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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio-Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.10.2011 Se questa è primavera
Analisi e commenti di Daniele Raineri, Guido Olimpio, Davide Frattini

Testata:Il Foglio-Corriere della Sera
Autore: Daniele Raineri-Guido Olimpio-Davide Frattini
Titolo: «Piano con l'effetto Libia a Damasco-Da Lockerbie a Ustica, i misteri sepolti con Rais-Lo scontro per il dopo Gheddafi»

Scenari per il dopo Gheddafi, dalla Libia alla Siria. Ne scrive sul FOGLIO di oggi, 22/10/2011, a pag.1 Daniele Raineri dal Cairo. Sul CORRIERE della SERA, a pag.13, Guido Olimpio da Washington su quel che Gheddafi non potrà più rivelare fosse stato un tribunale a giudicarlo, a pag.15 Davide Frattini racconta le forze che si preparano a raccoglierne il potere.
Ecco gli articoli:

a destra Mohammed al-Bibi, con in mano la pistola che ha ucciso Gheddfafi

Il Foglio-Daniele Raineri: " Piano con l'effetto Libia a Damasco"

 

Assad, Gheddafi              
Daniele Raineri

Il Cairo, dal nostro corrispondente.
Giovedì i clacson strombazzavano in festa per le vie del Cairo, suonavano, cioè, più di quanto già non facciano giorno e notte seguendo accenti e sincopi demenziali. La festa per la fine di Gheddafi è un avvertimento truce ai dittatori che resistono, Bashar el Assad in Siria e Ali Abdullah Saleh in Yemen: quanto più la reazione contro le proteste è violenta tanto più la fine diventa terribile. “Vorrei essere a casa Assad oggi per sentire di cosa parlano a colazione”, è la malevolenza più facile da raccogliere in giro. Le elezioni di Tunisi, domani, diventano il traguardo concreto a cui aspirare. Il grande arabista della Stanford University, Fouad Ajami, citato ieri da Maurizio Molinari sulla Stampa, dice che ora naturalmente “il pensiero di tutti è rivolto a Damasco”. Ogni venerdì le proteste in Siria hanno un nome diverso, ieri è stato il venerdì del “Dopo Gheddafi vieni tu, o Assad”. I ribelli in rivolta sono galvanizzati dal linciaggio di Sirte e si specchiano in quelli libici, ne agitano la bandiera verde bianca e nera nei quartieri di Hama e di Damasco – dove ieri sono morti in tredici, uccisi dai soldati – e ne sono ricambiati con il riconoscimento della loro leadership, da Consiglio degli insorti a pari Consiglio degli insorti. Devono aver lavorato anche di notte i siriani per esporre dopo la preghiera del mezzogiorno l’enorme bandiera, rossa a caratteri dorati: “Kalt Gaddafi attaszu aulal al baeb”, la morte di Gheddafi è la miglior predica a tutti i potenti. Lo stesso presentimento fatale lega Assad a Gheddafi, tanto che gli ultimi proclami del rais in fuga sono stati trasmessi da un canale siriano messo a disposizione da Damasco. Al netto dell’effetto galvanizzante sulle piazze però, le analogie tra i due paesi si fermano qui. Sono misure non comparabili. Anzi, la Libia potrebbe essere un precedente negativo per la Siria: Cina e Russia stanno bloccando le sanzioni economiche internazionali contro Damasco perché sono rimaste scottate, si sentono tradite dalla distorsione plateale che la Nato ha fatto della risoluzione 1.973. La risoluzione autorizzava l’uso della forza per proteggere i civili, ma si è fin da subito allargata, fino al capitolo finale – di certo non autorizzava la caccia centimetro per centimetro con i droni fino a eliminare il rais libico (c’è chi sostiene pure che una squadra speciale straniera sia arrivata per prima sulla strada dov’era Gheddafi e lo abbia consegnato alla sua fine tra i ribelli di Misurata, quelli che lo avevano più in odio per l’assedio subito). Ed è ancora più diversa la composizione della nazione: se la Libia è divisa tra clan rivali, che dire della Siria dove le minoranze religiose stanno apertamente con il regime? C’è infine da considerare il risultato finale. In Libia il rais non aveva grandi alleati. Gheddafi sarà rimpianto in Mali e Niger, suoi grandi beneficati, ma sarà sostituito senza immediati scossoni nel mondo. Faceva parte della tranche africana e meno importante della rivoluzione araba. La tranche mediorientale è tutta un’altra cosa. L’Iran non vuole la caduta del regime siriano. Il governo di Baghdad non lo vuole lo stesso, e così quello del Libano. Persino Israele, che preferisce un nemico sicuro alle incognite di una destabilizzazione universale, non vuole cambiamenti. Non chiedetevi per chi stia suonando il clacson, pensa Assad. Non è per me.

Corriere della Sera-Guido Olimpio: " Da Lockerbie a Ustica, i misteri sepolti con Rais "

Ustica, Lockerbie, stessa regia

WASHINGTON — Quando Brian Flynn ha visto le immagini di Gheddafi in mano ai ribelli ha detto: «Mi spiace che non possano ucciderlo due volte». Una reazione a caldo, pensando al fratello J.P. morto sul jumbo Pan Am esploso a Lockerbie, Scozia, nel 1998. Un attentato attribuito ai servizi libici. Ventiquattrore dopo Brian Flynn ha corretto il suo giudizio. Non sono completamente felice — ha detto — perché con la fine del Colonnello scompare una «montagna di segreti». E ha ragione. Se preso vivo il Raìs avrebbe potuto raccontare molto su una serie impressionante di attacchi. Lockerbie — 270 vittime — è il più importante. Il principale accusato, l'agente Al Megrahi, è stato rimandato dagli scozzesi in Libia perché «in fin di vita» e in cambio della promessa di contratti petroliferi. Ma ai familiari delle vittime lo 007 interessa fino a un certo punto. Due le domande che continuano ad angosciarli: chi ha dato l'ordine di piazzare la bomba? E oltre ai libici erano coinvolti altri attori? Il primo interrogativo chiama in causa lo stesso Gheddafi e il suo uomo della sicurezza, Abdallah Al Senussi, oggi rifugiato in Niger. Il secondo allunga sospetti sugli iraniani e un gruppo radicale pro-siriano. Da Londra, invece, speravano e — sperano — di capire dove sia finito Abdulmagif Ameri, un diplomatico responsabile della morte di una poliziotta britannica, Yvonne Fletcher, presa a fucilate dalla finestra dell'ambasciata libica. Ancora: Gheddafi avrebbe potuto dare informazioni sul sostegno garantito ai terroristi dell'Ira nord irlandese. In particolare sulle tonnellate di esplosivo al plastico ancora nascoste da qualche parte nell'Ulster e affidato agli «armieri» del gruppo.
Un reticolo di trame che non ha risparmiato neppure l'Italia. Come non pensare alla strage di Ustica con il Dc 9 Itavia distrutto dopo una battaglia aerea (era il 1980, 81 le vittime). Si è sempre sospettato che il vero obiettivo fosse il jet del Colonnello. Lui sicuramente sapeva molto, anche se la sua parola sarebbe stata accolta con sospetto. Diciamo che non era un teste affidabile. Ma forse, se catturato, avrebbe potuto aiutare a ristabilire una parte di verità. Così come era in grado di mettere la parola fine al giallo dell'imam Mussa Sadr, guida spirituale degli sciiti svanito dopo un viaggio in Libia nel 1978. I suoi seguaci hanno conservato in questi anni la speranza che fosse ancora in vita. Un ex giudice militare ha invece affermato, alla metà di settembre, che il religioso è stato assassinato dopo una furiosa lite con il Raìs. Il suo corpo è stato sepolto prima a Sirte, quindi a Sebha. Brutta fine anche per il giornalista che lo accompagnava. Poi il regime ha fatto partire alla volta di Roma un sosia dell'imam. Una brutta vicenda per la quale l'Italia è stata considerata — a torto o a ragione — complice del piano. L'inchiesta è comunque ancora aperta.
Dall'imam al «Serpente». Dal 1983 all'85 Roma è teatro di attentati devastanti del gruppo di Abu Nidal. I fedayn colpiscono diplomatici, l'aeroporto, il celebre Café de Paris. A coordinare gran parte degli attacchi è un professionista del terrore, Samir Kadr o Kadar, detto «il Serpente». Ex elettricista, diventato «ufficiale» di Abu Nidal, si trasferisce nella capitale italiana che diventa la sua base operativa. Ha un ufficio vicino a via Veneto e gestisce una società di copertura. Furbo, spietato, fa credere di essere morto in un attacco ma il trucco non funziona e le polizie europee lo cercano ovunque. Dopo la strage di Fiumicino (1985) si rifugia in Svezia con la moglie finlandese conosciuta proprio al Café de Paris. Dalla Scandinavia organizza il dirottamento di un jet americano a Karachi, azione che si conclude con un massacro. Il «Serpente», però, striscia via usando un'altra società — la Al Alamia — come paravento. Vende scarpe e auto, intanto aiuta il suo gruppo. E viaggia moltissimo. L'intelligence lo segnala in Bolivia, quindi in Sudan, infine a Tripoli. È lì l'ultimo indirizzo — si fa per dire — conosciuto. Un criminale protagonista di una campagna di sangue finanziata dai dollari del Colonnello.

Corriere della Sera-Davide Frattini: " Lo scontro per il dopo Gheddafi "

Un libico che voglia chiamare da Bengasi a Tripoli (e viceversa) deve comporre il numero con il prefisso internazionale. Le linee telefoniche guastate da otto mesi di guerra rendono ancora più lunghi da percorrere quei mille chilometri di costa che separano le due città. Adesso che Muammar Gheddafi è morto, Bengasi teme di venire riseppellita con lui nel ruolo della parente bistrattata. Che pure è la più ricca in famiglia: il 60 per cento della produzione di petrolio arriva dall'Est ed è in questa regione che si trovano i giacimenti ancora inesplorati come il bacino di Kufra, al confine con il Libano.
Risorse che questa volta la Cirenaica non vuol vedere zampillare verso la Tripolitania, com'è successo nei 42 anni di regime. Durante il conflitto, l'Arabian Gulf Oil Company ha garantito da Bengasi che il mercato non si fermasse del tutto. Ora la National Oil Company sta riprendendo il controllo delle operazioni. «Quelli di Tripoli si sentono asserragliati nel bunker di Gheddafi, la Bab al-Aziziya del nostro settore», commenta un manager dell'Agoco. «La fortezza va espugnata perché ridistribuiscano i profitti».
Anche il Consiglio transitorio sta per spostare il quartier generale nella capitale, un trasloco che il presidente Mustafa Abdul Jalil (originario della parte orientale) ha sempre rinviato per ragioni di sicurezza e adesso sembra voler posticipare per preoccupazioni di equilibrio politico. «Manterremo una base a Bengasi», assicura Abdul Hafiz Ghoga. Il governo provvisorio deve tenere insieme le due città rivali, le brigate ribelli di Misurata con quelle di Zintan, i miliziani islamisti con i combattenti più laici. Formare un nuovo esecutivo entro trenta giorni. Che organizzi da qui a otto mesi l'elezione di un'assemblea. Che scriva la Costituzione. Che verrà approvata in un referendum. Che porterà alle presidenziali nell'estate del 2013.
I libici non hanno mai votato e si troveranno ad affrontare un corso accelerato di democrazia. L'articolo 3 della legge 71, era Gheddafi, decretava la pena di morte per chiunque avesse formato o sostenuto un partito. «Eliminare un regime a volte è più semplice che costruire l'entità che ne prenderà il posto», commenta Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations. «I ribelli accomunati dalla lotta contro il dittatore presto si azzufferanno sul come organizzare e guidare il Paese che hanno ereditato».
Il campo più forte — calcola Noman Benotman, analista della fondazione Quilliam e fino al 2001 leader del Gruppo islamico combattente libico — sembra essere quello nazionalista: rappresenta il 40-50 per cento degli attivisti ed è capeggiato da uomini del regime che hanno lasciato in tempo Gheddafi. Tra loro, Jalil (già ministro della Giustizia) ed ex consiglieri del Colonnello come Abdul Salam Jallud. Gli islamisti raggiungerebbero il 20 per cento e vanno dai gruppi jihadisti (2 per cento) a formazioni politiche su modello dei Fratelli Musulmani (6 per cento). Una figura chiave è il predicatore Ali Sallabi.
Attorno ad Ali Tarhouni, ministro delle Finanze e del Petrolio, e al premier Mahmoud Jibril (che però ripete di non voler entrare in politica) si muovono i progressisti (20 per cento): sostengono il libero mercato e una legislazione più laica possibile. Hanno studiato all'estero e spesso sono stati costretti a rimanerci. Tarhouni ha dovuto lasciare la Libia nel 1973 (è stato condannato a morte in absentia) e come lui altri esiliati si preparano a rientrare nel Paese e a entrare nella sfida.
A Tripoli circolano ancora, sui furgoni fortificati dalle mitragliatrici, ventotto katibe. Ventotto storie diverse su come il regime sia caduto, su quale brigata ribelle abbia garantito la vittoria. I combattenti di Misurata e delle montagne di Nefusa proclamano «siamo stati noi». Gli abitanti della città raccontano invece dei loro mesi di lotta clandestina. Gli islamisti esaltano il ruolo del comandante Abdul Hakim Belhaj, nominato per acclamazione governatore militare della capitale.
«La presenza dei miliziani arrivati da tutte le province ricorda la situazione di Kabul all'inizio degli anni Novanta», scrive Michael Semple sulla rivista Foreign Affairs. «Per ora in Libia i vari gruppi sembrano voler raggiungere i propri obiettivi pacificamente». «Le milizie devono essere smantellate (con cautela) o integrate nelle nuove forze armate. Ancora non è chiaro a chi rispondano, da chi prendano ordini», avverte Alex Warren di Frontier Mea.
Gli uomini di Misurata e Zintan non accettano il comando di Belhaj. L'esercito è visto come un lascito del passato e pochi sono disposti a indossare la divisa. All'inizio del mese i primi 500 cadetti sono usciti dal corso di addestramento, ognuno con il suo fucile mitragliatore. Le armi che circolano sono molte di più, il governo provvisorio sta cercando di recuperarle o almeno registrarle. Negli ultimi mesi Gheddafi ha contribuito alla militarizzazione delle strade: credeva di avere il popolo dalla sua parte o voleva aizzare il caos e ha distribuito 18 mila tra kalashnikov e pistole. Sono ancora in giro.

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