|
| ||
|
||
Riportiamo da LIBERO di oggi, 24/02/2011, a pag. 1-6, la cronaca di Carlo Panella dal titolo " Il terrore dopo il raìs Al Qaeda si è già presa mezza Libia ". Dal FOGLIO di oggi, a pag. II, l'articolo di Benn Morris dal titolo " Il rovescio della rivolta ", a pag. I, l'articolo dal titolo " Sotto la piazza, l’abisso? Sguardi preoccupati di esperti davanti al vuoto lasciato dai rais ", con i commenti di Fiamma Nirenstein, Giulio Meotti, André Glucksmann, a pag. 1-4, l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " Come si comporta un presidente ". Dalla STAMPA, a pag. 6, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " La sindrome della Somalia. Due Stati, guerra tra le tribù ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 19, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " Tre scimmiette nel deserto ". LIBERO - Carlo Panella : " Il terrore dopo il raìs Al Qaeda si è già presa mezza Libia "
Il FOGLIO - Benny Morris : " Il rovescio della rivolta "
Fare previsioni è sempre rischioso o addirittura sciocco. Ma io sono pressoché convinto che, quando le acque si ricalmeranno, com’è inevitabile, nel giro di uno, due o tre mesi risulterà chiaro che gli interessi occidentali e israeliani in medio oriente saranno stati minati, mentre quelli anti occidentali e anti israeliani si saranno rafforzati. Analogamente, apparirà altrettanto chiaro che i regimi che sono per natura e tradizione estremamente brutali e spietati, come quelli dell’Iran, della Siria e forse della Libia, saranno riusciti a superare la tempesta, mentre i regimi più moderati e più disposti ad accettare un processo di liberalizzazione saranno stati rovesciati oppure avranno dovuto concedere terreno e potere agli elementi anti occidentali e spesso islamisti presenti all’interno di ogni paese medio orientale. I regimi che sono già crollati o che stanno per farlo sono quelli del Libano, della Tunisia, dell’Egitto, dello Yemen, della Giordania e quelli degli stati del Golfo. La gente tende a dimenticare che il Libano, e non la Tunisia, è stato il primo paese a scaldarsi, anche se in questo caso la di Benny Morris scintilla è stata data da un’azione radicale, non da concrete violenze nelle strade. Negli stati del Golfo con un vasta popolazione sciita (come il Bahrein, dove gli sciiti rappresentano la stragrande maggioranza), l’influenza iraniana aumenterà notevolmente, e in qualche caso potrebbe addirittura diventare predominante. Rimane ancora da stabilire quali ripercussioni si avranno in Arabia Saudita, in particolare a causa della sua vasta minoranza sciita. In questi ultimi giorni non si è parlato granché del coinvolgimento iraniano nelle rivolte del Bahrein, ma sono convinto che deve essere stato piuttosto intenso. In tutti gli altri paesi (Libano, Egitto, Algeria, Tunisia, Iraq, Giordania e Yemen), l’aiuto alla guerra americana contro il terrorismo si ridurrà notevolmente o scomparirà del tutto, in quanto i nuovi regimi si inchineranno davanti alla volontà popolare e a quella dei partiti musulmani o laici anti occidentali. Il liberalismo illuminato di Obama, che incoraggia le proteste di piazza e denuncia le repressioni di regime, alla fine non servirà ad altro che ad accrescere i sentimenti anti americani in tutto il medio oriente. Le masse si infurieranno contro l’America indipendentemente da tutti i dollari che Washington destinerà a sovvenzioni d’emergenza (un esempio emblematico è il radicale anti americanismo del Pakistan, malgrado tutti gli aiuti forniti dall’America). Allo stesso modo, un gelo sempre più rigido caratterizzerà la posizione di tutto il medio oriente nei confronti di Israele. Questo, senza dubbio, non farà che rafforzare la comunque giustificata tendenza israeliana a ostacolare e rifiutare gli sforzi per pacificare i palestinesi e, rispettivamente, incoraggerà i palestinesi nella loro ostinata irremovibilità su questioni come il ritorno dei profughi e gli insediamenti. In Egitto, gli esponenti dell’opposizione stanno già richiedendo la revoca del trattato di pace firmato nel 1979 con lo stato ebraico e l’interruzione definitiva delle esportazioni di gas in Israele. A quanto pare, il gasdotto, sabotato qualche notte fa nei pressi di el Arish, nel Sinai, non è stato ancora riattivato, non si sa se per ragioni tecniche o invece politiche. Israele, e forse anche Washington, stanno silenziosamente cercando di convincere l’Egitto a ripristinare i rifornimenti. Sulla questione del trattato con Israele, il regime militare che ha preso il posto di Mubarak ha rilasciato una generica dichiarazione nella quale si diceva che l’Egitto avrebbe “rispettato i propri impegni internazionali”, ma ha evitato di menzionare esplicitamente quello con Israele. Ma sappiamo che, probabilmente, alcuni generali si oppongono al trattato, e senza dubbio una sua esplicita conferma avrebbe irritato le masse egiziane, cosa che il regime militare intende assolutamente evitare. Le ultime notizie giunte dal Cairo dicono che il regime militare ha deciso di togliere il blocco sulla Striscia di Gaza, che integrava l’assedio israeliano del territorio controllato da Hamas fin dal 2006-2007. A cominciare da domani, centinaia di abitanti di Gaza attraverseranno il confine con il Sinai; non si sa se gli egiziani intendano controllare il flusso di armi e munizioni dirette a Gaza, come avevano fatto durante il regime di Mubarak. Le masse egiziane – esattamente come quelle di molti altri paesi arabi – sono permeate di sentimenti anti israeliani almeno in parte a causa di decenni di deliberata propaganda mediatica, e spesso anche antisemita. C’è un ampio e diffuso sostegno per Hamas, che rappresenta la branca palestinese del movimento fondamentalista egiziano dei Fratelli musulmani. In Egitto, anche quando la pace era la linea politica ufficiale, i portavoce del governo spesso denunciavano pubblicamente Israele (talvolta a ragione) e si offendevano profondamente quando gli israeliani criticavano il Cairo. Non c’è mai stata una concreta simmetria. Ma, cosa ancora più importante, il governo egiziano – non ottemperando agli impegni del trattato – ha permesso ai media di demonizzare senza alcun freno lo stato ebraico, mentre qualsiasi critica interna nei suoi stessi confronti era severamente repressa. Israele è stato il solo ambito in cui, sotto i dittatori Nasser, Sadat e Mubarak, è stata concessa agli egiziani ogni “libertà”. Se ne ha avuto un esempio illuminante appena poche settimane fa, immediatamente prima della rivolta di gennaio, quando i media egiziani hanno accusato il Mossad di avere organizzato l’attacco di un branco di squali contro i turisti di Sharm el Sheikh, allo scopo di danneggiare l’industria turistica egiziana. Per anni e anni i giornali egiziani hanno regolarmente accusato Israele di usare gas tossici contro la popolazione palestinese e di inquinare le riserve d’acqua egiziane. Il regime ha costantemente limitato anche il turismo egiziano in Israele, forse per paura che gli egiziani stessi potessero tornare indietro con un’immagine più equilibrata e positiva dello stato ebraico. Temo che questo tipo di propaganda anti israeliana e forse anche anti americana diventerà una sorta di routine automatica e obbligatoria. Tanto che potremmo addirittura abituarci all’idea di vedere gli incrociatori iraniani attraversare trionfalmente il Canale di Suez per dare incoraggiamento agli islamisti di tutto il mondo arabo. Il FOGLIO - " Sotto la piazza, l’abisso? Sguardi preoccupati di esperti davanti al vuoto lasciato dai rais " Fiamma Nirenstein Se le rivoluzioni gigantesche e sconosciute – che fanno dei paesi islamici una promessa e una minaccia – falliranno, sarà perché i giovani in piazza (chiunque essi siano e comunque la pensino, oggi muoiono per la libertà) avranno dovuto pagare un triste tributo agli stessi dittatori che hanno cacciato via. L’ins i s t e n t e domanda che poniamo a noi stessi, e che molti smussano invocando i nuovi idoli dei social network, è quanto la destituzione dei tiranni arabi possa condurre a una società moderna, democratica, insomma a noi non aliena e nemica. Le società musulmane possono farlo: i giovani ottomani negli anni fra il 1830 e il 1850, all’inizio con riluttanza, poi con slancio, impararono almeno una lingua europea, viaggiarono, divennero i portabandiera del desiderio di dare al loro paese, da patrioti liberali, un governo istituzionale e parlamentare nel quale vedevano il talismano del successo europeo. Anwar Sadat, nel secolo successivo, ha potuto appoggiare la sua pace con Israele a una generazione di giganti intellettuali come Hussein Fawzi, Yusuf Idris e soprattutto Tawfik al Hakim, che osò scrivere: “I sionisti che si insediarono in Palestina tornavano alla patria da loro abitata nel passato”. Ma questo panorama è venuto da tempo a mancare. L’ultimo di questi grandi è stato Mahfuz. Oggi, non preoccupano soltanto i Fratelli musulmani, di cui moltissimo si parla, sperando che siano meno cattivi, ma soprattutto la mente dei giovani in piazza. Ne spiega Fuad Ajami quando parla del “Palazzo dei sogni degli arabi”. Esso è stato costruito negli ultimi trent’anni dai dittatori. La delusione che nasce nel mezzo degli anni Ottanta, quando la crisi petrolifera fece una trappola infernale dell’urbanizzazione araba. La folla prodotta come da una macchina impazzita dal continuo boom demografico doveva essere domata da un indottrinamento micidiale. Mubarak, Ben Ali e tutta la compagnia dovevano battere una frustrazione totale, sociale, sessuale, economica, dovevano occultare la loro corruzione e la loro violenza. Oggi è di questo che dobbiamo avere paura: i giovani che desiderano la libertà (con le dovute e molte eccezioni che conosciamo, avendo passato molto tempo con i dissidenti di ogni paese) hanno la testa piena di teorie della cospirazione. Gli arabi sono vittime perseguitate dai sionisti figli di cani e scimmie, l’11 settembre è opera degli ebrei, gli americani sono imperialisti assassini e i terroristi sono invece gioiosi martiri. Per molti di loro, l’islam è la risposta, ma più di questo il rischio attuale è nella confusione mitomane di cui si trova ovunque traccia. Un paese come l’Egitto, in pace con Israele, fu capace di pubblicare sul giornale di stato al Ahram la caricatura di Peres in divisa nazista durante la sua visita ufficiale. Il conflitto ideologico è in realtà uno specchio fedele del rapporto degli arabi con la modernità, vissuta come un velenoso frutto dell’occidente. Se non cessa, non ci sarà democrazia. Giulio Meotti Le proteste arabe nascono dal malcontento verso regimi che hanno creato nepotismo, corruzione, stagnazione, repressione. Ma in quelle che Bernard Lewis ha definito “rivoluzioni popolari”, non democratiche, chi cercherà di approfittarne sarà l’islamismo, che vuole la leadership del mondo arabo dopo mezzo secolo di nazionalismo laicista e di patti con l’occidente. E’ un ritorno al 1979: crollano i fautori della pace con Israele e dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti; società governate dalla sharia vogliono “democrazia” in chiave plebiscitaria (“una testa, un voto, una volta sola”); i cristiani vanno in esilio; Hamas e Hezbollah si drogano di missili e fanatismo; la Turchia è sempre più persa all’occidente; l’Iran torna nel Meditarreneo per la prima volta dalla caduta dei Pahlevi; l’America è debole e l’islam politico ovunque in ascesa. Manca l’annuncio di Teheran che ha sviluppato la bomba atomica. Nessuno conosce l’esito delle proteste arabe, ma i giornalisti hanno occultato il volto oscuro della rivolta accanto a Facebook e ai foulard dei “giovani”: l’attacco alla sinagoga di Tunisi, l’uccisione ieri di un prete copto nel sud dell’Egitto, la paura delle donne senza velo e dei cristiani, le caricature di Mubarak con la kippah, il grido “ebrea ebrea” contro Lara Logan. Al Cairo è caduto l’ultimo argine per l’ascesa dei Fratelli musulmani, che da sessant’anni inseguono il sogno califfale. Se dovessero prendere il potere vedremmo i cristiani relegati al rango di minoranza sottomessa. Niente più Miss Egitto. Niente più donne senza velo in tv. Niente più tolleranza per l’adulterio e gli alcolici. Niente più “mescolanza dei sessi”. Niente più muro contro Hamas. Mubarak aveva tanti torti e la sua acqua era imbevibile, ma “il faraone” aveva collocato il paese nell’orbita occidentale, si era schierato contro Saddam e Khomeini, aveva siglato un patto di pace con Gerusalemme, era scampato a sei tentativi di assassinio ed era stato l’unico leader arabo, assieme al giordano Hussein, ai funerali di Rabin. Non è poco in medio oriente. Oggi al Cairo l’imam Qaradawi, che sta all’islamismo come Himmler stava all’ideologia nazionalsocialista e che ha giustificato l’uccisione dei feti israeliani, arringa milioni di egiziani al grido di “libereremo Gerusalemme, milioni di martiri”. Cosa accadrà alle donne di Tunisia? L’ex presidente Bourghiba aveva dato loro diritti senza uguali nel mondo arabo. Che ne sarà di quel poco di modernizzazione e laicità? In Cisgiordania la vivacità economica non è garanzia di pace con gli ebrei e a Gaza governa un regime tenebroso. E Hamas potrebbe puntare presto i missili sull’aeroporto di Tel Aviv. Beirut è ancora una liberazione per i giovani arabi che vogliono godere di un po’ di luce, passeggiare senza chador e tenersi per mano. Sarà ancora così domani? E cosa accadrà a Israele e alla pace siglata col sangue di Sadat? La tenaglia si stringe, la rivoluzione va avanti e le nostre chattering classes giubilano come prefiche per la “piazza araba”. Ma spesso dopo la Rivoluzione viene il Terrore. André Glucksmann Più che un senso di vergogna retrospettiva, André Glucksmann prova sconcerto. “Non sono mai stato favorevole alle genuflessioni, ma la vergogna in questo caso non riguarda la visita di Gheddafi a Parigi, la tenda all’Eliseo, ma la vendita di armi a favore del dispotismo, la compiacenza l’assenza di sostengno ai difensori dei diritti dell’uomo (vedi l’atteggiamento nei confronti della Russia di Putin, che ha potuto eliminare impunemente 200 mila ceceni, e comprare dalla Francia la più grossa partita di navi da guerra dai tempi della Guerra fredda). E questa riserva vale non solo per la Libia, ma anche per la Tunisia, per l’Egitto, per la Russia e per la Cina. Noi tutti, insomma, siamo in parte responsabili di quanto accade: la Francia, l’Italia, la Russia, tutti i paesi che hanno venduto le armi che adesso rischiano di venir utilizzate contro i civili da parte di Gheddafi, che vuole un bagno di sangue”. “Non è più l’ora delle risoluzioni. Sarebbe bene intervenire non solo controllando i beni della famiglia Gheddafi, o proibendo loro di esiliarsi in Europa. L’unico rimedio possibile, quando un dittatore uccide la sua popolazione, è il rimedio Reagan. Perché l’unica volta in cui Gheddafi si calmò fu nel 1986, quando venne bombardato. Adesso tutti, al Consiglio di sicurezza dell’Onu, dai russi ai cinesi, sono d’accordo nel dire che quelli di Gheddafi sono crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Perciò, se ci domandiamo che cosa fare, l’unica risposta, secondo me, è ricorrere al rimedio Reagan: ovvero bombardare”. “Forse ci sono mezzi più sofisticati. Tutti noi paghiamo le tasse per finanziare i servizi segreti. Ma un pazzo va fermato. Se possibile con una pallottola in testa, soluzione che sarebbe meno dolorosa, per la popolazione, di un bombardamento mirato. Ci sono fior di agenti addetti a questo tipo di lavoro”. Ma il fatto che manchi, in Libia, un partito di opposizione, il fatto che non ci sia un vero contropotere, né dell’esercito, né della magistratura, eliminare il tiranno non rischia di complicare le cose, di provocare una guerra civile ancora di più? “Non mi pare il caso. Metà della Libia, e cioè la parte sul confine egiziano, non conosce massacri. Gli unici scontri avvengono nella zona controllata da Gheddafi. Non dico che nel resto del paese sia il paradiso, ma ci sono tribù che si sono rifiutate di sostenere il rais. E io credo non sia una buona scusa invocare un caos peggiore quando c’è già un despota che bombarda la sua popolazione. Insisto, le potenze che hanno venduto armi belliche a Gheddafi fra le quali la Francia, sono già responsabili di tutto ciò che può succedere. Per questo, dobbiamo fermarlo”. La STAMPA - Maurizio Molinari : " La sindrome della Somalia. Due Stati, guerra tra le tribù "
Con Tripoli ancora in mano a Muammar Gheddafi e la Cirenaica in preda alla rivolta si apre lo scenario di una Libia spaccata in due, in balia del caos, dove ad essere decisivi potrebbero essere le truppe scelte del colonnello e le tribù del deserto. Il FOGLIO - Amy Rosenthal : " Come si comporta un presidente "
New York. “Non sappiamo che esito avrà la primavera di rivolte in medio oriente, forse non siamo in grado nemmeno di condizionarle in modo decisivo, ma le forze della civilizzazione non sono certo sprovviste di risorse”. Lo dice al Foglio Bill Kristol, il direttore del magazine conservatore americano Weekly Standard. Kristol, da sempre sulla linea più ortodossa della dottrina repubblicana, è stato un convinto difensore della promozione della democrazia in medio oriente. Si dice “rincuorato, seppur con cautela, dall’ondata rivoluzionaria” che ha avuto inizio in Tunisia e ha poi sconfinato in Egitto, in Yemen e in Libia. “Molti di noi dicevano da tempo che era necessario scardinare il ciclo delle dittature e dell’estremismo, incluso anche quello di matrice islamica – osserva – Ora potrebbe essere accaduto quello che volevamo, anche se niente garantisce che tutto funzionerà a dovere. Detto questo, i fatti degli ultimi giorni danno a noi, e ai popoli del medio oriente, una nuova chance per rimettere a posto le cose e dare forma a un futuro migliore”. Nella risposta della Casa Bianca agli eventi della Tunisia, dell’Egitto e ora della Libia, Kristol evidenzia, per ora, una carenza preoccupante: “Manca il senso delle possibilità che si sono aperte, la determinazione a fare del nostro meglio per concretizzarle, la consapevolezza che questo può essere un punto di svolta importante per la storia del mondo”. Il direttore del Weekly Standard non capisce come sia possibile che le rivolte “non smuovano l’occidente dall’approccio del business as usual. Bisogna fare qualcosa di più dei discorsi, mettere in campo sforzi, nascosti ed espliciti, diretti e indiretti, per aiutare i più liberali. Bisogna prendere in considerazione l’uso della forza quando la forza viene usata per uccidere civili innocenti. Bisogna coinvolgere il governo americano, metterlo in azione su tutti i piani possibili con gli alleati e le organizzazioni internazionali, concentrandosi sulle sfide del presente”. “Il vecchio ordine della regione era destinato soltanto a generare un pericolo maggiore per tutti noi”, sostiene Kristol, che viene dall’esperienza di numerosi think tank, tra cui il Project for the New American Century, noto per la lettera inviata nel 1998 all’allora presidente Clinton, nella quale si chiedeva una posizione più dura nei confronti dell’Iraq. Le parole del direttore del Weekly Standard riprendono molti elementi della dottrina per la politica estera di George W. Bush, in particolare della sua Freedom Agenda. Nel discorso inaugurale del suo secondo mandato, Bush aveva definito così la sua visione: “La politica degli Stati Uniti è quella di sostenere lo sviluppo dei movimenti e delle istituzioni democratiche in ogni nazione e in ogni cultura, per raggiungere l’obiettivo dell’eliminazione della tirannia dal nostro mondo”. Per questo, oltre alla campagna in Iraq, l’Amministrazione Bush ha incoraggiato gli sforzi per la liberalizzazione di paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto, ha sostenuto il ruolo dei civili nel governo pachistano e le elezioni nei territori palestinesi, anche quando si è capito che le avrebbe vinte Hamas. Sul fatto che gli egiziani e i tunisini si siano sbarazzati da soli dei loro dittatori, secondo Kristol, “pesa certamente quello che Bush ha fatto e detto in medio oriente. Non si può dire che sia una conseguenza inevitabile della sua politica estera, che però è stata utile. Spero che l’operato del presidente Obama possa essere ancora più incisivo”. Kristol avverte che questa è un’occasione decisiva per il capo della Casa Bianca, “anche se non è proprio quella che aspettava o quella che avrebbe desiderato”. Oggi, Obama non può permettersi di restare “passivo di fronte agli eventi o di essere paralizzato dai dubbi. E’ un momento storico, non può lasciarselo sfuggire. Non soltanto perché quello che sta succedendo nel mondo arabo può rafforzare alcuni interessi degli Stati Uniti, ma perché noi crediamo che i princìpi che professiamo siano universali, non realizzabili sempre e ovunque, ma da favorire quando e dove è possibile”. Non è detto che l’esito di questo sforzo dia i risultati che l’occidente si aspetta: “E’ possibile, persino probabile, che la primavera araba del 2011 fallisca, così come è già successo con altre primavere, che non si sono mai concretamente realizzate – dice Kristol – ma gli Stati Uniti e l’Europa devono aiutarla, stando dalla parte di chi si oppone alla tirannia, anche quando la vittoria sembra improbabile. Certo, è molto difficile dire cosa si debba fare in ognuna delle nazioni coinvolte: le scelte dipendono da valutazioni complesse dei problemi che si incontrano sul campo. Se però molti analisti e commentatori dedicassero più tempo a capire cosa può essere fatto piuttosto che a escogitare analogie brillanti che sembrano spiegarci il destino degli eventi, illustrando l’inevitabile fallimento dei nostri sforzi, forse capiremmo che possiamo influire su questi movimenti più di quanto non pensiamo ancora”. L’occidente, sostiene Kristol, ha tutto da guadagnare: “In fondo, non è forse possibile che l’arrivo di nuovi paesi nel mondo della libertà finisca per ravvivare il nostro amore e la nostra comprensione della libertà?”. Il SOLE 24 ORE - Christian Rocca : " Tre scimmiette nel deserto "
Le dichiarazioni italiane, le prese di posizione europee, le condanne delle Nazioni Unite non bastano. Mettere in guardia sul rischio del fondamentalismo islamico, nel caso il regime quarantennale di Muammar Gheddafi dovesse finalmente cadere, non serve assolutamente a nulla se, nel frattempo, a Bengasi e a Tripoli e nelle altre città libiche le milizie del Colonnello continuano a sparare ad altezza d'uomo sui manifestanti. La priorità è fermare il massacro, poi contenere gli effetti dell'inevitabile caduta del regime e, infine, aiutare il processo di ricostruzione del paese. Questo è il nostro interesse nazionale, oltre che la cosa giusta, etica e morale da fare. Per inviare la propria opinione a Libero, Foglio, Stampa, Sole 24 Ore, cliccare sulle e-mail sottostanti lettere@libero-news.eu lettere@ilfoglio.it lettere@lastampa.it letterealsole@ilsole24ore.com |
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |