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Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
02.02.2011 Egitto, dossier Fratelli Musulmani
Analisi di Gian Micalessin, redazione del Foglio, Bernard-Henri Lévy, Vittorio Emanuele Parsi

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Gian Micalessin - Redazione del Foglio - Bernard-Henri Lévy - Vittorio Emanuele Parsi
Titolo: «Ecco perché i Fratelli Musulmani devono farci paura - Trama, prega, aspetta. Così i Fratelli musulmani cercano di prendere il Cairo - La pesante ipoteca dei fondamentalisti»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 02/02/2011, a pag. 12, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Ecco perché i Fratelli Musulmani devono farci paura ". Dal FOGLIO,a pag. I, l'articolo dal titolo " Trama, prega, aspetta. Così i Fratelli musulmani cercano di prendere il Cairo ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 6, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " La pesante ipoteca dei fondamentalisti ". Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Fratelli musulmani, un dialogo da aprire ", preceduto dal nostro commento.

( in alto a destra, Egitto, il futuro prossimo in arrivo ? )

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Ecco perché i Fratelli Musulmani devono farci paura "


Gian Micalessin

I soliti illusi dell’informazione nostrana sono eccitati. Vedono le piazze egiziane muoversi a ritmo di twitter ed internet e vanno in brodo di giuggiole. Ascoltano i Fratelli Musulmani chiedere elezioni e li promuovono al rango di sinceri democratici. Dimenticano che anche Khomeini era al passo con i tempi e usava le cassette audio per distribuir sermoni e beffare la censura. Dimenticano il “credo” della Fratellanza Musulmana che recita «Il Corano è la nostra costituzione, il Profeta è il nostro leader, la guerra santa la nostra via, la morte per Allah la più alta delle aspirazioni».

Per fortuna a chiamar le cose con il loro nome ci pensano gli iraniani e i loro sodali libanesi di Hezbollah. Per il ministro degli Esteri di Teheran Ali Akbar Salehi la rivolta egiziana segna la fine «del controllo della regione da parte dell’ arroganza globale». Per lui la protesta anti Mubarak «garantirà la nascita di un Medio Oriente islamico ... in grado di contrapporsi all’occupazione sionista». Ancor più chiaro parla il numero due di Hezbollah Sheikh Naeem congratulandosi con «l’orgoglioso popolo egiziano per il suo rifiuto di ogni rapporto con Israele e l’aspirazione alla libertà, all’indipendenza e alla dignità».

Gli schieramenti sembrerebbero chiari. Da una parte ci sono l’Occidente, il vice presidente Omar Suleiman e l’esercito egiziano uniti dall’idea di garantire una transizione ordinata alle elezioni salvando il Paese da caos, fondamentalismo e violenza. Dall’altra ci sono l’Iran, i suoi alleati e gli integralisti decisi a spezzare i legami tra Cairo e Occidente, cancellare la pace con Israele e imporre uno Stato confessionale governato dalla sharia. Ma tutto ciò non basta a convincere illusi e “anime belle”. Per loro non contano i fatti, ma le parole. Quelle con cui in un’intervista il portavoce Essam Eryan smentisce le aspirazioni della Fratellanza Musulmana ad un “emirato islamico” e dichiara che «i cristiani copti dovrebbero avere gli stessi diritti dei musulmani». Quelle parole diventano la prova più evidente dell’ambiguità, della doppiezza e della pericolosità della Fratellanza Musulmana. La moderazione mediatica del signor Eryan fa a pugni con le tesi del Dottor Muhammad Badi, nominato un anno fa “Guida” della Fratellanza Musulmana egiziana. Sentite con quale moderazione, il 7 marzo 2010, il Dottor Badi discetta di rapporti internazionali sul sito ufficiale della Fratellanza Musulmana egiziana (www.ikhwanonline.com ): «Bisogna metter fine agli assurdi negoziati, sia diretti che indiretti, ed appoggiare tutte le forme di resistenza per liberare ogni pezzo di terra occupata in Palestina, Iraq, Afghanistan e nel resto del mondo musulmano. La fonte della vostra autorità, come concordano gli studiosi di religione - spiega Bani rivolgendosi ai governanti arabi - sono il Corano e la Sunna e non le risoluzioni dell’Onu o i diktat sionisti e americani».

Certo neppure questo convince le “anime belle”. Loro suggeriscono di studiare programmi e manifesti politici. Quello che più li soddisfa viene varato dai Fratelli Musulmani alla vigilia delle elezioni del 2005. Eppure anche qui il sotterfugio usato per attribuirsi una patente di riformismo democratico è palese. Quel documento non orienta l’intero movimento, ma solo l’attività politica dei rappresentanti mandati in Parlamento. E manco così il giochino funziona. Il retroterra integralista nascosto sotto il tappeto salta fuori ad ogni passo. È proprio la carta del 2005 a discriminare i cristiani copti, sostenendo che le più alte cariche del Paese (presidenza e premier) devono andare solo ai musulmani. È proprio la Carta del 2005 a ricordare di difendere la bontà della sharia in ogni dibattito politico e di battersi per la creazione di un collegio d’esperti religiosi a cui affidare la ratifica delle leggi votate dal Parlamento. Se non è Emirato cos’è? Forse una sua forma più sofisticata. Forse una Repubblica Islamica assai simile a quella iraniana, dove l’organo chiamato a verificare la rispondenza delle leggi alla religione esiste già e si chiama Consiglio dei Guardiani. Ma le “anime belle” risponderebbero di non fare di tutta l’erba un fascio, garantirebbero la buona fede dei futuri candidati del movimento. Ed allora godetevi la moderazione del “fratello musulmano” Rajab Hilal Hamida che nel 2006, dall’alto del suo scranno parlamentare così declama: «Dal mio punto di vista Bin Laden, Al Zawahiri e Al Zarqawi non sono terroristi nel senso accettato da qualcuno. Io appoggio tutte le loro attività, dal momento che sono una spina nel fianco di americani ed egiziani... Per questo dobbiamo chiamare le cose con il loro nome».
E voi care “anime belle” i Fratelli Musulmani come li chiamate? Sinceri democratici o astuti integralisti?

Il FOGLIO - " Trama, prega, aspetta. Così i Fratelli musulmani cercano di prendere il Cairo "

Il Cairo. Erano oltre un milione le persone che hanno invaso ieri le strade del Cairo per chiedere le dimissioni del loro presidente, Hosni Mubarak, al potere da trent’anni. E’ la più grande manifestazione che l’Egitto abbia mai visto, e molti analisti si interrogano sul ruolo svolto da un gruppo islamista, i Fratelli musulmani, in questa protesta. La Fratellanza è uno degli schieramenti più radicali fra quelli che riempiano le piazze egiziane. Negli ultimi due giorni ha fatto sapere che non ci sarà nessuna trattativa con il dittatore, che il tempo delle parole è finito e che Mubarak farebbe meglio a lasciare il paese. Eppure, i Fratelli musulmani non sono stati fra i primi a scendere in strada. Hanno appoggiato le proteste, ma hanno mantenuto una posizione defilata sino a venerdì, quando hanno deciso di prendere parte ai cortei, alle preghiere e, probabilmente, anche agli scontri degli ultimi giorni. “Si sono accorti che stavano perdendo un’occasione”, dice al Foglio Hisham Kassem, editore e analista politico egiziano. Il suo punto di vista è condiviso da molti a piazza Tahrir, nel centro del Cairo. Ora migliaia di persone si fermano a pregare in strada, ma pochi giorni fa non si poteva gridare “Allah akbar” senza sollevare segni di disapprovazione. “C’è un accordo con i Fratelli musulmani: niente slogan religiosi durante le proteste”, spiegano alcuni attivisti vicini al nuovo capo dell’opposizione, Mohammed ElBaradei, che ha il sostegno anche della Fratellanza. Nelle piazze del Cairo cominciano a emergere le divisioni fra i manifestanti. Secondo un ex membro del gruppo islamista, Ahmed Abdallah, “ci sono grandi differenze fra i giovani dei Fratelli musulmani e la vecchia guardia del movimento”. Gli attivisti fra i 20 e i 25 anni hanno raccolto l’invito a partecipare alle manifestazioni individualmente, spiega Abdallah, e hanno così obbligato la leadership del movimento a sbilanciarsi con il passare dei giorni. “I capi temono che la loro partecipazione alle manifestazioni possa spaventare la comunità internazionale, dando così al regime la possibilità di mettere un’etichetta negativa sulle manifestazioni”. La Fratellanza è divisa anche perché il regime ha arrestato molti suoi membri alle elezioni parlamentari di novembre, ma il suo potere è ancora grande. Se si votasse oggi, sostiene l’analista Kassem, i Fratelli musulmani otterrebbero tra il 30 e il 40 per cento dei voti. Quella percentuale potrebbe scendere dopo un periodo di transizione di quattro o cinque anni, quando gli altri partiti avranno avuto tempo di organizzarsi, dice l’esperto. “La struttura del gruppo è solida, ma mancano le idee e le strategie. Loro sono i più forti in questo momento soltanto perché gli altri sono deboli”. Per Gamal Abdel Gawad Soltan, il presidente del Centro di studi politici e strategici dell’Ahram, al contrario, la scelta di mantenere il basso profilo fa parte di una “campagna orchestrata dalla Fratellanza per impossessarsi delle manifestazioni” e trarne vantaggio. “Si tratta di una preoccupazione per molti egiziani – dichiara – I Fratelli musulmani saranno il movimento più importante e meglio organizzato della protesta. Se la piazza otterrà quello che chiede, la Fratellanza potrà prendere il potere e smantellare la Costituzione”. In strada non c’è soltanto l’islam dei Fratelli musulmani: sono arrivati anche alcuni imam di Al Azhar, la più prestigiosa istituzione sunnita del paese, che si trova nel cuore del Cairo. Erano vestiti con la kakola, la tipica casacca rigida e il turbante bianco e nero, l’uniforme degli ex studenti dell’università islamica. Al Azhar è un’istituzione religiosa strettamente controllata dal regime, per arginare derive fondamentaliste. “Questa è una rivoluzione popolare, non islamica – dice l’imam Atif Zidan – Mubarak ha perso la sua legittimità nel momento in cui ha versato il sangue degli egiziani. E non abbiamo più il dovere di obbedirgli. Anche noi vogliamo il cambiamento”. E’ singolare vedere gli uomini di Al Azhar che protestano contro il regime. Ora è arrivato anche il loro momento: chiedono la possibilità di nominare il loro imam, un compito che oggi spetta alle autorità. “Il governo ha cercato soltanto di indebolirci – spiega Atif Zidan – i Fratelli musulmani fanno circolare la causa islamica, ma sono parte del popolo. E oggi, in piazza, non c’è religione”.

CORRIERE ella SERA - Bernard-Henri Lévy : " La pesante ipoteca dei fondamentalisti "


Bernard-Henri Lévy 

La pesante ipoteca dei fondamentalisti è uno dei punti in comune tra la rivoluzione del Gelsomino in Tunisia e la rivolta che, di giorno in giorno, cresce in Egitto. Ci sono certamente alcuni punti in comune fra la rivoluzione del Gelsomino in Tunisia e la rivolta, oggi, dell’Egitto. Il dispotismo di Mubarak è abietto almeno quanto quello di Ben Ali: lo stesso muro della paura che cade, i cento fiori di una libertà di parola ugualmente inedita e che si schiudono un po'ovunque. Non si diceva forse, in Egitto, che l'unico luogo dove si aveva il diritto di aprire la bocca era nello studio di un dentista? La bellezza dell'insurrezione; la sua dignità; la catena umana, per esempio, che si è spontaneamente organizzata per proteggere il museo del Cairo dall'intrusione dei vandali. La domanda di democrazia: da tempo ci veniva con insistenza ripetuto che esistono popoli ontologicamente estranei alla rivendicazione democratica e che non ne hanno diritto! Ebbene, è stato dimostrato che non è vero, al Cairo come a Tunisi. Non parlo del disagio delle grandi potenze, che è uguale nei confronti di Egitto e Tunisia, e della Cina (bisognerà pure abituarsi a situarla in prima fila delle più potenti fra le grandi potenze) che ha bloccato la parola «Egitto» sulla sua rete dimicro-blogging Sinai! Resta il fatto, tuttavia, che le situazioni non sono le stesse e le differenze, piaccia o meno al pensiero preconfezionato, prevalgono sui punti comuni. Mubarak, in primo luogo, non è del tutto paragonabile a Ben Ali e, despota per despota, offrirà una resistenza più coriacea: come testimonia l'abilità politica con cui, fin dalle prime ore del movimento, ha ritirato la propria polizia, aperto le porte delle prigioni e lasciato che i delinquenti irrompessero nella capitale e terrorizzassero le classi medie. Il regime di Ben Ali, in secondo luogo, era un regime poliziesco, mentre quello di Mubarak è una dittatura militare: i regimi polizieschi, con le proprie reti di agenti che fanno il doppio gioco e poliziotti infiltrati, resistono finché i popoli hanno paura e cadono quando questi si rivoltano; le dittature militari, che ci sia una rivolta o meno, resistono finché resiste l'esercito e crollano quando l'esercito li molla. L'esercito egiziano non è, appunto, l'esercito tunisino: esso diede vita al regime di Nasser; fu il pilastro di Sadat; oggi, al termine di trent'anni di Stato d'eccezione, è l'ossatura, non soltanto dello Stato, ma di una parte della società: possiamo immaginare che questo esercito spinga Mubarak su un aereo con la stessa velocità con cui vi fu spinto Ben Ali — e non mantenga, in un modo o nell'altro, il controllo del Paese? La democrazia si impara rapidamente; nulla e nessuno, lo ripeto, può far sì che una società sia condannata alla non-democrazia; salvo il fatto — sarebbe assurdo negarlo— che la maturità del popolo tunisino, la sua cultura politica, il suo livello di alfabetizzazione non si trovano, per ora, né nelle zone rurali dell'Alto Egitto, né nella megalopoli del Cairo, con quartieri all'abbandono dove, come a Shoubra, al nord, milioni di abitanti hanno come unico orizzonte i due dollari al giorno che permetteranno loro di sopravvivere fino all'indomani. Infine, sull'Egitto pesa un'ipoteca che, in Tunisia, poteva essere considerata trascurabile, quella dell'islamismo radicale: che i Fratelli musulmani del Cairo siano stati, fino a questo momento, di un'estrema prudenza, è cosa certa; ma non meno certo resta il loro peso politico (nel 1987, la confraternita fu il motore dell'Alleanza islamica che, malgrado la frode di massa, ottenne 60 seggi in Parlamento!); non meno certa è la loro penetrazione nelle organizzazioni sociali del Paese (nel marzo del 2005, per esempio, non conquistarono la maggioranza dei seggi nel sindacato degli avvocati?); certa è la loro presenza, dalla sera del 27 gennaio, in tutte le manifestazioni (provate a confrontare, nelle rare immagini che ci pervengono attraverso le reti sociali, il numero di veli e di abiti neri con quelli, quasi del tutto assenti, a Tunisi). Non è trascurabile, dunque, il rischio di vederli raccogliere i frutti della caduta di Mubarak, con la prospettiva di un Egitto che tenda al fondamentalismo di Stato e diventi per i sunniti quello che per l'Iran sono gli sciiti. Tutto questo per dire che i rivoltosi del Cairo non hanno un nemico ma due: Mubarak e i Fratelli musulmani. Tutto questo per dire che sotto ai nostri occhi non si sta producendo un evento, ma due: una rivoluzione riuscita a Tunisi e un'altra, al Cairo, dall'esito incerto. Tutto questo per sottolineare che, per pensare questi eventi, per concepirli nella loro singolarità e aiutarli, soprattutto, a partorire la miglior parte di se stessi, occorre sbarazzarsi delle idee preconcette: a cominciare da quella di una «rivoluzione araba» unica, che emette su una lunghezza d'onda unica e alla quale bisognerebbe, da Tunisi a Sana’a passando per Alessandria, rendere omaggio con termini identici. La Rivoluzione francese, dopotutto, ha conosciuto la propria fase democratica, poi terroristica, poi termidoriana — senza contare, con il culto dell'Essere supremo, il momento teocratico. E se fosse questo ad accadere, ma su scala mondiale, non di un Paese? Se il mondo potesse essere teatro, nello stesso momento o quasi, di rivoluzioni spontaneamente democratiche (Tunisi), immediatamente terroristiche (Teheran) o possibilmente teocratiche (un Egitto dove non si taglierebbe la strada, subito, ai Fratelli musulmani)? E se osassimo sognare, in questo mondo come negli altri, rivoluzioni che saltassero le loro funeste tappe per andare dritte a un Termidoro felice (aspirazione, nel momento in cui scrivo, delle forze vive della rivoluzione in atto in Egitto)? E'un'ipotesi. Che però ha il merito di dire perché ci si batte e contro chi.

La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Fratelli musulmani, un dialogo da aprire "


Vittorio Emanuele Parsi

Il titolo del pezzo non rispecchia il suo contenuto. Parsi ritiene che, al momento, la soluzione migliore sarebbe che gli Stati Uniti contrattassero con Fratelli Musulmani, el Baradei ed esercito, in modo da costringerli a compromessi e concessioni per limitare che la situazione precipiti, ed evitare che si ripeta la storia dell'Iran per l'Egitto.
La variabile che Parsi non considera, però, è la debolezza di Obama e la sua incapacità di prendere decisioni nette e portarle avanti. Ora fa il paladino della democrazia e appoggia i rivoltosi, ha scaricato Mubarak senza valutare le conseguenze. E' un interlocutore credibile? Che peso può avere in una trattativa coi Fratelli Musulmani ? Per farsene un'idea basta ripercorrere le fasi della sua strategia con l'Iran. La sua mano tesa non ha annullato il programma nucleare, anzi.
Ecco il pezzo:

Non c’è dubbio che la profondità e l’estensione della protesta in Egitto abbia colto di sorpresa le diplomazie delle potenze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti. Fino ad ora, all’ormai consueta balbuzie europea, di cui il vertice di un paio di giorni fa a Bruxelles costituisce solo l’ennesimo esempio, ha fatto da imbarazzante controcanto la confusione americana. L’America è stata sistematicamente in ritardo di fronte allo tsunami che sta squassando il sud del Mediterraneo, è apparsa sempre essere almeno due passi indietro rispetto al corso degli eventi, affannata a inseguirli piuttosto che in grado di esercitare una qualche influenza. Imbarazzante, se solo si considera che, dopo Israele, l’Egitto è il secondo destinatario degli aiuti (economici e militari) degli Usa. Nei giorni scorsi, dopo il tartufesco ritardo con cui la Casa Bianca ha esteso anche alle proteste egiziane la patente di legittimità prima rilasciata solo ai moti tunisini, l’America ha prima chiesto a Mubarak di non reprimere nel sangue la rivolta, poi di riprendere il processo di liberalizzazione timidamente intrapreso sotto la pressione di George W. Bush e Condoleezza Rice, infine di fare un passo indietro. In una frase: sempre troppo poco e troppo tardi.

Forse però il tempo c’è ancora per provare a giocare d’anticipo, a condizione di mettere in campo l’audacia necessaria, anche nella consapevolezza che, senza un intervento coraggioso, il corso degli eventi potrà solo andare in una direzione poco favorevole agli interessi occidentali nell’area e alla stessa stabilità strategica del Medio Oriente, con conseguenze negative anche e innanzitutto per il popolo egiziano. In altri termini, occorre già pensare al dopo-Mubarak, cercando di esercitare tutta l’influenza di cui si dispone per provare a indirizzarlo e bisogna farlo a partire dall’individuazione degli interlocutori per ora, e sottolineo il per ora, ancora decisivi. Mi riferisco ai militari, ad El Baradei e ai Fratelli Musulmani. Al momento sono questi tre, per motivi diversi, gli interlocutori dotati di risorse significative. Finché il regime sta in piedi, i militari continuano a esercitare il controllo dell’uso della forza. La loro sbandierata decisione di non impiegarla contro i protestatari può ovviamente essere letta come una manifestazione di debolezza, ma credo vada anche interpretato come un segnale politico, di disponibilità al dialogo, alla ricerca di una soluzione di compromesso in questa fase di resilienza del vecchio regime. El Baradei ha dalla sua la chance di essere l’unico federatore possibile per coalizzare tute le forze anti-Mubarak, per dare la spallata decisiva al regime. L’unico di cui tutti si fidano o dicono di fidarsi. El Baradei è forte della sua debolezza, di non essere il leader di alcun gruppo organizzato. Ma ciò che è la sua forza si ribalterebbe nella sua debolezza non appena il regime venisse abbattuto. Caduto il regime, le diverse anime del composito movimento sorto più o meno spontaneamente, inizierebbero una dura battaglia politica per conseguire la leadership o, più probabilmente, l’egemonia sul nuovo corso. E in questa terza e decisiva fase, inutile far finta di negarlo, i Fratelli Musulmani sarebbero quelli meglio in grado di conseguire la vittoria, per la loro migliore organizzazione e per la loro più capillare diffusione. Con quali garanzie per la natura liberale o democratica del loro regime è difficile a dirsi, tanto più se la natura rivoluzionaria del processo dovesse prevalere. Se il processo sarà rivoluzionario, infatti, saranno le minoranze meglio organizzate a guidarlo e a volgerlo a proprio vantaggio, e senza mediazione alcuna.

Ogni attore, quindi, è particolarmente forte in una fase - quella della resilienza del potere al tramonto, quella del suo abbattimento, e quello dell’instaurazione di un regime diverso - ma più debole in tutte le altre. Con l’avvertenza ovvia che, se i momenti non vengono legati insieme, chi vince l’ultima mano vince tutto il piatto. Qualora invece, mentre la fase uno appare già pericolosamente agli sgoccioli ma non ancora completamente conclusa, Washington intavolasse trattative congiunte con tutti gli attori significativi, potrebbe vincolarli a una serie di impegni e concessioni reciproche, trasformando le diverse distinte fasi (di resilienza, abbattimento e instaurazione rivoluzionaria) in un unico processo di transizione. Ciò implicherebbe il riconoscimento della natura politica legittima dei Fratelli Musulmani, ma eviterebbe di riprodurre in Egitto su scala ancora maggiore il disastro di Gaza: cioè di chiedere prima elezioni regolari, per poi disconoscerne la validità quando chi vince non ci piace. Inutile negare che una simile mossa comporta rischi ovvi, ma un’apertura «contrattata» degli Usa alla legittimità politica dei Fratelli Musulmani potrebbe essere la sola carta da giocare per evitare scenari peggiori in tutta la regione e per mettere in scacco l’influenza crescente di regimi estremisti come quello iraniano.

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