza, strappati dalla nicchia quotidiana, privati dei minuscoli conforti della propria giornata, hanno il loro fardello di caldo, di sete, di fame. E rischiano di perdere ogni indulgenza, ogni interesse per gli altri. Sarebbe legge sfoderare qui denti e artigli e conquistarsi una tana. Invece no. Non urlano, non bestemmiano, in silenzio attendono, con la stanchezza che diventa aghi nelle membra. Gli inviati, le preghiere non bastano per questi martiri moderni dell’intolleranza totalitaria. Perché la loro è una religione senza miracoli, i cristiani di Iraq, uomini come gli altri con la morte sotto i piedi e la paura che sale nel petto: «Ma il loro non è un dio addormentato che somiglia troppo a un dio morto, a un dio che forse non c’è...». E le parole dell’abuma Salem Saka della chiesa caldea mi colpiscono con un suono così aspro che paiono ribattute con i chiodi. Suvvia andiamo a vederli, percorriamo all’indietro questa lontananza che pare immensa, un viaggio breve ad Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil, ma che dura quasi duemila anni. Arruoliamoci, testimoni volontari, in questa storia morta, in questi secoli di cenere. Awnee è un uomo qualunque che ha vissuto giustamente a Qaraqosh e ha solo voglia di morire. Da tanti anni i suoi cassetti sono in ordine, congedati gli amici, nella dispensa di contadino mai un frutto di più per l’indomani. La morte è matura nel suo petto, aspetta il suo giorno, il bel giorno degli occhi chiusi in cui non dovrà più aggiustarsi il turbante per andare nei campi ma solo stendersi, cancellare i colori di quaggiù e galleggiare nella luce. Credeva, quando sono risuonate le raffiche di mitra e i soldati sono fuggiti per i campi, che tutto fosse finito: invece deve ancora attendere. Ha un appuntamento con uno che tarda, ma non mancherà. Ha un suo discorso breve da fare: «Ibrahim si fa chiamare il nuovo califfo, Ibrahim il nome arabo di Abramo, santo a tutte le fedi! Che oscenità, queste mummie superstiziose... per loro dio è un libro e gli uomini una cosa a cui non hanno mai pensato». Due donne, come cespugli umani sul ciglio della strada, accanto un tappeto di gomma, unico loro avere: lanciano la voce come un tentacolo, con la disperazione di chi vive nella prigione e picchia perché gli venga aperto: «Sono stati i nostri amici e vicini arabi sunniti a tradirci. Quando arrivavano aiuti per noi, cristiani, li dividevamo, come fratelli… ma quando i “daech’’ (acronimo arabo per Isis, ndr), i jihadisti sono avanzati, sono passati dalla loro parte». Un’altra donna, il viso largo e maschio, seduta sull’orlo di un fosso argilloso, non guarda neppure i passanti, parla con non so quale stridula timidezza: «È stato un musulmano che ci ha salvato all’ultimo momento, portandoci via in auto, ha ingannato i jihadisti al posto di blocco. Perché lo ha fatto? Perché eravamo, noi cristiani, suoi amici». I bambini, i bambini cristiani di Erbil: hanno manine piccole che cominciavano ad acciuffare le cose; e vocette che scalfivano simili a schegge di vetro i rumori consueti della casa. Credevano che fosse un gioco quando li presero dai letti, a mezzanotte, e gli altri già sfondavano gli usci. Se non avessero sentito la mamma urlare più del giorno che li partorì. Allora si sono messi a piangere, e anche ora piangono nascondendo i volti dietro i fogli dove si spiega come fare attenzione a mine e oggetti esplosivi. Non vogliono che li guardiamo, che facciamo loro fotografie, i primi bambini del mondo che non vedo affascinati, curiosi. Hanno capito chiaramente che si trattava di questo, di morire. La morte è stata per loro come un cuneo di verità nel soffice non sapere dell’infanzia.

Il FOGLIO - Pio Pompa:  "Il silenzio dell'Occidente sui nostri uomini nello Stato islamico "


Bernard Cazeneuve, ministro degli Esteri francese


Aspiranti jihadisti europei

Roma. Alla fine è stato il ministro dell’Interno francese, Bernard Cazeneuve, a dover ammettere ieri, in una intervista a radio France Info, che quasi 900 jihadisti francesi stanno combattendo in Siria e Iraq. Staremo a vedere se anche altri paesi europei avranno il coraggio di fare altrettanto oppure continueranno a minimizzare il fenomeno che ormai riguarda migliaia di convertiti e naturalizzati pronti a imbracciare le armi là dove il mito del jihad s’intreccia con la realizzazione di uno stato totalmente islamista. Altro che le cellule dormienti di qualche anno fa. E’ inutile negarlo: un vero esercito di mujaheddin, estremamente determinati, si aggira per l’Europa che sinora ha sempre fatto finta di nulla. Le nuove filiere del terrorismo fanno affluire i propri membri nei teatri di maggiore richiamo, come la Siria, la Palestina e l’Iraq, munendoli di documenti falsi, denaro, indicazioni precise sulle basi da raggiungere. Oppure sfruttano abilmente, usando documenti veri e del tutto legali, il circuito degli aiuti umanitari o di determinate e selezionate organizzazioni non governative. Secondo alcune nostre fonti, di stanza a Baghdad, fra i quadri dello Stato islamico figurano 237 americani, 330 britannici, 176 francesi, 23 italiani, 42 olandesi, 17 belgi, 313 ceceni, 111 libanesi, 180 libici. Di recente a capo di un battaglione dello Stato islamico, in avanzamento verso Baghdad, è stata nominata la cittadina britannica Samantha Lewthwaite (vedova di Germaine Lindsay, uno degli attentatori suicidi della strage di Londra del 7 luglio 2005), che ha lasciato gli Shabaab per seguire Abu Bakr al Baghdadi. Purtroppo negli ultimi tre anni nessuno è riuscito a convincere Washington del fatto che le nuove caratteristiche strategiche, organizzative e operative, assunte dal fenomeno jihadista specie dopo gli esiti delle primavere arabe, avrebbero inciso profondamente sugli equilibri geopolitici sia mediorientali sia di altre aree di crisi. Ad esempio da oltre due anni qui si sostiene, con documentate informative, lo straordinario potenziamento militare conseguito da Hamas attraverso l’approvvigionamento di enormi quantità di missili, armi ed esplosivi utilizzando abilmente il collaudato network degli aiuti umanitari. Come pure la proliferazione, sotto la Striscia di Gaza, di tunnel. Molte nostre fonti erano concordi nel ritenere imminente un’offensiva terroristica da parte di Hamas e del Jihad islamico. Entrambi rimpinguati negli effettivi da miliziani, ben addestrati, provenienti ancora una volta da Gran Bretagna, Francia, Olanda, Italia, Libia, Tunisia, Turchia, Egitto, Libano e, come di consueto, dall’Iran. Come è stato possibile verificare nelle ultime settimane durante l’operazione Protective edge, l’alto comando e il potenziale militare di Hamas sarebbero sopravvissuti consentendo ai terroristi di cantare vittoria. “Stesso errore tattico – continuano le nostre fonti – lo si sta replicando in Iraq con lo Stato islamico che gioca sulla reazione debole di Obama dandogli questa volta del codardo non per il golf ma per il fatto di inviare gli aerei anziché i marine”. Dopo il tragico voltafaccia in Siria nessuno crede più alle sue “red line”. Obama lancia, in Iraq, i raid aerei contro l’esercito di al Baghdadi temendo il genocidio dei cristiani e del popolo yazida. Ma come per la Siria è già troppo tardi. “Siamo tra voi” è il messaggio, via Twitter, inviato dallo Stato islamico agli Stati Uniti che rifiutano ancora l’unica scelta possibile per sradicarlo: “boots on the ground”.

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