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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio - La Repubblica - L'Unità Rassegna Stampa
19.10.2011 Gilad Shalit: cronaca e interviste
di Daniele Raineri, Shahira Amin, Alix Van Buren, Umberto De Giovannangeli

Testata:Il Foglio - La Repubblica - L'Unità
Autore: Daniele Raineri - Shahira Amin - Alix Van Buren - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Shalit parla alla tv egiziana, gli ultimi 20 minuti in cattività - La gioia di Yehoshua: Parole di speranza dopo tante tenebre - Cinque anni in isolamento e fino all´ultimo ho temuto. Adesso ricomincio a vivere - È giusto trattare col nemico: l’alternativ»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 19/10/2011, a pag. 3, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Shalit parla alla tv egiziana, gli ultimi 20 minuti in cattività ". Da REPUBBLICA, a pag. 20, l'intervista di Shahira Amin a  Gilad Shalit dal titolo " Cinque anni in isolamento e fino all´ultimo ho temuto. Adesso ricomincio a vivere ", l'intervista di Alix Van Buren a A. B. Yehoshua dal titolo " La gioia di Yehoshua: Parole di speranza dopo tante tenebre ". Dall'UNITA', a pag. 23, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Massimo D'Alema dal titolo " È giusto trattare col nemico: l’alternativa è la guerra ", preceduta dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Shalit parla alla tv egiziana, gli ultimi 20 minuti in cattività "


Daniele Raineri

La foto in alto a destra è stata scattata a Gilad Shalit durante la sua prima intervista, quella nel corso della quale avrebbe dichiarato di stare bene, stando alla traduzione della tv egiziana.
Come scrive Raineri : "
Domande in inglese, risposte in ebraico, traduzione in arabo poco affidabile. “Tutto quel che è accaduto non mi ha fatto bene” è diventato: “Sto bene”. Alla fine dell’intervista è partito l’inno nazionale palestinese. ". La risposta ambigua di Gilad Shalit, comunque, è ben spiegabile osservando l'immagine (cliccare sul link http://elderofziyon.blogspot.com/2011/10/one-reason-shalit-looked-so-ill-at-ease.html per vedere video e altre immagini). Alle spalle di Shalit un terrorista di Hamas incappucciato. Difficile parlare con franchezza delle modalità del rapimento con alle spalle i propri rapitori.
Ecco la cronaca:

Il Cairo, dal nostro inviato. Quando ieri l’unico soldato israeliano a tornare vivo dalla prigionia negli ultimi 26 anni, Gilad Shalit, è stato consegnato da Hamas ai militari egiziani, ha dovuto subire venti minuti supplementari di cattività. Un’intervista seduto e in esclusiva con la tv di stato dell’Egitto, con un uomo di Hamas in passamontagna e armato alle sue spalle, non inquadrato, mentre gli altri cronisti pazzi di frustrazione erano tenuti alla larga dalla tenda dello scambio. L’intervistatrice è stata Shahira Amin, non famosa tra i telespettatori nazionali – perché lavora in inglese e non in arabo – ma ricordata abbastanza bene fuori perché durante la rivoluzione a febbraio lasciò la tv di stato disgustata dalle menzogne che era costretta a pronunciare a favore del regime di Hosni Mubarak. L’intervista è stata chiesta dal ministero egiziano dell’Informazione a quello dell’Intelligence e lancia all’audience mondiale (soprattutto agli americani) un messaggio chiaro da parte del governo del Cairo: guardate, non siamo più il regime di prima, Shahira Amin è tornata tra noi, e siamo stati così preziosi durante i negoziati tra Hamas e Israele che oggi – nel mezzo di uno scambio di prigionieri programmato al minuto tra due fronti che si combattono a morte – abbiamo chiesto e ottenuto di inserire uno scoop a favore della nostra tv di stato. In Israele hanno reagito con furia, definendo le domande della Amin “le più stupide del secolo”. Una è stata: “Perché una sola intervista in questi cinque anni?”. Un’altra: “Ora che hai patito la prigionia, ti auguri la liberazione per i detenuti palestinesi?” (suggerendo che le due situazioni siano uguali e comparabili: ma i carcerieri di Shalit hanno negato qualsiasi contatto esterno e hanno respinto le richieste di visita da parte della Croce Rossa internazionale). Domande in inglese, risposte in ebraico, traduzione in arabo poco affidabile. “Tutto quel che è accaduto non mi ha fatto bene” è diventato: “Sto bene”. Alla fine dell’intervista è partito l’inno nazionale palestinese. E’ discutibile se il canale di stato dell’Egitto sia riuscito con il suo scoop artificiale a riguadagnare consensi internazionali, considerato che dieci giorni fa ha distorto in modo irrimediabile la notizia di una strage di cristiani, investiti deliberatamente dai blindati dell’esercito e gettati nel Nilo proprio davanti alle finestre del palazzo della televisione. Ma è stato ovvio fin da subito quello che sarebbe accaduto durante tutta la giornata: le parti del Grande scambio avrebbero provato a ottenere il massimo vantaggio d’immagine possibile. Lo scopo di Hamas era chiaro, riconquistare visibilità e prestigio politico rispetto all’Anp. “Abu Mazen non sarebbe riuscito a fare un accordo così nemmeno in un milione di anni”, ha proclamato Mohammed Zahar, il portavoce più alto in grado di Hamas. Ieri il primo fotogramma di Gilad Shalit lo ha mostrato scendere da una macchina assieme ad Ahmad Jabari, il capo dell’ala militare del gruppo palestinese, presente fino all’ultimo minuto per rivendicare per sé e per i più bellicosi di Hamas la paternità dell’accordo. Dalla fine di luglio a ottobre, Jabari ha negoziato al Cairo, ma è un irriducibile: è tra i comandanti che hanno strappato la Striscia di Gaza dalle mani dell’Autorità nazionale palestinese, è salito al vertice del gruppo nel 2008 assieme a un drappello di altri duri, terrorizzano i possibili rivali, è stato protagonista di sanguinose faide interne. La sua retorica è stata citata due anni fa come segnale d’allarme preoccupante, “con gente così – era il senso dell’analisi israeliana – non sarà mai possibile fare la pace”. Sfuggito per un soffio a uno strike mirato dell’aviazione nel 2004, ha rifiutato per due volte di incontrarsi nella capitale egiziana con il capo dello Shin Bet, Yoram Cohen. Per Jabari la liberazione di Shalit fa parte della guerra contro i palestinesi moderati almeno quanto fa parte della guerra contro Israele. Eppure ieri nel centro di Gaza city a piazza Khatiba le bandiere gialle di Fatah, il partito del rais Abu Mazen, pareggiavano in numero o forse superavano leggermente quelle verdi di Hamas attorno al palco montato per i festeggiamenti ufficiali. Il gruppo palestinese aveva annunciata una piazza “da un milione di persone”, ma secondo Tom Marshall, inviato di Sky news, erano molti meno, tanto da far sembrare esagerata anche la cifra del canale arabo al Arabiya – duecentomila. I soldati di Hamas con divise messe a nuovo e bandiere hanno fatto da guardia d’onore all’arrivo degli autobus con i prigionieri liberati, ma Marshall racconta di averli sentiti zittire bruscamente i suoi vicini palestinesi, colpevoli di parlare bene di Fatah. Resta da vedere quanto durerà l’impatto emotivo della liberazione. Secondo un sondaggio di cui ha scritto la settimana scorsa il magazine Time, la maggior parte degli abitanti di Gaza oggi voterebbe Fatah. “Sono contro ma non c’è altro modo” I negoziatori da parte egiziana sono stati due. Il ministro dell’Intelligence dalla bella faccia da attore, Murad Muwafi, e il generale Nasir el Assar, che al tempo del rapimento di Shalit era console egiziano nella Striscia di Gaza e oggi dentro i servizi si occupa del dossier Israele. Entrambi i nomi sono destinati a ritornare nelle cronache dell’Egitto dopo rivoluzione, perché hanno in mano responsabilità chiave e sembrano gli unici, nel lungo mandato della giunta militare, a sapere quello che stanno facendo. Il loro intervento si è affiancato a quello dei negoziatori dei servizi tedeschi. Berlino in questi anni s’è accollata la mediazione discreta nei teatri più spinosi: dalle trattative tra Israele e il gruppo libanese Hezbollah ai recenti round preliminari – molto preliminari – tra americani e talebani. In particolare, un loro agente che parla arabo con speditezza e frequenta con disinvoltura le stanze che contano in medio oriente avrebbe tenuto in vita il negoziato quando sembrava morto. Il negoziatore israeliano si chiama David Meidan. Ex agente del Mossad, ora inviato speciale dell’ufficio del primo ministro, ha preso l’incarico dalle mani di Ofer Dekel e Hagai Hadas, due esperti ufficiali dei servizi che hanno tentato e fallito prima di lui. Prima di accettare la missione fu convocato dal premier Benjamin Netanyahu: “Sono contrario a questo accordo, sono contrario a negoziare con i terroristi, sono contrario a rilasciar terroristi dalle prigioni. Ma non c’è altro modo di far tornare Gilad Shalit a casa e ormai è tempo”. Che poi è la sintesi dei commenti favorevoli al negoziato apparsi ieri sui giornali israeliani per rispondere alle critiche delle famiglie delle vittime del terrorismo: Israele non lascia nulla di intentato per fare tornare i propri uomini a casa. L’intuizione migliore di David Meidan è stata quella di preferire l’Egitto alla Turchia come mediatore – scrive Ron Ben Yishai sul quotidiano Yedioth Ahronot. Al Cairo, in due stanze attigue con i generali che facevano continuamente la spola. Sei round negoziali. Meidan da solo, Jabari accompagnato da un vice e da due osservatori del cosiddetto politburo del leader in esilio Khaled Meshaal. Fino a ottenere una proposta scritta che è stata portata a Netanyahu.

La REPUBBLICA - Shahira Amin : " Cinque anni in isolamento e fino all´ultimo ho temuto. Adesso ricomincio a vivere "

per capire il contenuto di ipocrisia contenuto nelle parole della intervistatrice, leggere l'ottimo pezzo di Daniele Raineri sul FOGLIO, in testa a questa pagina, che racconta in quale atmosfera si è svolta.


Gilad Shalit durante l'intervista, Shahira Amin

Gilad, sembra che tu stia bene. Come ti senti?
«Sono molto emozionato, non mi sento molto bene... Uscire fuori, incontrare così tante persone. Insomma, non ho visto gente per molto tempo. Sono molto emozionato. Adesso comunque comincio a stare meglio».
Sei libero...
«Sì, è difficile crederlo dopo cinque anni».
Come hai passato la prigionia? Come si sono comportati con te? Eri in isolamento?
«Sì, ero in isolamento, ma vedevo alcune persone. Vivevo con alcune persone. Negli ultimi tempi mi trattavano meglio».
Cinque anni e quattro mesi di prigionia sono un periodo molto lungo. Eri convinto che un giorno saresti stato liberato?
«Ho sempre creduto che ci fosse una possibilità. Ma ho anche pensato che mi sarei potuto trovare in questa situazione ancora per molti anni. E questo non mi faceva sentire bene».
Come hai ricevuto la notizia della tua liberazione? Come hai reagito?
«Ho ricevuto la notizia circa una settimana fa (lo stesso giorno in cui è stata data in Israele, ndt) ma lo avevo già intuito il mese scorso».
Sei stato contento quando lo hai saputo?
«Ne sono stato felice, ma ho temuto che ci sarebbero state delle complicazioni e che mi sarei potuto trovare lì ancora per molti anni».
Perché in questi anni sei stato visto una volta sola?
«Questo non lo deve chiedere a me. In ogni caso penso sia stato per ragioni di sicurezza. Loro (Israele) volevano che scrivessi lettere, incontrassi la Croce Rossa ma gli altri (Hamas) non hanno voluto, per via della sicurezza».
Ti è sembrato di essere stato dimenticato con il passare del tempo?
«Ho sempre saputo che la mia famiglia e molta altra gente in Israele stavano facendo tutto il possibile per liberarmi e poi lo sentivo dai notiziari»,
Allora seguivi le notizie?
«Sì, avevamo la televisione e la radio».
Sono stati gli egiziani a mediare per la tua liberazione. I precedenti tentativi di negoziato sono falliti, compresi quelli dei tedeschi. Perché secondo te questa volta è andata bene?
«Credo che gli egiziani ci siano riusciti perché sono in buoni rapporti sia con Hamas sia con Israele e si sono molto impegnati... Prima della rivoluzione del Cairo i rapporti fra Hamas ed il precedente regime erano meno buoni. Ringrazio l´Egitto».
Che cosa ne pensi della trattativa che ha portato alla tua liberazione e nell´ambito della quale sono stati liberati più di mille detenuti palestinesi, soprattutto alla luce delle critiche che si sono levate da parte del pubblico israeliano?
«Se volevano salvarmi... non c´era altra possibilità se non di pagare quel prezzo».
Che cosa ti è mancato di più durante la prigionia? E qual è la prima cosa che vorresti fare quando arriverai a casa?
«Naturalmente ho avuto nostalgia della mia famiglia e avevo voglia semplicemente di uscire, di incontrare gente, di parlare con le persone, di vedere, di fare delle cose. Non stare sempre seduto tutto il giorno e fare le stesse cose».
Che cosa ti ha insegnato questa prova? Ti ha reso più forte?
«La lezione è che è possibile liberare... E´ possibile concludere una trattativa in un periodo più breve...».
Gilad, tu sai che cosa significhi essere in prigionia. Ci sono oltre 4000 palestinesi incarcerati in Israele. Darai una mano alla campagna per la loro liberazione?
«Sarei molto contento che fossero liberati, ma a patto che non ricomincino a combattere contro Israele, che questo avvenga nell´ambito di un processo di pace e che non vi siano più guerre o conflitti».
Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
«Spero molto che questa vicenda promuova la pace e che non vi siano altri scontri e guerre fra Israele ed i palestinesi».
Vuoi aggiungere ancora qualcosa?
(Shalit fa cenno di no)
Gilad Shalit, molte grazie...

La REPUBBLICA - Alix Van Buren : " La gioia di Yehoshua: Parole di speranza dopo tante tenebre "


Gilad Shalit torna a casa, A. B. Yehoshua

Avraham Yehoshua, al telefono da Haifa, sbuffa. Non ne può più - dice - di ascoltare «le frasi trite su Shalit, mentre quel che più conta è il suo appello di pace, la speranza per il futuro». Il Faulkner israeliano, il narratore dei tormenti della società (il romanzo La cella perduta esce fra un mese in Italia per l´Einaudi) vuole concentrarsi sulla «catarsi ottenuta dopo tanta attesa».
Signor Yehoshua, lei si è battuto in prima persona per il ritorno di Shalit. E oggi non celebra?
«Certo che esulto, come la stragrande maggioranza degli israeliani i quali, però, non vogliono polemiche. Per anni la famiglia Shalit ha animato una campagna straordinaria, ha trasfigurato il soldato Gilad, rendendolo il figlio di ciascuno di noi, della nazione».
Lei, cosa ricorderà di questo giorno?
«Resteranno le parole di Shalit: il suo desiderio di pace fra i due popoli; l´augurio che vengano rilasciati anche gli altri prigionieri palestinesi. Mi è piaciuto molto quel che lui ha detto: un messaggio di luce sulle labbra del ragazzo appena emerso dalle tenebre. Mi auguro davvero che tutto questo non debba ripetersi».
Cosa glielo fa sperare?
«La concreta possibilità di trattare una tregua permanente con Hamas, di sollevare l´assedio di Gaza, di congelare gli insediamenti israeliani, di riavviare il negoziato sulla soluzione dei due Stati. Di costruire, insomma, un nuovo futuro. Tutto questo me lo detta anche la memoria di altre liberazioni».
Quali?
«Il rilascio di altri prigionieri palestinesi: dopo anni nelle nostre carceri, alcuni dei loro leader si sono convertiti alla pace. In cella hanno studiato la lingua ebraica, hanno conosciuto la nostra società. Pensi a Mandela: dopo 26 anni dietro le sbarre, non ha coltivato l´amarezza. Si è impegnato a costruire un Sudafrica multirazziale, democratico. Fra le centinaia di palestinesi, che oggi festeggiano quanto noi, qualcuno forse starà rimuginando i miei stessi pensieri».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " È giusto trattare col nemico: l’alternativa è la guerra "


Massimo D'Alema a braccetto con Hezbollah, Gilad Shalit con Bibi Netanyahu

Massimo D'Alema dichiara che  "La vicenda-Shalit dimostra che con i nemici si tratta, perché l'unica alternativa al negoziato è la guerra. Mi fa piacere che alla fine di questa storia a ritrovare la libertà siano anche un migliaio di palestinesi, gran parte dei quali non possono essere considerati dei terroristi.". La vicenda di Gilad Shalit dimostra tante cose, la più evidente è che Hamas è un'associazione terroristica che rapisce israeliani sul suolo israeliano per barattarli con criminali e terroristi.
D'Alema, come i compagni del quotidiano comunista, ama far passare i 1027 terroristi palestinesi come vittime di Israele. Niente di più lontano dalla verità. Ma da una persona che si fa fotografare a braccetto con Hezbollah non c'era da aspettarsi un giudizio diverso.
D'Alema, da sempre fautore del dialogo con Hamas (come sia possibile per Israele dialogare con un'associazione terroristica che rifiuta di riconoscerlo, non è dato saperlo), dichiara : "
Colpisce che il Governo israeliano abbia negoziato con Hamas, mentre non sembra voler offrire una base realistica ad una trattativa, seria, con l'Anp del presidente Abu Mazen.". Gilad Shalit era prigioniero di Hamas, non di Mahmoud Abbas e dell'Anp. Per questo Israele non l'ha considerato come interlocutore. E non è ben chiaro perchè avrebbe dovuto essere diverso.
Ecco l'intervista:

Questa vicenda, conclusasi positivamente, dimostra che con i nemici si tratta, perché l'unica alternativa al negoziato è la guerra. Spero che la liberazione di Gilad Shalit e dei detenuti palestinesi non resti un episodio isolato e che possa innescare una fase nuova, positiva. Maciò non è scontato».
A sostenerlo è Massimo D'Alema, che ai tempi del rapimento del caporale di Tsahal era titolare della Farnesina.
«L'altra faccia della medaglia – annota D'Alema – è il rischio che agli occhi dei palestinesi Hamas venga vista come la forza vincente, perché rapisce, e l'Anp di Abu Mazen marginale, inefficace, perché dalla scelta del dialogo non ottiene risultati concreti».
Nei giorni in cui ha inizio l'odissea di Gilad Shalit, lei era ministro degli Esteri. Quali i ricordi personali di una storia durata quasi 2000 giorni?
«Da subito sollecitammo una soluzione, ma eravamo consapevoli che le difficoltà, nel caso Shalit, nascevano dal fatto che l'interlocutore con cui occorreva fare i conti non era l'Autorità nazionale palestinese ma Hamas, e che qualsiasi accordo avrebbe dovuto coinvolgere questa organizzazione».
Per averlo sostenuto,lei ha subito pesanti critiche...
«Sono stati attacchi strumentali. In Italia si polemizzò anche sul fatto che noi sollecitavamo contatti con Hezbollah, senza considerare, o facendo finta di ignorare, che Hezbollah era una delle forze politiche più importanti del Libano e che partecipava anche con i suoi ministri al governo del Paese. Con chi avremmo dovuto negoziare la tregua in Libano? La vicenda-Shalit dimostra che con i nemici si tratta, perché l'unica alternativa al negoziato è la guerra. Mi fa piacere che alla fine di questa storia a ritrovare la libertà siano anche un migliaio di palestinesi, gran parte dei qualinonpossono essere considerati dei terroristi. C'è però un rischio che non va sottaciuto... ».
Di quale rischio si tratta?
«Che agli occhi dei palestinesi passi l’idea che Hamas vince perché rapisce e tratta su posizioni di forza con Israele, mentre Abu Mazen, con la sua linea del dialogo, è perdente perché non porta a casa alcun risultato tangibile. Nonpossiamo correre il rischio che la leadership moderata diAbuMazenvenga drammaticamente indebolita».
Su cosa si fonda questa preoccupazione?
«Colpisce che il Governo israeliano abbia negoziato con Hamas, mentre non sembra voler offrire una base realistica ad una trattativa, seria, con l'Anp del presidente Abu Mazen. Siamo in un momento estremamente delicato, in cui al governo israeliano di Benjamin Netanyahu si dovrebbero sollecitare proposte positive, aperture sostanziali, e non limitarsi solo alla registrazione dei tanti “no”. Come non vedere che la politica dei fatti compiuti portata avanti dalle autorità israeliane – penso alla colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est – rischia di rendere vuota la prospettiva di una pace fondata su dueStati? C'è una iniziativa del Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia, ndr) che non sembra ridursi ad un generico appello alle due parti perché riaprano il tavolo negoziale. Il Quartetto chiede a Israele e all'Anp di avanzare proposte concrete sulle questioni cruciali per un accordo di pace: confini, status di Gerusalemme, sicurezza per Israele, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, sapendo che il tempo non lavora per la pace e che il dialogo non può essere fine a se stesso ».
In molti, sia in Israele che nei Territori, invocano un ruolo attivo dell'Europa. Lei che ne pensa?
«Purtroppo non se ne vedono i segni, ma, certo, sarebbe auspicabile un protagonismo dell'Ue, soprattutto nel momento in cui gli Stati Uniti appaiono sostanzialmente bloccati. Il presidente Obama, agli inizi di settembre, aveva fatto osservazioni condivisibili sui confini, sulla prospettiva dei due Stati, ma il giorno dopo il Congresso americano ha applaudito Netanyahu che rispondeva negativamente alle sollecitazioni della Casa Bianca. Le difficoltà di Obama sono legate soprattutto alla politica interna, e in questo scenario l'Europa dovrebbe farsi avanti, parlando con una sola voce e praticando in Medio Oriente una strategia condivisa...».
Invece?
«Invece l'Europa rischia di spaccarsi in tre alle Nazioni Unite sul riconoscimento dello Stato palestinese, mentre, a mio avviso, dovrebbe sostenere la richiesta di Abu Mazen, perché rigettarla significherebbe dare un colpo forse mortale alla leadership moderata palestinese e far sì che la prospettiva di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati” perda ogni credibilità».

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