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Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 26/07/2014, a pag. 12, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo "A Tel Aviv non piace la tregua americana ", dalla STAMPA, a pagg. 10- 11, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Israele, sì alla tregua ma solo di dodici ore " e a pag. 11, sempre di Maurizio Molinari, l'articolo dal titolo "S'incendia la Cisgiordania. 'Marciamo su Gerusalemme' " Segnaliamo il fatto che l'ottimo articolo di Fiamma Nirenstein ha ricevuto dalla redazione del GIORNALE un titolo inadeguato, che "confonde" Gerusalemme, la capitale di Israele, con Tel Aviv. Di seguito, gli articoli: John Kerry e Benjamyn Netanyahu Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein: "A Tel Aviv non piace la tregua americana" Fiamma Nirenstein Gerusalemme - Dopo un incontro di Gabinetto che è proseguito fino a tarda notte, Israele ha deciso che la proposta di Kerry di cessate il fuoco non può essere accettata così com'è e che vuole proseguire nella discussione col Segretario di Stato Americano. Anche Hamas ha preso, grosso modo, la medesima posizione. L'elemento che non convince Israele, sembra, è l'insieme delle condizioni dei sette giorni di interruzione delle ostilità richieste da Kerry in cui Israele esige di seguitare a distruggere le gallerie che consentono a Hamas di penetrare in Israele per portare attentati terroristi. LA STAMPA- Maurizio Molinari: "Israele, sì alla tregua ma solo di dodici ore"
Il governo israeliano accetta una tregua umanitaria di 12 ore a Gaza ma rifiuta la proposta per un cessate il fuoco di 7 giorni formulata da John Kerry. La decisione israeliana è stata adottata all’unanimità dai ministri del premier Benjamin Netanyahu, con la motivazione di voler «approfondire gli aspetti che riguardano Israele». Il motivo del rifiuto del cessate il fuoco di 7 giorni, si apprende da fonti diplomatiche, è che la proposta Usa prevede che Israele cessi la caccia ai tunnel costruiti da Hamas a Gaza per infiltrarsi oltre-frontiera. Peter Lerner, portavoce militare israeliano, afferma che sono già stati scoperti «oltre 30 tunnel» ma ve ne sarebbero altri 20 che costituiscono una «minaccia per la sicurezza nazionale». A confermarlo sono state le rivelazioni ottenute da membri di Hamas catturati, che hanno consentito di ricostruire il piano di un mega-attacco previsto per il prossimo Capodanno ebraico: centinaia di uomini armati si sarebbero dovuti infiltrare attraverso i tunnel sotterranei dentro Israele per «uccidere il più alto numero di civili e militari». «Dobbiamo portare a termine la distruzione dei tunnel» spiega Sami Turgeman, comandante del Fronte Sud, secondo il quale «Hamas è in difficoltà, sulla difensiva, ogni giorno che passa si indebolisce di più» e dunque c’è la possibilità di assestare un duro colpo all’avversario strategico. A rafforzare l’impressione di Israele sul fatto che potrebbe essere Hamas ad avvantaggiarsi dal cessate il fuoco prolungato sono state le dichiarazioni di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, che dal Libano ha detto: «aver combattuto per 18 giorni è una vittoria per Hamas perché il nemico non ha raggiunto i suoi obiettivi». Kerry però non è pessimista: «L’accordo non c’è ancora ma Netanyahu ha accettato una tregua di 12 ore proposta dal Segretario dell’Onu da Ban Ki moon» ha detto dal Cairo, facendo capire di non escludere un’adesione israeliana al cessate il fuoco di 7 giorni dopo la fine dello smantellamento dei tunnel. In precedenza, ad aprire all’iniziativa Usa era stato Khaled Mashaal, leader di Hamas all’estero, pur lamentando la possibilità per Israele di mantenere le truppe a Gaza. Ad aver fatto decollare la proposta di Kerry era stato il Qatar - l’unico Stato arabo a sostenere Hamas - ipotizzando la tregua per consentire di iniziare colloqui sulle richieste di Hamas, a cominciare dalla fine del blocco. Sempre ieri Israele ha fatto sapere che il soldato mancante all’appello - Oron Shaul - è stato ucciso e non è dunque prigioniero di Hamas. Sono 35 i militari caduti mentre le vittime palestinesi superano quota 800. I portavoce militari aggiungono che «dalla scuola Unrwa dell’incidente di giovedì erano partiti colpi che hanno ucciso un soldato». «Oggi un bambino di due anni è stato assassinato a Gaza» esordisce, ottenendo il silenzio da un tappeto umano di oltre diecimila anime. «Era troppo piccolo ed è morto prima di comprendere abbastanza ma siamo qui per dimostrare alla gente di Gaza - grida Qassam nel megafono - che Cisgiordania e Gaza sono un solo popolo, uniti contro l’occupazione e contro l’aggressione alla Striscia». Il boato di risposta arriva da un parterre di militanti di Al Fatah, Hamas, Fronte popolare e molte altre sigle della galassia palestinese. Ma tutti innalzano solo i drappi della Palestina e indossano magliette nere con la scritta «Marcia dei 48 mila». È il nome che duecento attivisti, incluso Qassam, si sono dati per tentare di marciare dal campo profughi Ameri fino alla moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, provando ad attraversare il check point di Qalandia. Distribuiscono un volantino con le tappe che hanno in mente: un percorso impossibile perché di mezzo ci sono i posti di blocco. Ma ciò che conta per Qassam è «dimostrare solidarietà con Gaza» e anche con Hamas che, nelle richieste per il cessate il fuoco, ha incluso anche la libertà di accesso alla Spianata delle Moschee nella Città Vecchia. Il luogo è carico di simboli perché Qalandia è il punto di transito più frequentato fra Gerusalemme e Ramallah: se c’è una frontiera dove Israele e Palestina dialogano è questa. Portare qui la rabbia popolare significa far sapere ad Israele che l’intera Cisgiordania è in ebollizione. «Marciamo verso Gerusalemme» grida il giovane Barghouti e i manifestanti ripetono lo slogan, in un crescendo di toni ed emozioni, trasformandolo in canto ritmato. «Se siamo qui in così tanti - dice Qassam dirigendosi da Ameri verso Qalandia - è perché il presidente Abu Mazen ha sostenuto questa marcia e perché c’è un sentimento dilagante di rivolta popolare innescata dal bombardamento israeliano di una scuola dell’Onu a Gaza, con bambini e donne uccise». Attorno a lui c’è una cerchia di fedelissimi e co-sponsor della marcia, tutti fra i 20 e 30 anni, che ripetono «Palestina, siamo una sola nazione». Ma quando il corteo arriva a 300 metri dal check point a prendere l’iniziativa sono gli shabab: ragazzi con il passamontagna che lanciano prima pietre e poi bombe incendiarie contro i soldati israeliani. Micky Rosenthal, portavoce della polizia, assicura che «ci hanno anche sparato contro». Le forze israeliane rispondono con munizioni vere ed è battaglia: un palestinese viene ucciso, almeno 25 sono i feriti e gli arresti superano quota 150. Gli agenti israeliani feriti sono 29. Incendi ed esplosioni illuminano la notte, l’esercito fa arrivare gli elicotteri e i disordini si estendono a Gerusalemme Est dove prima dell’alba di ieri almeno altri 40 palestinesi vengono arrestati. Qassam accetta di parlare con «La Stampa». È teso, usa l’espressione «successo» ma tradisce nervosismo per la svolta violenta che non voleva. «La partecipazione massiccia è stata una dimostrazione di forza venuta dal basso, non possiamo vantarci di averli portati tutti noi in strada - dice, parlando al telefono - ma abbiamo creato il vettore per esprimere la rabbia, la furia, che c’è in Cisgiordania per quanto avviene a Gaza». «Non volevamo spargere il sangue né creare martiri - precisa - ma sono stati gli israeliani a sparare per uccidere». Ora l’interrogativo è se vi saranno altre proteste. La risposta è già in quanto avviene nel venerdì di preghiera: scontri in più centri della Cisgiordania con tre palestinesi uccisi a Beit Ommar e due a Hawara mentre Gerusalemme Est è teatro di scontri in più quartieri, con la Città Vecchia blindata. A Ramallah la protesta torna ai funerali della vittima di Qalandia, Muhammad al-Araj, 17 anni. Il padre Ziad durante le esequie racconta: «Mio figlio ha deciso di andare a Qalandia dopo aver visto le immagini dei morti di Gaza, mi ha mandato un sms dal cellulare scrivendo "Spero di diventare un martire", e lo ha fatto». La domanda a cui Qassam non risponde è se la battaglia di Qalandia può innescare una terza Intifada. Per alcuni «può essere l’inizio di un’esplosione più grande», per altri «la rabbia è un evento a sé, destinato a non avere conseguenze immediate». Per esprimere la propria opinione al Giornale e alla Stampa, telefonare ai numeri seguenti oppure cliccare sulle e-mail sottostanti Il Giornale: 02/85661 La Stampa: 011/6568111 segreteria@ilgiornale.it lettere@lastampa.it |
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