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Il Foglio - Il Sole 24 Ore - Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.02.2011 Egitto: le preoccupazioni di Israele sono condivise da tutto il Medio Oriente
analisi di Redazione del Foglio, Ugo Tramballi, Carlo Panella, Guido Olimpio

Testata:Il Foglio - Il Sole 24 Ore - Corriere della Sera
Autore: Redazione del Foglio - Ugo Tramballi - Carlo Panella - Guido Olimpio
Titolo: «Anche i 'laici' del Cairo contro Israele. La tentazione nasserista - Il rais alle corde inquieta Gerusalemme e il Golfo - Ayman Nour ci spiega la terza via tra regime e stato islamico - Per il loro colpo di stato, i generali hanno scelto il modello turco»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 11/02/2011, a pag. 3, due analisi titolate " Anche i “laici” del Cairo contro Israele. La tentazione nasserista " e "Ayman Nour ci spiega la terza via tra regime e stato islamico ", l'analisi di Carlo Panella dal titolo " Per il loro colpo di stato, i generali hanno scelto il modello turco ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 4, l'articolo di Ugo Tramballi dal titolo " Il rais alle corde inquieta Gerusalemme e il Golfo ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 5, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Così si è bloccato il golpe dell’esercito. La notte più lunga degli agenti segreti ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - " Anche i “laici” del Cairo contro Israele. La tentazione nasserista"


Gamal Abdel Nasser

Roma. Se un portavoce dei Fratelli musulmani ha annunciato che “il popolo egiziano dovrebbe prepararsi alla guerra contro Israele”, c’è un altro pericolo, oltre a quello islamista, che pende sul futuro dell’Egitto e sulla stabilità della regione. Sul Wall Street Journal, Bret Stephens ha scritto che un possibile scenario del dopo Mubarak potrebbe essere la sopravvivenza del regime con un radicale cambio di linea in politica estera. Un regime “secolare ma reazionario”, antiamericano e antisraeliano, “un ritorno alle origini nasseriste”. La Carnegie Foundation ha pubblicato i programmi dei partiti che prenderanno parte alla battaglia politica in Egitto. Dal Wafd, storico partito liberale di opposizione, ai comunisti del Tagammu, fino ai socialisti e i nasseristi, i secolaristi anti Mubarak auspicano tutti una revisione o una rottura dei rapporti con Gerusalemme. A governare sulla “pace fredda” con Gerusalemme resta soltanto il regime di Mubarak. Il protagonista delle rivolte, Mohamed ElBaradei, ha paragonato la potenza nucleare israeliana a quella iraniana e ha detto che Israele è il peggiore pericolo per il medio oriente. “Israele ha stretto un trattato di pace con Mubarak, non con l’Egitto”, ha dichiarato il premio Nobel per la pace. Il partito Karama di Hamdeen Sabahi, nasseriano e di sinistra, prevede il pluralismo politico, una “rinascita egiziana”, ma anche “l’opposizione all’interferenza occidentale negli affari egiziani”. Sabahi ha detto che si deve porre fine al “dominio israelo-americano sull’Egitto”. Lo storico partito Wafd, che ha sei seggi in Parlamento dopo la tornata elettorale del 2005, auspica decentralizzazione, abolizione dello stato di emergenza, ma anche “rafforzamento dei legami con i paesi islamici” e l’alleanza col Sudan. Il principale partito di sinistra Tagammu, con cinque seggi parlamentari, oltre a un’agenda di libertà civili e di democrazia partecipata, rivendica i “principi antisionisti”, “promuove la solidarietà fra gli stati arabi, sostiene la causa palestinese e si oppone alla normalizzazione con Israele”. Il Partito nasserista, che ha un’anima statalista e socialista contraria alle liberalizzazioni, vuole “risolvere la questione palestinese attraverso l’espulsione delle forze di occupazione da tutte le terre arabe” e si oppone alla “normalizzazione delle relazioni con Israele”. Il partito socialista arabo, nato nel 1976 durante il regime di Sadat, vuole “promuovere unità e solidarietà fra gli stati arabi”. L’attuale segretario e leader del partito laburista, Magdi Hussein, sta scontando due anni di prigione per essere entrato illegalmente a Gaza durante la guerra d’Israele del dicembre 2008, in sostegno ad Hamas. E’ lo stesso Labour Party la cui nascita fu favorita da Sadat per sostenere proprio il trattato di pace con Gerusalemme. Anche il celebre movimento di protesta Kifaya, molto presente nella piazza Tahrir, chiede “opposizione all’influenza d’Israele e degli Stati Uniti nella regione”. Il sindacalista George Ishak, a capo del movimento Kifaya che nel 2005 galvanizzò un’ondata di proteste contro Mubarak e contro la possibile designazione del figlio Gamal come suo successore, ha detto che “l’accordo di Camp David è soltanto inchiostro su carta”. Stessa posizione per il “Movimento 6 aprile”, nato un anno fa e che auspica l’annullamento degli accordi di Camp David fra Israele e l’Egitto. Il Fronte democratico prevede di “resistere all’espansionismo israeliano e sostenere la causa palestinese”. Dunque non sono soltanto ElBaradei e i Fratelli musulmani a voler rovesciare lo status quo con Israele. L’intero spettro delle forze secolariste egiziane, a eccezione della formazione liberale di Ayman Nour, vuole rivedere la trentennale “pace fredda” con lo stato ebraico. Per dirla con Saeed Abdel Khalek, direttore del quotidiano del partito Wafd, “non c’è una casa egiziana che non abbia un martire, ucciso in una delle nostre guerre con Israele; ero un ufficiale nel 1973 e non posso stringere la mano di un israeliano, e come me la pensa la grande maggioranza del popolo”.

Il SOLE 24 ORE - Ugo Tramballi : " Il rais alle corde inquieta Gerusalemme e il Golfo "


Ugo Tramballi, una volta tanto corretto.  Azzeccato anche il titolo.
Farebbe piacere che questa metamorfosi fosse definitiva...

Ieri pomeriggio una voce è circolata d'improvviso per il Medio Oriente: è morto re Abdullah d'Arabia Saudita. All'età di 86 anni, si diceva, un infarto lo aveva stroncato in Marocco dove si stava riprendendo da un'operazione fatta due mesi fa negli Stati Uniti. La notizia era una bufala. Ma la radio israeliana in lingua ebraica e araba e quelle di molti altri paesi della regione hanno sentito il bisogno di trasmettere la smentita con soddisfazione esagerata.

Nella palude mediorientale dei conflitti, delle tensioni, dei regimi e dei volti immutabili che il trucco e la propaganda rendono senza età, due cambiamenti così radicali nello stesso giorno sarebbero stati troppi. Un terremoto perfetto nei due paesi arabi più importanti per la geopolitica, l'economia, la produzione energetica, i commerci della regione e del mondo; alla base di due pilastri di stabilità: precaria come tutto qui ma sempre stabilità. In Arabia Saudita non sarebbe stata una rivoluzione. Ma il meccanismo di successione a Riad è così evanescente che anche la scomparsa di un re stabilmente sul suo trono avrebbe provocato nuove ansie. Le cose si sono così incancrenite che da Gibilterra a Ormuz ogni transizione è un pericolo.

L'uscita di scena di Mubarak, la Sfinge come viene chiamato per l'apparente immortalità e la stessa inespressività della statua, basterebbe da sola per rendere più tesi i fili della regione. La crisi di legittimità era una conseguenza prevista. Il "muro della paura" che da decenni impediva agli arabi di gridare che i loro dittatori erano alla fine nudi, era stato abbattuto in piazza al Tahrir. Ma ora che la demolizione sembra sul punto di abbattere anche uno dei tanti presunti immortali della regione, tutti quelli che sono fuori dalla piazza del Cairo - il resto del Medio Oriente - sono più preoccupati che elettrizzati.

Micael Oren, il giovane ambasciatore israeliano a Washington ieri esprimeva con molta chiarezza le preoccupazioni del suo paese: «Il popolo israeliano vorrebbe vedere per il popolo egiziano le stesse libertà che abbiamo noi. Ma c'è anche ansia e preoccupazione perché abbiamo visto il processo democratico dirottato dai radicali in Iran e a Gaza». Ehud Barak, il ministro della Difesa, è a Washington da due giorni per avere le rassicurazioni che cerca Israele: ha visto il segretario di stato, quello alla Difesa, il consigliere per la sicurezza nazionale, i generali.

Ma le preoccupazioni di Israele sono le preoccupazioni di tutti. C'è forse qualcosa di ambiguo se le democrazie occidentali e l'unica in Medio Oriente (l'israeliana) temono le conseguenze di una naturale spinta di libertà; se l'uscita di scena di un uomo al potere da 30 anni preoccupa anziché entusiasmare. Ma è inutile fingere di ignorare che le annotazioni di Oren sono quelle di tutti.

Il problema non è più Hosni Mubarak: l'erosione del suo potere ha avuto tre settimane di tempo per essere digerita. Ma cosa accadrà adesso: se gli egiziani si accontenteranno di questa timida vittoria, accettando la transizione promessa; o se da domani rincominceranno a scavare anche sotto il piedistallo del vicepresidente Suleiman chiamato a fare il re taumaturgo, possibilmente anche democratico dopo una carriera vissuta nell'apparato repressivo dell'ancien régime. Essere il problema e contemporaneamente la soluzione è molto comune in Medio Oriente.

Se accadesse questo, se la fase d'incertezza e di disordini diventasse senza una fine, sarebbe il terrore a diffondersi. Gli israeliani incomincerebbero a studiare come sempre interventi militari preventivi. Ma su Suleiman contano anche gli americani, gli europei, i paesi moderati e fragili come la Giordania; gli emirati del Golfo che non si sentono più protetti dallo scudo della loro monumentale ricchezza. Perfino i più radicali che hanno smesso di fingere soddisfazione per «un altro fallimento americano», non vedono nulla di buono nella rivoluzione egiziana. Religiosi o ideologici, anche i loro regimi militarizzati da oggi sono a rischio.

Il FOGLIO - " Ayman Nour ci spiega la terza via tra regime e stato islamico "


Ayman Nour

Cairo. Nel grande dipinto alle spalle di Ayman Nour ci sono alcuni dei personaggi politici più importanti della storia egiziana, come Saad Zaghloul, padre della lotta contro i britannici e fondatore del partito liberale al Wafd. A casa sua, in completo nero, la camicia slacciata e senza più la cravatta, il capo di al Ghad – il domani, in arabo – spiega che l’Egitto sta dimostrando al mondo arabo l’esistenza di una terza via: tra il dittatore e lo stato islamico c’è dell’altro. “E’ per questo che sono stato in prigione quattro anni”, dice al Foglio. Nour, un ex avvocato di 45 anni, originario di Mansoura, sul delta del Nilo, è stato il candidato presidenziale al voto del 2005. Allora il rais Hosni Mubarak ottenne un voto plebiscitario, mentre la comunità internazionale denuncia brogli. Poche settimane dopo, Nour fu arrestato con l’accusa di aver falsificato le firme per la creazione del suo partito, nel 2004. Il suo fermo fu interpretato come la volontà del regime di arginare un oppositore appoggiato dagli Stati Uniti. “Stavo cercando di far passare un messaggio nel paese e fuori – dice Nour – l’Egitto può avere un’alternativa liberale, civile e laica. Ma il regime non voleva che qualcuno s’accorgesse di questo. Ha creato stereotipi e bugie: o noi o il terrorismo”. Nel 2006, soltanto un anno dopo i mesi di inedito dissenso in Egitto contro Mubarak e contro la successione dinastica, il gruppo islamista palestinese Hamas ha vinto le elezioni. “O l’esercito o i mullah barbuti – ricorda Nour – Era questa la terribile immagine che il regime cercava d’inviare all’occidente, mentre tutti guardavano alle bombe in Iraq e al terrorismo di al Qaida. Ma a Tunisi e al Cairo questa immagine ha iniziato a disfarsi”. I Fratelli musulmani sono stati cauti, sono scesi in campo in un secondo tempo, mantengono, per ora e con una buona dose di tatticismo, un basso profilo: al voto di settembre non vogliono presentare un candidato. La Fratellanza – che è stata invitata nei giorni scorsi alle trattative del vicepresidente Omar Suleiman – ha già indicato che se entrasse al governo rivedrebbe il trattato di pace con Israele, in vigore dal 1979. L’Egitto, grande alleato degli Stati Uniti, è da sempre un paese centrale per gli equilibri regionali, apprezzato per la sua posizione di mediatore nel conflitto israelo-palestinese, la sua opposizione al programma atomico iraniano e il suo sostegno alla guerra al terrore. Ora, in America ed Europa, come in Israele e in Arabia Saudita, c’è paura per il futuro. E’ questo un altro dei motivi per il quale Ayman Nour è finito in prigione, dice Ehab el Khouly, uno dei leader del partito. Tra una sigaretta e l’ennesima barzelletta su Mubarak, spiega al Foglio perché il regime ha preferito dare spazio ai Fratelli musulmani, gruppo fuori legge ma formalmente tollerato, piuttosto che ad altri movimenti. “Sono i partiti liberali come al Ghad che potrebbero piacere all’Egitto e al resto del mondo: sono sostenuti a livello internazionale, danno spazio ai diritti delle donne, dei copti. E in più, la regione ha bisogno della pace in medio oriente e i liberali manterranno i trattati in vigore, al contrario di altri gruppi. Per questo oggi il regime non ha aperto i negoziati con i veri leader liberali”. In breve, dicono i politici di al Ghad, il regime ha sempre preferito sostenere un’alternativa capace di spaventare gli alleati piuttosto che scendere in campo contro un credibile rivale. “L’unica alternativa al dialogo è un golpe”, ha detto mercoledì Omar Suleiman, con toni da premonizione. “Siamo molto disturbati da quella dichiarazione”, dice Nour seduto nel salone del suo grande appartamento di Zamalek, quartiere chic del Cairo. Attorno a lui, larghi specchi dalle cornici dorate, lampadari di cristallo, tappeti persiani e vasi di tulipani rossi e gialli. Ai muri, le fotografie in bianco e nero della sua famiglia, da sempre attiva in politica: il padre era deputato. “Mi piacerebbe candidarmi ancora alla presidenza – dice – e se diventassi presidente tornerei a dormire tutte le sere in questa casa, non andrei ad abitare a palazzo”. Ma il palazzo in queste ore è un’incognita, i mediatori cambiano sempre volto. “Sono loro a non essere pronti a negoziare – spiega Nour parlando di chi guida le trattative – Noi in quanto liberali siamo sempre pronti a farlo. Loro però devono sedersi con i loro pari, con i veri oppositori”. Tra una telefonata e l’altra Nour spiega, in anticipo sugli eventi, che Mubarak è ormai fuori dai giochi. “Non ha senso considerarlo parte dell’arena politica. Ormai quando parliamo del futuro di questo paese parliamo di una democrazia, di uno stato laico e civile che rispetti i diritti delle minoranze”. L’arancione, il colore di al Ghad, rappresenta il colore del sole e del futuro. La prima scossa nel 2004 Attorno a un piatto di sushi sull’enorme terrazzo di casa, al bordo di una piscina vuota, il leader di al Ghad racconta che le proteste del 2004 e 2005 hanno aperto la porta al cambiamento di oggi. Il suo partito e altri gruppi, sotto l’ombrello del movimento Kifaya, basta in arabo, scesero in strada, aiutati dalle pressioni sul regime da parte dell’Amministrazione Bush. Poche centinaia di attivisti, circondati da migliaia di agenti in assetto antisommossa. “Nel 2004, gli egiziani pensavano a Mubarak come a una mezza divinità. In quei giorni abbiamo creato il primo choc, abbiamo aperto un dibattito. Sono nati molti giornali indipendenti che hanno cominciato a criticare il regime. Prima non esistevano. Poi è arrivato Facebook. Non sapevo neppure cosa fosse quando sono uscito di prigione”. Il leader di al Ghad non ama parlare dei quattro anni passati in cella. Meglio pensare alla piazza: Nour serve il tè ai suoi ospiti versandolo nelle tazze blu del movimento giovanile del 6 Aprile, uno dei tanti gruppi che in queste ore organizza la protesta di un’opposizione senza capo. “La mancanza di un leader non è un problema. Questa non è una rivoluzione religiosa, dove tutti seguono un leader spirituale. Non è una rivoluzione in stile europeo, dove c’erano i leader sindacali. E’ una rivoluzione popolare: ci sono gruppi con diverse agende e diversi programmi. Ora c’è un comitato che riunisce cinque o sei leader dei manifestanti: c’è Ayman Nour, c’è Mohammed ElBaradei. Non abbiamo bisogno di un leader finché la richiesta resta unificata”.

Il FOGLIO  - Carlo Panella : " Per il loro colpo di stato, i generali hanno scelto il modello turco "


Carlo Panella

Roma. I generali egiziani hanno concluso ieri un colpo di stato alla turca. Hanno costretto Hosni Mubarak a cedere, gli hanno tolto il ruolo di baricentro della transizione, hanno consegnato a piazza Tahrir una straordinaria vittoria politica e hanno preso in prima persona il controllo pieno dello stato. E’ un golpe che ricorda da vicino quello compiuto ad Ankara dal generale Evren il 12 settembre 1980, perché anche questa iniziativa “democratica” del Consiglio supremo della Difesa si sviluppa sull’incapacità delle forze politiche di gestire la crisi. A fronte della straordinaria pressione della rivolta popolare al Cairo e in tutto il paese, nessun partito, nessun coordinamento delle opposizioni, nessun leader ha dimostrato di avere il consenso e la strategia che servono per guidare la protesta contro il regime e la fase politica della transizione. Soltanto i generali dello stato maggiore – tutti, peraltro, ampiamente compromessi con il regime di Mubarak – hanno mostrato di avere la forza e anche la capacità politica di indirizzare in positivo la forza d’urto del movimento popolare. I prossimi giorni diranno se questa manovra è stata pilotata dall’uomo di fiducia di Mubarak, il suo vice Omar Suleiman, che ha guidato per anni i servizi segreti ed è considerato un buon vicino anche dal governo di Israele, o se i generali sono riusciti a isolare anche lui. Le migliaia di persone che ancora occupano piazza Tahrir dovranno dunque tenere in considerazione questo dato di fatto: le prossime elezioni presidenziali saranno organizzate attraverso profonde riforme costituzionali, che saranno pilotate e decise da un governo saldamente controllato dai generali. I principali partiti politici (al Ghad, Kifaya, al Wafd e i Fratelli musulmani), così come il marginale ElBaradei, dovranno fare i conti con i piani, le strategie e anche le soluzioni che i militari metteranno su un tavolo di cui controllano il banco. Non è un caso che questo golpe attuato per favorire gli sviluppi democratici – com’è indubbiamente avvenuto in Turchia nel 1980 – sia nato fra generali che hanno legami strettissimi con gli Stati Uniti, che finanziano l’esercito egiziano con 1,3 miliardi di dollari l’anno. L’Egitto non fa parte della Nato, come la Turchia, ma dal 1979 sfrutta l’approvvigionamento bellico e buona parte dell’addestramento fornito dalle Forze armate americane. E’ qui il segreto della formazione ideologica di generali che – pur partecipando attivamente alle malefatte e alle ruberie del regime – nel momento della crisi e della possibile tragedia politica trovano un punto di riferimento, un senso della loro missione nazionale che li distacca completamente dalla tradizione dei generali macellai che hanno costellato la vita dei paesi arabi in decine di putsch precedenti.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Così si è bloccato il golpe dell’esercito. La notte più lunga degli agenti segreti "

WASHINGTON— A volte le «masse arabe» si ribellano, ma la «rivoluzione» la guidano i militari. Escono dalle caserme e prendono il comando. È quello che hanno provato a fare le forze armate egiziane ripetendo quanto avvenne nel 1952 con la deposizione di re Faruk. Nel «Comunicato numero 1» del Consiglio supremo, i generali affermavano di essersi mossi «per salvaguardare la Patria ed esaudire le aspirazioni del popolo» . Quel «numero 1» diceva molto. Voleva indicare l’inizio di una nuova era, ma poi è accaduto qualcosa che ha ostacolato il pronunciamento. Dopo una notte drammatica— segnata da voci di dimissioni, trattative segrete, scontri da decifrare — — Hosni Mubarak ha reinvestito Omar Suleiman bloccando, probabilmente, il golpe strisciante. Da quando è iniziata la clamorosa sfida al raìs, l’esercito ha giocato a fare la terza forza. Usando molte leve. Un apparato di 460 mila uomini. Il controllo del 35%dell’economia egiziana attraverso ex ufficiali che dirigono ogni tipo di azienda o impresa. Il rapporto privilegiato con il Pentagono che garantisce— ogni anno— aiuti per 1,3 miliardi di dollari. L’esser parte dell’establishment e al tempo stesso «al fianco del popolo» con i quadri intermedi e i soldati di leva. Una realtà difficile da interpretare per gli osservatori e non sempre compatta. Quelli che dovrebbero guidare la svolta, il ministro della Difesa Mohammed Tantawi e il capo di Stato maggiore Sami Anan, sono stati sempre considerati dagli americani come degli strumenti di Mubarak. Tantawi lo hanno definito il «cagnolino» del raìs, un uomo «anziano e contrario al cambiamento» . Eppure con i suoi interlocutori statunitensi si è lasciato andare a qualche critica verso il presidente, facendo pensare a crepe e dissidi. Non fatevi illusioni — hanno ribattuto gli scettici — sono personaggi scelti dal leader e membri di un’elite che hanno un solo obiettivo: lo status quo o comunque la stabilità dell’Egitto. Se si accorgono che la barca può andare a fondo, sono pronti a liberarsi del peso. Per mentalità, legami internazionali e interessi privati temono le svolte azzardate così come l’avanzata dei Fratelli musulmani. Un approccio che ricorda altri scenari: quello della Turchia degli anni 70 e l’Algeria del 1992, con il golpe per neutralizzare la vittoria degli islamisti del Fis. Quando l’Egitto è stato sconvolto dalla protesta, i militari si sono schierati a metà strada, tra il Palazzo e la piazza Tahrir. Ma neutrali non sono mai stati. Hanno protetto i dimostranti e hanno favorito i loro aggressori, la teppa pro-Mubarak. Poi hanno cercato di condizionare gli eventi ascoltando anche quelle voci — dall’estero e dall’interno— che chiedevano una via d’uscita dignitosa per il raìs. Quindi ancora ambiguità sul terreno. Nella mano destra il ramoscello d’ulivo teso, nella sinistra il randello usato nelle torture. Hanno represso come gli sbirri. Poi si sono messi in posizione di attesa dando tempo ai negoziati affidati al vice presidente Omar Suleiman, altro generale alla guida dei servizi dal 1993. Una soluzione che si è arenata nelle obiezioni dei dimostranti e nei cavilli costituzionali. I militari — o una parte di loro— potrebbero allora aver tentato di forzare la mano al raìs convincendolo a mettere fine all’agonia. L’apparato della sicurezza, probabilmente, ha resistito. E la guerra tra fazioni ha fatto saltare il piano, cogliendo di sorpresa Casa Bianca, Cia e diplomazie. A meno che non sia stata una grande pantomima. O peggio una provocazione per favorire la repressione. Le autorità, nelle ultime 24 ore, hanno lanciato minacce nei confronti dei dimostranti ora furiosi più che mai. Invece che scortare Mubarak fino alle spiagge di Sharm El Sheikh, i soldati potrebbero essere chiamati a proteggere la reggia con i tank. Allora forse capiremo con chi stanno veramente i generali e di cosa sono capaci.

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