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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
30.03.2011 Libia, Gheddafi vada in esilio
analisi di Redazione del Foglio, André Glucksmann, Christian Rocca

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore
Autore: Redazione del Foglio - André Glucksmann - Christian Rocca
Titolo: «La cupola dei 'professori' che piace all’estero - Le 'tracce' di al Qaida nella cantina della rivolta - Gratti Obama e in fondo trovi George W. Bush»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 30/03/2011, a pag. 3, due articoli titolati "  La cupola dei “professori” che piace all’estero " e " Le “tracce” di al Qaida nella cantina della rivolta". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-50, l'articolo di André Glucksmann dal titolo " Le primavere dei popoli vanno difese ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 14, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " Gratti Obama e in fondo trovi George W. Bush ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - "  La cupola dei “professori” che piace all’estero "


 Mahmoud Jibril

Roma. Il volto occidentalizzante dei ribelli libici è quello di Mahmoud Jibril, ricevuto con tutti gli onori da Nicolas Sarkozy all’Eliseo e da Hillary Clinton a Washington. E’ lui a guidare il governo di transizione. Jibril è un tecnocrate sessantenne che è stato per molti anni l’uomo decisivo a Washington e Londra per conto del regime del colonnello Gheddafi. Jibril si muove a proprio agio nelle cancellerie occidentali. Negli Stati Uniti Jibril ha studiato con Richard Cottam, l’ex agente della Cia in Iran oggi fra i massimi esperti di medio oriente. Jibril ha curato il “soft power” dei ribelli anti Gheddafi, tra cui la formazione di una stazione televisiva. E’ lui il fautore della “Libyan Vision”, un progetto di democratizzazione del regime in chiave filoccidentale. Negli anni sotto Gheddafi, Jibril aveva lanciato un programma di studio all’estero degli studenti libici per l’interscambio con l’occidente. Come direttore dell’Ufficio nazionale per lo sviluppo economico del governo libico, Jibril aveva il compito di facilitare la penetrazione economica e politica angloamericana in Libia promuovendo un forte processo di privatizzazione e di liberalizzazione dell’economia nazionale. Dopo aver insegnato Pianificazione strategica e processi decisionali all’Università statunitense di Pittsburgh, Jibril ha portato le idee neoliberiste nei paesi arabi, ha scritto libri sulle riforme democratiche, per poi dedicarsi in Libia alla guida del Nedb, l’organizzazione governativa creata nel 2007 su impulso di “aziende di consulenza internazionali, prevalentemente americane e britanniche”. Dai cablogrammi di Wikileaks emerge il lavoro di lobbying che Jibril ha svolto negli ultimi anni nel tentativo di convincere il regime di Tripoli – in particolare il figlio del colonnello, Saif al Islam – ad adottare radicali riforme politiche ed economiche, a potenziare i rapporti economici con gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna), congelati da decenni, e a formare una classe dirigente filoccidentale. Alcuni media americani sottolineano però il fatto che Jibril è il volto non soltanto della moderazione della guida dei ribelli, ma anche della loro debolezza. Sette dei trentuno membri del consiglio provvisorio sono accademici. Li chiamano “i professori”. Per questo c’è il pericolo che gli islamisti fra le loro file possano approfittarne. Fra i presentabili c’è Abdul Jalil, l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi. Proprio in questo ruolo Jalil ha incassato le lodi occidentali per aver tentato di riformare il codice penale libico, uno dei più brutali al mondo secondo Freedom House. Gheddafi ha messo una taglia di 400 mila dollari sulla sua cattura. Abdul Hafez Ghoga è stato presidente dell’Associazione libica degli avvocati. Poi c’è il generale Omar al Hariri, che nel 1969 aiutò il colonnello a prendere il potere. Secondo il Wall Street Journal, la sua nomina è servita per portare ai ribelli il sostegno delle tribù. Nel 1975 Hariri tentò assieme ad altri militari un golpe contro Gheddafi. Alcuni di loro vennero giustiziati, mentre Hariri trascorrerà quindici anni in carcere, prima di essere rilasciato dal colonnello. Fra le guide dei ribelli c’è Ali Issawi, laureatosi a Bucarest sulla privatizzazione economica e decisivo nel programma di denazionalizzazione delle risorse libiche. Ci sono i dissidenti e i prigionieri politici, guidati da Ahmed al Zubair Ahmed al Sanusi, che ha trascorso tre decenni nelle carceri di Gheddafi, molti dei quali in isolamento. Fathi Mohammed Baja si è laureato negli Stati Uniti, mentre le donne sono rappresentate da Salwa al Dighaili, avvocato con familiari imprigionati. Fra gli intellettuali spicca Abdul Ilah Moussa al Meyhoub, il giurista autore di un libro che critica il “Libro verde” di Gheddafi, una sorta di trotskismo islamico con cui il colonnello ha plasmato la Libia da tre decenni.

Il FOGLIO - "  Le “tracce” di al Qaida nella cantina della rivolta"


Muammar Gheddafi

Roma. Il colonnello Gheddafi agita la paura di al Qaida in faccia al mondo e ai libici. E’ il suo strumento di propaganda preferito. Il 24 febbraio alla tv di stato ha spiegato le rivolte così: “E’ al Qaida che vuole creare un emirato islamico nel nostro paese. Gli uomini di Osama bin Laden hanno messo droghe nell’acqua, nello yogurt, nel cibo dei cittadini, che ora armati stanno devastando la città di Zawia”. Il 7 marzo intervistato dal quotidiano francese Le Journal de Dimanche ha minacciato l’occidente: “La situazione è grave per l’intero occidente e per tutti i leader europei del Mediterraneo, perché Bin Laden verrà a stabilirsi nel nord Africa e abbandonerà il mullah Omar in Afghanistan e in Pakistan. Ci sarà un jihad islamico di fronte a voi, nel Mediterraneo”. Il 15 marzo, in un’intervista all’inviato del Giornale Fausto Biloslavo, ha ribaltato l’intimidazione: “Potrei allearmi con al Qaida”. La minaccia di al Qaida in Libia è seria? Se fino a oggi se ne è parlato poco è perché le attività casalinghe dei volontari islamisti sbiadiscono a confronto del terrorismo di stato sponsorizzato da Gheddafi. Nero su nero non si nota. Nel 1986 il regime di Tripoli ordina ai suoi agenti di piazzare una bomba nella discoteca La Belle di Berlino, che uccide tre clienti e ne ferisce 220, in maggioranza soldati americani in libera uscita. Nel 1988 abbatte con una bomba nascosta tra i bagagli il volo Pan Am 103 sulla cittadina scozzese di Lockerbie, con 270 passeggeri a bordo. Nel 1989 si ripete contro il volo Uta 772 nel cielo del Niger, 171 passeggeri a bordo. Nel 2003 Gheddafi, dopo aver litigato in diretta tv con l’allora principe ereditario saudita Abdullah, organizza un attentato per assassinarlo. Prima del grande disgelo dei rapporti nel 2006, la Libia era stata dichiarata da Washington stato sponsor del terrorismo nel 1979, era stata bombardata dagli aerei di Ronald Reagan nel 1986 e aveva tagliato i rapporti diplomatici con la Gran Bretagna nel 1984, dopo che da un suo consolato a Londra qualcuno aveva sparato in strada contro una manifestazione di dissidenti politici, uccidendo una poliziotta. Il colonnello ha appoggiato l’eversione in Algeria, Egitto, Sudan, Zaire, Tunisia, Giordania, Marocco, Guatemala, El Salvador, Colombia, Pakistan, Bangladesh e Filippine. E’ vero, però, che l’area della ribellione anti Gheddafi coincide con l’area dell’attivismo filo al Qaida. La dimostrazione quasi scientifica arriva dai cosiddetti Sinjar records, i dati trovati dai soldati americani su un computer portatile preso a un leader di al Qaida ucciso nel 2007 al valico frontaliero di Sinjar, tra Iraq e Siria. Il leader si occupava del traffico di volontari stranieri che accorrevano a combattere e a farsi esplodere da tutto il mondo arabo e teneva un registro accurato della provenienza di ciascun volontario. L’Arabia Saudita è il primo paese esportatore di volontari qaidisti: subito dopo viene la Libia, con appena un quarto degli abitanti. Quasi uno su cinque dei terroristi arabi in Iraq è libico. Gli altri contingenti, da Siria, Yemen e Algeria, sono più ridotti e parecchio staccati nella classifica. Soprattutto, colpisce la densità per abitanti di volontari filo al Qaida. La città di Darna, ottantamila abitanti nella Libia orientale, inviò 52 volontari, più di Riad, capitale dell’Arabia Saudita con quattro milioni di abitanti, seconda in classifica. Un aspirante terrorista ogni 1.500 abitanti. Bengasi, oggi capitale della Libia liberata e della rivolta anti Gheddafi, inviò 21 suoi cittadini. Da Tripoli non andò nessuno. I Sinjar records registravano anche la vocazione dei volontari, se quella di combattere oppure di morire da “martiri” in operazioni suicide: dei 112 libici arrivati in Iraq, l’85 per cento dichiarò di volere morire da “martire”. E’ un paradosso della geopolitica: la “no fly zone” in questi giorni sta riparando la zona più virulenta e densa di jihadisti del mondo arabo, dove gli egiziani stanno trasferendo armi. Ieri il comandante americano che guida le operazioni Nato in Libia, James Stavridis, ha detto che ci sono “tracce di al Qaida” tra i combattenti e che “l’intelligence li sta monitorando”. Secondo Gary Gambill, ex direttore del Middle East Intelligence Bulletin, Darna e Bengasi tra il settembre 1995 e il luglio 1996 furono il centro di una furiosa guerriglia tra governo e islamisti, che comunque bruciò a bassa intensità durante tutti gli anni Novanta, fino a far dire a un esasperato colonnello Gheddafi che “quelli dell’islam politico sono una piaga peggiore dell’Aids”. La guerra di oggi, per loro, che non sono la componente più numerosa della ribellione, è come un secondo tempo degli scontri di allora. Per questo, l’alleanza di comodo tra l’occidente e gli islamisti anti Gheddafi non sarebbe una novità. L’ex ufficiale dei servizi segreti britannici David Shayler sostiene che Londra nel 1996 finanziò con 160 mila dollari un attentato del Gruppo di combattimento libico – islamisti più tardi confluiti in al Qaida – contro il rais, uno degli attentati più “quasi di successo”, che costò la vita a numerose sue guardie del corpo. In quegli anni, la collaborazione arrivò a un tacito patto di ospitalità e non aggressione tra gli estremisti libici bisognosi di asilo e il governo britannico, che tollerò la loro presenza nei quartieri della capitale. Dopotutto combattevano lo stesso nemico, il mandante della strage di Lockerbie. Fu la nascita del cosiddetto Londonistan. Chiedere aiuto all’uomo di Lockerbie Dopo l’11 settembre, la collaborazione cambiò di campo: a fianco di Gheddafi, e contro gli estremisti. Poche settimane dopo l’attacco, una squadra della Cia volò a Londra per ascoltare lo stesso uomo accusato di avere organizzato l’attentato a Lockerbie, il capo dell’intelligence libica Musa Kusa. Ai servizi americani e inglesi, il libico consegnò i dossier personali dei terroristi libici addestrati in Afghanistan e attivi dentro al Qaida. Nel dicembre del 2002, secondo i giornali di Londra, i dati arrivarono a trattare “centinaia di militanti islamisti e del gruppo di Bin Laden”. Fu l’inizio del disgelo con il regime di Tripoli, che poco dopo rinunciò al suo programma di armamento nucleare. In un’intervista al Sole 24 Ore ripresa dai media internazionali, un capo militare dei ribelli ammette che in passato ha reclutato 25 uomini nella Libia orientale per combattere in Iraq e in Afghanistan contro gli occidentali, e che “qualcuno di quegli uomini oggi combatte tra i ribelli contro Gheddafi”. Dalla Libia viene però anche la più clamorosa sconfessione di al Qaida da parte diun gruppo islamista. Nel novembre 2007 il leader libico Noman Benotman con una lettera aperta di contestazione che fece scalpore invitò i terroristi a interrompere tutte le loro attività.

CORRIERE della SERA - André Glucksmann : " Le primavere dei popoli vanno difese "


André Glucksmann

Le primavere dei popoli inciampano inevitabilmente nella forza delle armi. Fu così nel 1848, quando le insurrezioni europee dovettero piegarsi sotto il fuoco degli eserciti imperiali. Fu così nel 1956 per Budapest, nel 1968 per Praga, nel 1989 per Tien an Men. Oggi, la stessa sorte stava per toccare alle primavere arabe, quando Muammar Gheddafi ha deciso, per primo e per dare l’esempio, il ritorno all’ordine, qualunque sia il prezzo da pagare. Sono in gioco la sopravvivenza dei manifestanti libici, l’avvenire delle rivolte per la libertà a Sud del Mediterraneo e la sorte dei diritti dell’uomo in tutto il pianeta. Sappiamo che le autorità comuniste cinesi, inquiete, censurano qualsiasi riferimento al Cairo e a Tunisi in rivolta, mentre gli editorialisti russi si interrogano sulla possibilità di un contagio, che l’opposizione si augura, che Gorbaciov stima possibile e che il Cremlino curiosamente teme come la peste. L’intervento internazionale in Libia è cruciale, una parte del nostro futuro si rischia qui e adesso. Qualsiasi guerra è spietata. Un morto è un morto. Per chi non si attribuisce il potere di risuscitare i corpi, non esiste una guerra giusta. Ogni guerra è rischiosa: per quante precauzioni si possano prendere, i danni imprevisti sono moneta corrente e le azioni aeree, per quanto scrupolosamente mirate, non possono «santuarizzare» uno per uno i civili a terra. Provate a spiegare a una vittima «collaterale» che è giusto essere colpita! A meno che non si creda alla saggezza e all’onnipotenza di un Dio, nessuno può decretare che una guerra sia giusta, ci sono solo guerre necessarie o no. È per evitare il peggio che ci si autorizza il meno peggio. È per impedire il massacro annunciato di Bengasi e i «fiumi di sangue» promessi ai suoi 700 mila abitanti insorti che l’Onu, almeno stavolta, autorizza l’intervento aereo voluto dalla Francia di Sarkozy e dalla Gran Bretagna di Cameron. Primi a spiccare il volo, i piloti francesi hanno tolto l’assedio di Bengasi. Sì, non esistono attacchi «giusti» , ma alcuni sono necessari, riguardano la protezione di popoli in pericolo (Risoluzione dell’Onu 1973, marzo 2011). — alcuni fra cui io stesso, pensano: «finalmente!» . Quante ecatombe abbiamo lasciato che si perpetrassero per poi deplorare di non averle impedite? Quante Guernica, dopo il crimine franchista e nazista dipinto da Picasso? Ogni generazione può scandire le proprie vigliaccherie, da un non intervento all’altro. Enumerarle tutte è impossibile: ad esempio, dopo la caduta del Muro, per gli europei, c’è Srebrenica; per la comunità internazionale tutta intera, c’è il Ruanda, dove 10.000 tutsi al giorno furono giustiziati in tre mesi. La Risoluzione 1973 non garantisce affatto che questa pratica del laisser-tuer, lasciar-uccidere, non si produrrà più, ma soltanto che sarà più difficile accettarla. Che «in casa propria ciascuno è re» , non è più totalmente vero; il pretesto di sovranità assoluta, che lasciava ai tiranni le mani libere per sradicare, a loro piacimento, i cittadini dalle proprie terre, si è infranto. Ecco una Grande Prima geopolitica: il diritto universale di vivere e di sopravvivere si erge al di sopra del diritto sovrano di uccidere. Altri brontolano e fingono di non sentire. I russi e i cinesi, astenutisi insolitamente dal loro diritto di veto, non avendo quindi bloccato il Consiglio di sicurezza dell’Onu, attendono febbrilmente che il piano dei liberatori fallisca. Come al solito, il più irritato è Vladimir Putin: riprende parola per parola le affermazioni di Gheddafi; denuncia una «crociata medievale», » , poi versa come lui lacrime di coccodrillo sulle vite innocenti spezzate dalle bombe occidentali. Giudicando tale esagerazione nociva agli interessi internazionali di Mosca, l’altro pilastro della «tandem-democrazia» , il presidente Medvedev, disapprova il vocabolario usato da Putin che la vox populi russa, invece, approva al 70%. Mentre l’impostore del Kgb-Fsb raccomanda agli occidentali di «pregare per la salvezza delle loro anime» , la Ong «Memorial» , che non ha la memoria corta, gli consiglia con coraggio di preoccuparsi piuttosto della propria salvezza: «Putin, è chiaro, ha dimenticato completamente quel che ha fatto nel suo Paese e la responsabilità che ha in questi tragici eventi. Il Primo ministro dovrebbe, prima di tutto, pregare per la propria anima» . Non soltanto Putin è un intenditore in materia di crociate— alcuni pope andarono a benedire i carri armati che irrompevano nella Cecenia musulmana —, non soltanto eccelle in materia di bombardamenti (massicci, nel caso di Grozny, ridotta come Varsavia nel ’ 44), ma intuisce quanto la condanna di un Gheddafi possa infangare le proprie imprese caucasiche. Altri ancora sono recalcitranti e rifiutano di prendere posizione, preferendo contemplare da lontano il volo degli aerei. In testa, c’è la Germania, che dalla ex Repubblica federale di Bonn eredita la propria condizione di gigante economico e di nano politico. Ci si potrebbe accontentare di sorridere o di disinteressarsene, se la Germania, ormai riunificata e diventata la potenza prospera dell’Unione europea, non tendesse a imporre agli altri la norma della sua non-azione raziocinante: poiché ogni volta l’uso della forza comporta il rischio di sbandamenti o impantanamenti, lasciamo che gli sterminatori continuino a sterminare. Così l’Europa venderebbe armi ai despoti, ma si impegnerebbe a non usarle contro di loro. La morale sarebbe salva e il commercio anche. Si è dimenticata l’ironica saggezza di Clausewitz: colui che vuole stabilire o ristabilire il proprio dominio si ostenta «amico della pace» e stigmatizza come «guerrafondai» coloro che si oppongono alla tirannide e difendono la libertà. La posta in gioco della Risoluzione 1973 è tanto più fondamentale in quanto è delimitata molto precisamente. L’intervento armato mira soltanto a proteggere, non a invadere un Paese, a instaurare una democrazia o a costruire una nazione. Non si tratta di agire al posto di un popolo, ma solo di consentirgli di decidere, a suo rischio e pericolo, del proprio destino. Si tratta di ristabilire un equilibrio delle forze, di bloccare il potere devastatore che la tecnologia moderna degli armamenti conferisce a dittatori senza scrupoli davanti a manifestanti dalle mani nude. L’esempio libico è un caso particolare, il suo successo non è garantito né facilmente trasponibile. È giocoforza fare una distinzione fra i regimi polizieschi e corrotti come quelli di Ben Ali e di Mubarak e il potere terroristico, totalitario, grottesco, alla Gheddafi. Il secolo che viviamo non ha certo chiuso con i dittatori dalle mani insanguinate: costoro sappiano tuttavia che la «necessità di proteggere» le folle disarmate incombe come una spada di Damocle sui loro misfatti.

Il SOLE 24 ORE - Christian Rocca : " Gratti Obama e in fondo trovi George W. Bush "


Christian Rocca

Il gran discorso di Barack Obama sulla Libia, pronunciato lunedì sera alla National Defence University di Washington, elimina i dubbi sulla sua cangiante dottrina politica internazionale: «Alcune nazioni possono far finta di non vedere le atrocità commesse in altri Paesi. Ma gli Stati Uniti d'America sono diversi. Mi rifiuto, da presidente, di agire soltanto dopo aver visto le immagini di una carneficina e di fosse comuni». L'Obama che rifiutava il ruolo speciale dell'America nel mondo («Credo nell'eccezionalismo americano, esattamente come gli inglesi credono nell'eccezionalismo britannico e i greci in quello greco», diceva fino a poco tempo fa) ora loda la diversità etica e la superiorità morale del suo paese e spiega che, quando ci sono in gioco gli interessi e i valori americani, gli Usa riescono a superare la loro naturale riluttanza a usare le armi per assumersi la responsabilità di agire da difensori della sicurezza globale e da promotori delle libertà individuali: «Ecco che cosa è accaduto in Libia nelle ultime sei settimane».

Nelle ultime sei settimane è successo anche che Obama ha abbandonato la cautela da realpolitiker per abbracciare la Freedom Agenda di George W. Bush, curandosi di costruire prima le alleanze multilaterali. Il discorso di Obama è un manifesto filosofico, ha scritto il New York Times, a favore degli interventi militari a sostegno dei movimenti democratici del Medio Oriente, del Nord Africa e ovunque nel mondo. «Echi di Bush nel discorso di Obama», ha titolato il principale quotidiano liberal del mondo. Entusiastico anche il commento dei teorici neoconservatori, da Bill Kristol a Bob Kagan.

Da qualche parte, Bill Clinton e Tony Blair avranno sfoggiato un sorriso grande così, per non parlare di Bush. Obama è ufficialmente uno di loro, nonostante sia stato eletto con l'obiettivo di far dimenticare l'interventismo democratico del predecessore e dei suoi alleati.

L'America e l'Occidente, ha detto Obama nel discorso, hanno l'obbligo morale d'intervenire per fermare i massacri. Due anni fa, era un politico molto più cauto, più realista, più attento agli specifici interessi nazionali americani. Ovviamente, ha aggiunto lunedì, non si può intervenire sempre e ovunque un dittatore opprima il suo popolo, ma questo non vuol dire che sia sbagliato fare la cosa giusta quando si agisce per scongiurare un massacro.

Obama ha giustificato la guerra umanitaria preventiva e ha addirittura invocato il diritto all'uso unilaterale della forza. Prima di avviare le operazioni in Libia ha costruito un ampio consenso multilaterale, ma nel discorso di Washington ha detto che non esiterà mai «a usare l'esercito in modo rapido, risoluto e unilaterale se fosse necessario difendere il popolo, la nazione, gli alleati e gli interessi».

I ribelli libici hanno il vento della storia che soffia dietro le loro spalle e il mondo sarebbe certamente un posto migliore senza un tiranno come Gheddafi, ha detto Obama – di nuovo con echi bushiani. L'America «aiuterà l'opposizione e lavorerà con le altre nazioni per accelerare il giorno in cui Gheddafi lascerà il potere». Solo un mago riuscirebbe a individuare le differenze col passato.

A questo punto, formulata la dottrina libica, Obama ha dovuto attenuare lo shock dell'ala pacifista del suo schieramento giurando che la Libia non sarà un nuovo Iraq (su cui Obama però nutre grandi speranze), ribadendo che non invierà truppe di terra e promettendo, in modo meno convincente, che l'intervento armato non servirà a cambiare il regime libico.

C'è chi dice che la grandezza politica di Barack Obama sia proprio quella di sfuggire a qualsiasi catalogazione, di mostrarsi irriconoscibile, di posizionarsi sempre a metà strada tra due punti contrapposti. Non c'è argomento come la politica estera dove questa sua caratteristica sia più lampante. Infatti è il Nobel per la Pace che ha triplicato il numero delle truppe in Afghanistan, che ha avviato una campagna di bombardamenti sul Pakistan e che ha iniziato un'operazione bellica contro un dittatore arabo senza nemmeno chiedere l'autorizzazione al Congresso. Obama è stato eletto con una piattaforma di politica estera anti-bushiana, contraria all'ingerenza americana in giro per il mondo. Quell'Obama non c'è più.

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