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Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 10/02/2011, a pag. 3, gli articoli titolati " Ecco la pioggia di denaro che bagna i Fratelli musulmani" e " E’ nel Sinai, non a piazza Tahrir, il vero problema di Suleiman". Dal GIORNALE, a pag. 17, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Il programma dei Fratelli musulmani: La nostra costituzione è il Corano ". Da LIBERO, a pag. 21, l'articolo di Maurizio Stefanini dal titolo " Al Qaeda coi rivoluzionari: fate la guerra santa ". Il FOGLIO - " Ecco la pioggia di denaro che bagna i Fratelli musulmani"
Il FOGLIO - " E’ nel Sinai, non a piazza Tahrir, il vero problema di Suleiman" Roma. Il vicepresidente egiziano, Omar Suleiman, ha mostrato grande calma quando migliaia di giovani hanno dato alle fiamme il palazzo del Partito democratico nazionale, il movimento che ha sostenuto, sinché ha potuto, Hosni Mubarak. Persino il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, ha definito “esemplare” il lavoro svolto dall’esercito nei giorni più intensi della rivolta. Il vero problema di Suleiman, che viene dalla carriera militare e ha guidato per anni i servizi segreti, non è a piazza Tahrir, ma nel Sinai. Il livello dello scontro in questa regione è decisamente superiore rispetto al resto del paese: le forze di sicurezza affrontano sia la protesta delle tribù di beduini, che denunciano di essere discriminati dal governo centrale, sia gli attacchi di gruppi islamisti come Hamas, Jaish al Islam e Takfir wa-Hijra. E’ nel Sinai, non al Cairo, il pericolo più immediato per la stabilità dell’Egitto. E’ lì che Suleiman ha deciso di intraprendere una serie di misure straordinarie per arginare il pericolo di una guerra vera. L’esercito egiziano ha ritirato le proprie truppe dalla regione dopo l’accordo di pace firmato nel 1979 con Israele, e da allora la zona è ufficialmente demilitarizzata. La scorsa settimana, tuttavia, il governo di Gerusalemme ha autorizzato i vicini a schierare ottocento uomini nel Sinai. La mossa non è bastata a fermare i miliziani, che avrebbero già organizzato una serie di basi operative nella regione. Sabato, quattro uomini a bordo di due auto hanno fatto irruzione in un impianto energetico di el Arish, hanno sfondato le recinzioni e hanno fatto saltare un gasdotto che alimenta Israele e la Giordania – fonti locali dicono che un altro ordigno è stato disinnescato poche ore più tardi. Il giorno seguente, le squadre speciali sono state impegnate in uno scontro a fuoco durato due ore lungo il valico di Rafah, al confine con i Territori palestinesi. Il New York Times scrive che la polizia e alcune tribù locali hanno respinto un gruppo di uomini armati di fucili e granate. Il posto di frontiera è ora chiuso per impedire che gli uomini di Hamas alimentino i disordini sul territorio egiziano. Suleiman ritiene che gli ottocento militari arrivati nel Sinai la scorsa settimana non siano abbastanza per tenere sotto controllo gli islamisti, e ha chiesto il permesso di aumentare gli armati. Questa volta, la risposta del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è stata negativa, riporta il quotidiano Maariv. Netanyahu sa quanto sia pericolosa la situazione: i rapporti dei suoi ministri dicono che almeno un migliaio di miliziani sarebbero filtrati in Egitto per contribuire agli scontri. Fra questi ci sono gli uomini di Jaish al Islam, un gruppo palestinese legato ad Hamas e ad al Qaida, che avrebbe già trasferito decine di operativi nel Sinai. La mossa permette loro di sfuggire dalle operazioni antiterrorismo dell’esercito israeliano, e di pianificare con più calma i loro attacchi. Nella regione sono arrivati anche decine di miliziani di Hamas e di Hezbollah che sono riusciti a evadere dalle carceri del Cairo, come ha ammesso lo stesso Suleiman. Per il vicepresidente, questa regione ha un’importanza strategica: perdere il controllo del Sinai significa mettere in pericolo il passaggio delle navi attraverso il canale di Suez, ovvero la più grande fonte di reddito del paese – dopo gli aiuti che arrivano dagli Stati Uniti. Il premier egiziano, Ahmed Shafiq, ha detto ieri che i transiti commerciali proseguono senza problemi, ma nelle strade di Suez continuano le proteste e gli scioperi. Nessuno vorrebbe vedere la città sotto il tiro degli islamisti, anche perché il Cairo è lontana soltanto 130 chilometri. Proprio ieri, sei navi da guerra della marina americana sono arrivate nel canale: la sicurezza del Sinai è un problema di Suleiman, ma interessa da vicino anche le potenze straniere.Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Il programma dei Fratelli musulmani: La nostra costituzione è il Corano "
Si chiamano Fratelli musulmani. Sono l’ultima, disinvolta illusione di tanti intellettuali, politici e giornalisti. Dagli Stati Uniti a casa nostra. Incuranti degli svarioni di chi trent’anni fa spacciava come sinceri democratici persino Pol Pot e l’ayatollah Khomeini i nuovi candidi sognatori non vedono l’ora di mettere alla prova anche gli islamisti d’Egitto. Poi magari finisce come in Cambogia o in Iran. Ma che importa? L’importante è sognare. Poi si può sempre chieder scusa. Come fecero i sognatori del ‘75 davanti ai cadaveri dei Killing Fields. Come rifecero gli illusi del ’79 quando Khomeini liquidò tutti i «rivoluzionari» poco allineati. LIBERO - Maurizio Stefanini : " Al Qaeda coi rivoluzionari: fate la guerra santa"
C’è da prendere sul serio la branca irachena di Al Qaeda che ieri ha chiamato i manifestanti egiziani al jihad ed a costruire un governo basato sulla Sharia? «Si è aperto il mercato della Guerra Santa e si sono schiuse le porte del martirio», dice l’appello via web a «tutti gli egiziani deboli e oppressi», per proclamare una battaglia «a favore di ogni musulmano che sia stato raggiunto dall’oppressione del tiranno d’Egitto e dei suoi padroni a Washington e Tel Aviv». Ora, già il fatto che il messaggio arrivi dal’Iraq è significativo. Dopo essere stato represso con Nasser e favorito da Sadat come strumento per controbilanciare l’influenza marxista e filo-sovietica che era filtrata attraverso il nasserismo, l’integralismo islamico radicale si era rivoltato contro lo stesso Sadat dopo la pace con Israele fino ad ucciderlo; ma proprio il delitto aveva scatenato Mubarak contro lo stesso estremismo islamico radicale con la massima energia. È vero che i jihadisti hanno continuato ogni tanto a colpire in Egitto: anche di recente con la strage alla chiesa di Alessandria. Masostanzialmente la parte più determinata dei militanti se ne è andata, purtroppo per colpire anche da noi. «La valle del Nilo si trova tra due vasti deserti senza vegetazione o acqua, che rende l’area impraticabile per una guerra di guerriglia, e che rende anche il popolo egiziano docile verso l’autorità centrale», aveva detto negli anni ’80 Ayman al-Zawahiri: il medico di illustre famiglia che dopo essere diventato il leader di Jihad Islami egiziana l’ha portata a confluire con Al Qaeda, di cui è oggi il numero due dopo Osama Bin Laden. Una ragione poi per cui al-Zawahiri aveva rotto con i Fratelli Musulmani era stata la sua accusa al gruppo di «apostasia» per indulgere all’idea del voto popolare, quando la democrazia è «una religione nemica dell’islam». E quest’ultimo appello incita appunto gli egiziani a ignorare «i percorsi deludenti» della democrazia e del «putrido nazionalismo pagano ». Insomma, a Al Qaeda va bene che Mubarak cada: ma non se è per dare spazio a una democrazia liberale. Possiamo stare tranquilli, allora, che il percorso egiziano sta prendendo la direzione giusta? Purtroppo no. Ad esempio, proprio in concomitanza con questo appello i Fratelli Musulmani si sono improvvisamente irrigiditi, ed hanno congelato quel dialogo col regime che era sembrato quasi portarli sul punto di partecipare a un governo di transizione. Magari non temono di essere scavalcati da Al Qaeda, ma corrono semplicemente appresso a un riprendere dell’irritazione popolare. Ma il dubbio viene, che se non ora in breve i comunicati di Al Qaeda finiscano per condizionare tutto il gioco politico. Proclami a parte, poi, c’è il problema concreto della gran quantità di qaidisti che stavano chiusi nelle carceri egiziane, e che hanno approfittato della baraonda per scappare. Lo stesso vicepresidente Suleiman ha lanciato l’allarme, parlando anche della necessità di «impegnarsi a fondo perché tornino in carcere ». Insomma: non solo c’è l’ap - pello; ci sono anche i «manovali del terrore» già pronti a raccoglierlo. E il recente attentato al gasdotto del Sinai fa venire pure il dubbio che abbiano già iniziato a farlo. Poi ci sono pure una ventina di evasi appartenenti a una cellula egiziana di Hezbollah; ma quelli si sarebbero già rifugiati in Libano o a Gaza. Per inviare la propria opinione a Foglio, Giornale, Libero, cliccare sulle e-mail sottostanti lettere@ilfoglio.it segreteria@ilgiornale.it lettere@libero-news.eu |
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