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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa-Il Foglio Rassegna Stampa
02.04.2011 Chi sta dalla parte di Gheddafi
Da New York Maurizio Molinari, Mattia Ferraresi

Testata:La Stampa-Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari-Mattia Ferraresi
Titolo: «Farrakhan, Gheddafi è un fratello-Qualche dettaglio sul mistero dei morti civili nei bombardamenti libici»

Due articoli sulla Libia oggi, 02/04/2011, il primo sulla STAMPA, a pag.7, di Maurizio Molinari, interessante perchè ci ricorda i milioni di dollari versati da Gheddafi al leader del movimento musulmano americano, e noto antisemita, Louis Farrakhan. Il secondo, di Mattia Ferraresi, sul FOGLIO, a pag.1/4, sulla situazione libica vista dagli Usa.
Ecco i pezzi:

La Stampa-Maurizio Molinari: "Farrakhan, Gheddafi è un fratello"


Louis Farrakhan

New York-«Barack ti sbagli, Gheddafi è un mio amico, un fratello musulmano e non voleva certo uccidere 700 mila persone». A tendere la mano al colonnello di Tripoli, messo all’indice dalla comunità internazionale, è Louis Farrakhan, leader della Nazione dell’Islam, il movimento dei musulmani afroamericani spesso protagonista di duri attacchi contro il governo federale. Per vestire i panni di difensore di Gheddafi, Farrakhan sceglie la moschea Maryam, quartier generale della sua organizzazione a Stony Island, Chicago. Di fronte ha un pubblico di fedeli e fedelissimi, Farrakhan si presenta in completo scuro, camicia bianca e papillon celeste. Parla con tono affranto: «Per me è una cosa terribile sentir chiamare il fratello Gheddafi con tutti questi appellativi brutti e ripugnanti nei quali io non lo riconosco».

Il predicatore ammette di aver ricevuto in più occasioni fondi per milioni di dollari da Gheddafi - che ha sempre visto nella Nazione dell’Islam uno strumento di penetrazione negli Stati Uniti - e non rinnega tale legame, anzi si chiede: «Che tipo di fratello sarei se rifiutassi ora di alzare la voce in favore di chi mi ha aiutato quando ne avevo bisogno?». I primi finanziamenti di Tripoli a Farrakhan risalgono al 1971, quando 3 milioni di dollari vennero adoperati per acquistare la sede della Nazione dell’Islam, e in seguito arrivarono altri 5 milioni sotto forma di «prestiti, dei quali non ha mai chiesto la restituzione».

Da qui all’affondo verso Barack Obama, da lui sostenuto nel 2008, il passo è breve, ma Farrakhan sceglie un approccio teso a distinguere il presidente afroamericano dal governo federale. «Il fratello Obama è caduto vittima di un pericoloso inganno», assicura il predicatore, chiamando in causa dei «poteri che hanno oscurato la sua vista», spingendolo a seguire «politiche errate che si propongono di allontanare il fratello Gheddafi non dal potere ma dalla Terra».

L’esempio che fa per mettere all’indice tali «gravi errori» è l’accusa sollevata da Obama a Gheddafi di voler fare strage a Bengasi. Si tratta della motivazione della risoluzione Onu 1973 sulla no fly zone e la protezione dei civili. Farrakhan la smonta così: «Chi può mai credere che un uomo come Gheddafi abbia voluto portare la morte in una città di 700 mila persone?». Ciò che più non tollera è vedere Obama sfidare i dittatori: «Come osi sfidarli? Quando mai all’America non sono piaciuti? Dal 1950 al 1984 abbiamo sostenuto una schiera di colpi di Stato».

Farrakhan, che risiede a Chicago nello stesso quartiere di Hyde Park del South Shore dove gli Obama hanno casa, svela di aver parlato al presidente «ammonendolo a fare attenzione nel compiere passi capaci di distruggere il futuro dell’Africa e del Medio Oriente». Ma evidentemente Barack non gli ha prestato molta attenzione: «Amo Gheddafi come amo il nostro presidente, mi duole vedere politiche che vogliono eliminare Gheddafi». Da qui la richiesta finale al «fratello Barack»: «Apri gli occhi, è il tuo governo a non essere pulito, è pieno di gangster che derubano le nazioni deboli e abbattono quelle ricche».

Il Foglio-Mattia Ferraresi: " Qualche dettaglio sul mistero dei morti civili nei bombardamenti libici "


Obama e Gheddafi

New York. I ribelli libici sono disposti a negoziare una tregua con Muammar Gheddafi, a condizione che “le sue truppe si ritirino immediatamente dalle città e lascino al popolo libico la libertà di scegliere”. La manovra di avvicinamento è stata annunciata ieri pomeriggio dal capo del consiglio per la transizione nazionale, Mustafa Abdul Jalil, in una conferenza stampa con l’inviato dell’Onu, Abdul Illah Khatib. Dopo giorni di scontri in cui i lealisti hanno rovesciato l’inerzia della battaglia a loro favore, mostrando tutti i limiti militari dei ribelli (“Se gli scontri proseguono avremo bisogno di aiuto”, ha ammesso Jalil) guadagna campo la possibilità di un accordo per il cessate il fuoco, a cui da Londra sta lavorando anche Mohammed Ismail, consigliere di Saif al Islam, figlio di Gheddafi, inviato in terra britannica per trattare una possibile tregua. Le avvisaglie di una svolta politica si sovrappongono alle notizie sulle vittime civili dei bombardamenti, assenti paradossali dalla narrazione di questa guerra profumata di Barack Obama. E’ singolare nel conflitto di Libia la scomparsa dei tragici conteggi che accompagnano anche i conflitti ispirati a ideali rotariani e condotti con bombardamenti chirurgici; l’assenza complementare è quella del segugio collettivo, figura che in ogni conflitto portato dall’occidente accorre alla ricerca delle vittime innocenti dell’imperialismo per denunciarne i misfatti. Il vicario apostolico di Tripoli, Giovanni Martinelli, è stato il primo a porre il problema: i bombardamenti della Nato hanno fatto “dozzine di morti fra i civili a Tripoli”, ha detto, costringendo il comando ad aprire un’inchiesta. Parlando con il Foglio Martinelli aggiunge nuovi dettagli: “Stamattina ci sono stati quaranta militari uccisi dalle bombe a Sirte e otto vittime tra donne e bambini. In più, all’ospedale di Tripoli ci sono stati in un giorno solo cinquanta aborti. Mi dicono i medici che sono donne che hanno subito un trauma dai bombardamenti e per questo hanno abortito”.“La vita sociale – continua Martinelli – oggi è finita in tutto il paese. Non c’è benzina. Il cibo inizia a scarseggiare. Non so quanto si potrà resistere. Non bombardano più a Tripoli per ora ma sentiamo in lontananza i bombardamenti nelle città vicine”. Alla preoccupazione per i civili del vicario apostolico si aggiunge un reportage della Bbc, secondo cui un raid della coalizione ha fatto sette morti fra i civili in un villaggio vicino a Brega. Secondo la ricostruzione dell’episodio, tutte le vittime avevano “fra i dodici e i vent’anni”. Anche su questo attacco la Nato sta indagando. Il conflitto sul numero delle vittime civili è parte dell’essenza stessa della guerra; in ogni conflitto si annida un sottoconflitto fatto di propagande opposte circa i massacri di innocenti che a seconda delle esigenze vengono presentati ora come inevitabili danni collaterali di operazioni giuste e circoscritte, ora come arbitrari massacri dell’impero che schiaccia il popolo oppresso. Ma la guerra di Obama sembra troppo profumata per non alterare pesi e misure del racconto: le vittime civili non solo vengono negate a livello ufficiale, ma gli stessi osservatori che in Afghanistan e Iraq bramavano morti innocenti da esibire come prova dei misfatti di Bush, in Libia si stanno accostando ai piaceri dello scetticismo. Di fronte alle diciotto vittime mostrate dagli uomini di Gheddafi in un ospedale, l’inviato di Repubblica Vincenzo Nigro ha sottolineato esclusivamente l’aura propagandistica: “Nessuno ha potuto fare domande, vedere il luogo in cui i missili li avrebbero colpiti, vedere se i corpi magari avevano i segni di proiettili, erano morti in altri scontri. Stessa storia il pomeriggio, ai funerali di altri corpi sconosciuti, senza familiari, senza nomi o dettagli. Il fetore era poderoso, segno che quei corpi non erano stati uccisi nella notte, ma per il governo erano vittime degli ‘aerei dei crociati’”. Sembra strano che un giornale immerso nella cultura liberal sia così perfettamente allineato sulle posizioni di Bob Gates, il capo del Pentagono che prima dell’era Obama ha servito sotto l’Amministrazione Bush. Più realista invece la versione di David Wood, giornalista del grande aggregatore liberal, l’Huffington Post, che dopo aver parlato con piloti di aerei e ufficiali del Pentagono è arrivato a una conclusione semplice: in un conflitto aereo del genere è impossibile evitare di fare vittime fra i civili, soprattutto se entrambi gli schieramenti combattono con gli “stessi vecchi mezzi sovietici”. Eppure della foga colpevolista verso l’occidente si sono perse completamente le tracce, così come si sono perse tempo fa a proposito della più imponente campagna di bombardamenti su un paese alleato della storia recente, quella ordinata da Obama sul Pakistan. Ma le guerre di Obama sono così profumate che i dettagli improvvisamente sfuggono.

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