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Il Foglio - Il Giornale - Libero Rassegna Stampa
10.02.2011 Fratelli Musulmani, il pericolo maggiore per l'Egitto
Cronache e commenti della Redazione del Foglio, Gian Micalessin, Maurizio Stefanini

Testata:Il Foglio - Il Giornale - Libero
Autore: La redazione del Foglio - Gian Micalessin - Maurizio Stefanini
Titolo: «Ecco la pioggia di denaro che bagna i Fratelli musulmani - Il programma dei Fratelli musulmani: La nostra costituzione è il Corano - Al Qaeda coi rivoluzionari: fate la guerra santa»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 10/02/2011, a pag. 3, gli articoli titolati "  Ecco la pioggia di denaro che bagna i Fratelli musulmani" e "  E’ nel Sinai, non a piazza Tahrir, il vero problema di Suleiman". Dal GIORNALE, a pag. 17, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Il programma dei Fratelli musulmani: La nostra costituzione è il Corano ". Da LIBERO, a pag. 21, l'articolo di Maurizio Stefanini dal titolo " Al Qaeda coi rivoluzionari: fate la guerra santa ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - "  Ecco la pioggia di denaro che bagna i Fratelli musulmani"


Fratelli Musulmani

Roma. Il magnate egiziano Naguib Sawiris ieri alla Fox News ha detto che c’è il serio pericolo che i Fratelli musulmani si impadroniscano del potere: “Il problema con questa gente è che dicono di volere la democrazia, e così vengono eletti. Poi ti trovi la versione iraniana di democrazia in cui sparano alla propria gente”. Da dove arriva il fiume di denaro dei Fratelli musulmani, il principale blocco di potere alternativo a Mubarak? Il regime ha sempre ricorso alla repressione finanziaria del movimento. Appena due anni fa Mubarak fece arrestare Khaitar El Shater e Hassan Malek, i due businessmen egiziani vicini al gruppo islamico. Ma il potere economico della Fratellanza è andato sempre crescendo. Il fondatore del movimento, Hassan al Banna, plasmò l’organizzazione anche come “compagnia economica”. La prima azienda della Fratellanza operava nel campo tessile quando l’Egitto era un pilastro dell’economia imperiale britannica. Poi il regime di Nasser, distruggendo le attività finanziarie del movimento, costrinse gli affiliati a rivolgersi alla carità privata. Ancora oggi un quarto delle spese della Fratellanza sono coperte dai contributi obbligatori che si richiedono a ogni iscritto. La liberalizzazione economica voluta dal regime di Sadat spinse i Fratelli a riportare i capitali in patria. Grandi magnati con simpatie islamiste hanno iniziato a sostenere il movimento, da Osman Ahmed Osman, che con la sua Arab Contractors dà lavoro a 70 mila persone, a Akef El-Maghrabi, ai vertici dell’industria ottica. Alla fine degli anni Settanta una nuova borghesia islamista prese piede al Cairo, investendo in campo immobiliare, medico, scolastico, automobilistico e alimentare. Spezzoni dell’economia un tempo completamente statali divennero decisivi per le fortune della Fratellanza. Oggi il gruppo gestisce i pellegrinaggi religiosi alla Mecca (sono 700 mila ogni anno i pellegrini egiziani). Sebbene l’Egitto sia un colosso dell’economia del mondo arabo, scarsissimo è il peso della finanza islamica, tanto che persino l’ex capo di al Azhar, Al Tantawi, ha avallato gli interessi di stato, in una mossa del regime per combattere le banche islamiche vicine ai Fratelli musulmani. La Fratellanza ha iniziato a diffondersi in tutti i paesi arabi costituendo una rete finanziaria molto potente, che via via ha acquistato un peso sempre più rilevante anche in Europa. Durante le indagini seguite agli attentati dell’11 settembre, gli inquirenti perquisirono molte abitazioni di dirigenti di al Taqwa, una banca islamica con sede a Lugano che in arabo significa “Paura di Dio”, sperando di risalire ai canali di finanziamento di al Qaida. Si imbatterono in un documento che descriveva la strategia finanziaria dei Fratelli musulmani. Le attività europee erano iniziate nel 1977 con la fondazione della Banca islamica del Lussemburgo: soltanto sei anni più tardi la loro rete contava sette società finanziarie distribuite tra Lussemburgo, Danimarca, Londra, isole Cayman e Stati Uniti. Decisive per la Fratellanza sono l’imprenditoria culturale, la rete di alberghi e la beneficenza straniera, in particolare dall’Arabia Saudita e dai paesi del Golfo. Lo scorso anno per la prima volta un ente saudita è stato incriminato da un tribunale egiziano per aver finanziato la Fratellanza. E a gennaio altri cinque Fratelli sono stati incriminati al Cairo per aver raccolto denaro nel Regno Unito. In un paese sempre più islamizzato come l’Egitto, anche la “zakat”, l’obolo, uno dei cinque pilastri dell’islam, va a rafforzare le finanze del movimento. E’ un serbatoio monetario non indifferente per la Fratellanza. Un’economia della beneficenza, coperta dal segreto sul destinatario finale dei fondi, che da sempre nella umma, la comunità dei musulmani, salda il legame tra imam, mercanti e fedeli.

Il FOGLIO - "  E’ nel Sinai, non a piazza Tahrir, il vero problema di Suleiman"

Roma. Il vicepresidente egiziano, Omar Suleiman, ha mostrato grande calma quando migliaia di giovani hanno dato alle fiamme il palazzo del Partito democratico nazionale, il movimento che ha sostenuto, sinché ha potuto, Hosni Mubarak. Persino il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, ha definito “esemplare” il lavoro svolto dall’esercito nei giorni più intensi della rivolta. Il vero problema di Suleiman, che viene dalla carriera militare e ha guidato per anni i servizi segreti, non è a piazza Tahrir, ma nel Sinai. Il livello dello scontro in questa regione è decisamente superiore rispetto al resto del paese: le forze di sicurezza affrontano sia la protesta delle tribù di beduini, che denunciano di essere discriminati dal governo centrale, sia gli attacchi di gruppi islamisti come Hamas, Jaish al Islam e Takfir wa-Hijra. E’ nel Sinai, non al Cairo, il pericolo più immediato per la stabilità dell’Egitto. E’ lì che Suleiman ha deciso di intraprendere una serie di misure straordinarie per arginare il pericolo di una guerra vera. L’esercito egiziano ha ritirato le proprie truppe dalla regione dopo l’accordo di pace firmato nel 1979 con Israele, e da allora la zona è ufficialmente demilitarizzata. La scorsa settimana, tuttavia, il governo di Gerusalemme ha autorizzato i vicini a schierare ottocento uomini nel Sinai. La mossa non è bastata a fermare i miliziani, che avrebbero già organizzato una serie di basi operative nella regione. Sabato, quattro uomini a bordo di due auto hanno fatto irruzione in un impianto energetico di el Arish, hanno sfondato le recinzioni e hanno fatto saltare un gasdotto che alimenta Israele e la Giordania – fonti locali dicono che un altro ordigno è stato disinnescato poche ore più tardi. Il giorno seguente, le squadre speciali sono state impegnate in uno scontro a fuoco durato due ore lungo il valico di Rafah, al confine con i Territori palestinesi. Il New York Times scrive che la polizia e alcune tribù locali hanno respinto un gruppo di uomini armati di fucili e granate. Il posto di frontiera è ora chiuso per impedire che gli uomini di Hamas alimentino i disordini sul territorio egiziano. Suleiman ritiene che gli ottocento militari arrivati nel Sinai la scorsa settimana non siano abbastanza per tenere sotto controllo gli islamisti, e ha chiesto il permesso di aumentare gli armati. Questa volta, la risposta del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è stata negativa, riporta il quotidiano Maariv. Netanyahu sa quanto sia pericolosa la situazione: i rapporti dei suoi ministri dicono che almeno un migliaio di miliziani sarebbero filtrati in Egitto per contribuire agli scontri. Fra questi ci sono gli uomini di Jaish al Islam, un gruppo palestinese legato ad Hamas e ad al Qaida, che avrebbe già trasferito decine di operativi nel Sinai. La mossa permette loro di sfuggire dalle operazioni antiterrorismo dell’esercito israeliano, e di pianificare con più calma i loro attacchi. Nella regione sono arrivati anche decine di miliziani di Hamas e di Hezbollah che sono riusciti a evadere dalle carceri del Cairo, come ha ammesso lo stesso Suleiman. Per il vicepresidente, questa regione ha un’importanza strategica: perdere il controllo del Sinai significa mettere in pericolo il passaggio delle navi attraverso il canale di Suez, ovvero la più grande fonte di reddito del paese – dopo gli aiuti che arrivano dagli Stati Uniti. Il premier egiziano, Ahmed Shafiq, ha detto ieri che i transiti commerciali proseguono senza problemi, ma nelle strade di Suez continuano le proteste e gli scioperi. Nessuno vorrebbe vedere la città sotto il tiro degli islamisti, anche perché il Cairo è lontana soltanto 130 chilometri. Proprio ieri, sei navi da guerra della marina americana sono arrivate nel canale: la sicurezza del Sinai è un problema di Suleiman, ma interessa da vicino anche le potenze straniere.

Il GIORNALE  - Gian Micalessin : " Il programma dei Fratelli musulmani: La nostra costituzione è il Corano "


Gian Micalessin

Si chiamano Fratelli musulma­ni. Sono l’ultima, disinvolta illusio­ne di tanti intellettuali, politici e giornalisti. Dagli Stati Uniti a casa nostra. Incuranti degli svarioni di chi trent’anni fa spacciava come sinceri democratici persino Pol Pot e l’ayatollah Khomeini i nuovi can­didi sognatori non vedono l’ora di mettere alla prova anche gli islami­sti d’Egitto. Poi magari finisce come in Cambogia o in Iran. Ma che im­porta? L’importante è sognare. Poi si può sempre chieder scusa. Come fecero i sognatori del ‘75 davanti ai cadaveri dei Killing Fields. Come ri­fecero gli illusi del ’79 quando Kho­meini liquidò tutti i «rivoluzionari» poco allineati.
Stavolta, però, le scuse non sono ammesse. Stavolta orientamenti e tendenze dei Fratelli musulmani so­no chiari. Emergono con evidenza dalle piattaforme programmatiche del movimento. Risuonano con chiarezza nei discorsi dei loro capi. Per capire come la pensino non oc­corre scomodare il padre fondato­re, quel professor Hassad al Banna ispiratore già nel 1928 del famoso motto «Il Corano è la nostra costitu­zione, il Profeta è il nostro leader, la guerra santa la nostra via, la morte per Allah la più alta delle aspirazio­ni ». E non occorre neppure leggere Pietre miliari di Sayyd Al Quts, il li­briccino dell’ideologo della Fratel­lanza diventato- dopo l’impiccagio­ne del suo autore al Cairo nel 1966 ­il vangelo di tutti i gruppi fonda­mentalisti. Per capirlo basta sfoglia­re la piattaforma programmatica messa a punto - dopo il 2005 - dalla cupola politica del movimento. Quel documento chiarisce imme­diatamente che nessuno degli otto milioni di cristiani copti- e tantome­no qualche altro «infedele» - dovrà mai sognarsi di guidare l’Egitto.«Ri­teniamo che i doveri della presiden­za e del premier – recita testualmen­te il documento - vadano contro il credo dei non-musulmani. Conse­guentemente un non-musulmano ne deve venir esentato». E se anzi­ché esser nato copto sei nato femmi­na il discorso non cambia. Anche in questo caso l’aspirazione alla presi­d­enza resta un’impensabile ed ere­tico tabù. «Riteniamo che il ruolo di presidente e ancor più quello di co­mandante dell’esercito – spiega la piattaforma politica - non possa es­sere affidato ad una donna in quan­to in aperta contraddizione con la sua natura».
Avete capito bene. Il movimento egiziano spacciato come riformato­re e liberale dai soliti benpensanti non ritiene che la carica di presiden­te o
di capo militare del paese si ad­dica a una natura femminea. Ma la parte peggiore di quel documento riguarda turiste e turisti. Fino ad og­gi nessu­no frequentatore delle Pira­midi o del Mar Rosso ha mai dovuto porsi il problema di coprirsi il capo con un velo perché donna o di ri­nunciare a una birra. Almeno non a norma di legge. Con i «fratellini» al potere tutto cambierebbe. «Tutte le attività connesse con il turismo de­vono essere in linea con i principi islamici – annuncia il programma del 2007 aggiungendo che - la sha­ria autorizza i non musulmani a se­guire comportamenti vietati ai fede­li musulmani, ma soltanto ed esclu­sivamente in privato». Sulle spiag­ge di Sharm El Sheik, insomma, so­lo immersioni in pigiama. E pranzo e a cena solo dei grandi bicchieroni d’acqua fresca.
In compenso i pacifici Fratelli pro­mettono di trascinare il Paese verso una nuova stagione di scontro con Israele. Affrontando il problema dei rapporti con lo stato ebraico la carta ammicca alla necessità di rive­dere o addirittura abolire il trattato di pace firmato da Sadat. «Rivedere i trattati di pace e accordi bilaterali ­sentenzia il documento- è una pra­tica accettata nelle relazioni inter­nazionali ». E a farci meglio capire cosa nasconda dietro quella formu­la ci pensa l’attuale capo della Fra­tellanza musulmana Mohammad Badi. In un discorso dello scorso set­tembre spiega innanzitutto che «La fonte di ogni autorità è il Corano e non le risoluzioni Onu». Subito do­po invita a «metter fine agli stupidi negoziati diretti o indiretti ed ap­poggiare ogni forma di resistenza per liberare tutte le terre occupate in Palestina, Irak, Afghanistan». Con buona pace di sognatori, illusi
e pacifisti di casa nostra.

LIBERO - Maurizio Stefanini : " Al Qaeda coi rivoluzionari: fate la guerra santa"

C’è da prendere sul serio la branca irachena di Al Qaeda che ieri ha chiamato i manifestanti egiziani al jihad ed a costruire un governo basato sulla Sharia? «Si è aperto il mercato della Guerra Santa e si sono schiuse le porte del martirio», dice l’appello via web a «tutti gli egiziani deboli e oppressi», per proclamare una battaglia «a favore di ogni musulmano che sia stato raggiunto dall’oppressione del tiranno d’Egitto e dei suoi padroni a Washington e Tel Aviv». Ora, già il fatto che il messaggio arrivi dal’Iraq è significativo. Dopo essere stato represso con Nasser e favorito da Sadat come strumento per controbilanciare l’influenza marxista e filo-sovietica che era filtrata attraverso il nasserismo, l’integralismo islamico radicale si era rivoltato contro lo stesso Sadat dopo la pace con Israele fino ad ucciderlo; ma proprio il delitto aveva scatenato Mubarak contro lo stesso estremismo islamico radicale con la massima energia. È vero che i jihadisti hanno continuato ogni tanto a colpire in Egitto: anche di recente con la strage alla chiesa di Alessandria. Masostanzialmente la parte più determinata dei militanti se ne è andata, purtroppo per colpire anche da noi. «La valle del Nilo si trova tra due vasti deserti senza vegetazione o acqua, che rende l’area impraticabile per una guerra di guerriglia, e che rende anche il popolo egiziano docile verso l’autorità centrale», aveva detto negli anni ’80 Ayman al-Zawahiri: il medico di illustre famiglia che dopo essere diventato il leader di Jihad Islami egiziana l’ha portata a confluire con Al Qaeda, di cui è oggi il numero due dopo Osama Bin Laden. Una ragione poi per cui al-Zawahiri aveva rotto con i Fratelli Musulmani era stata la sua accusa al gruppo di «apostasia» per indulgere all’idea del voto popolare, quando la democrazia è «una religione nemica dell’islam». E quest’ultimo appello incita appunto gli egiziani a ignorare «i percorsi deludenti» della democrazia e del «putrido nazionalismo pagano ». Insomma, a Al Qaeda va bene che Mubarak cada: ma non se è per dare spazio a una democrazia liberale. Possiamo stare tranquilli, allora, che il percorso egiziano sta prendendo la direzione giusta? Purtroppo no. Ad esempio, proprio in concomitanza con questo appello i Fratelli Musulmani si sono improvvisamente irrigiditi, ed hanno congelato quel dialogo col regime che era sembrato quasi portarli sul punto di partecipare a un governo di transizione. Magari non temono di essere scavalcati da Al Qaeda, ma corrono semplicemente appresso a un riprendere dell’irritazione popolare. Ma il dubbio viene, che se non ora in breve i comunicati di Al Qaeda finiscano per condizionare tutto il gioco politico. Proclami a parte, poi, c’è il problema concreto della gran quantità di qaidisti che stavano chiusi nelle carceri egiziane, e che hanno approfittato della baraonda per scappare. Lo stesso vicepresidente Suleiman ha lanciato l’allarme, parlando anche della necessità di «impegnarsi a fondo perché tornino in carcere ». Insomma: non solo c’è l’ap - pello; ci sono anche i «manovali del terrore» già pronti a raccoglierlo. E il recente attentato al gasdotto del Sinai fa venire pure il dubbio che abbiano già iniziato a farlo. Poi ci sono pure una ventina di evasi appartenenti a una cellula egiziana di Hezbollah; ma quelli si sarebbero già rifugiati in Libano o a Gaza.

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