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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - Il Foglio - Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
31.01.2011 L'Egitto, sotto la guida di el Baradei e dei Fratelli Musulmani, sarà come l'Iran
Cronache e commenti di Giovanni Sartori, Giuliano Ferrara, Vittorio Dan Segre, Andrea Nativi, Davide Frattini, Paolo Mastrolilli

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - Il Giornale - La Stampa
Autore: Giovanni Sartori - Giuliano Ferrara - Vittorio Dan Segre - Andrea Nativi - Davide Frattini - Paolo Mastrolilli
Titolo: «Illusioni e delusioni - Per l’Europa torna l’incubo di perdere Suez - L’esercito egiziano, troppo forte per lasciarlo agli integralisti - ElBaradei osannato in piazza. I dimostranti montano le tende- I Fratelli musulmani: uno Stato islamico? Deciderà il p»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 31/01/2011, in prima pagina, l'editoriale di Giovanni Sartori dal titolo "  Illusioni e delusioni  ", a pag. 11, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " El Baradei osannato in piazza. I dimostranti montano le tende ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'editoriale di Giuliano Ferrara dal titolo "  Il Cairo dà gli incubi al mondo uscito dall’11 settembre". Dal GIORNALE, a pag. 11, l'articolo di Vittorio Dan Segre dal titolo " Per l’Europa torna l’incubo di perdere Suez ", a pag.10, l'articolo di Andrea Nativi dal titolo " L’esercito egiziano, troppo forte per lasciarlo agli integralisti". Dalla STAMPA, a pag. 2, l'intervista di Paolo Mastrolilli ai Fratelli Musulmani dal titolo " I Fratelli musulmani: uno Stato islamico? Deciderà il popolo ", preceduto dal nostro commento.

Traduzione della vignetta in alto a destra:

Jimmy Carter durante il primo anno della sua presidenza è andato in Iran per  rafforzare le relazioni con gli iraniani. Due anni dopo il governo filo occidentale è stato destituito.
Barack Obama durante il primo anno della sua presidenza è andato al Cairo per rafforzare i rapporti con gli egiziani. Due anni dopo le strade del Cairo sono invase da riottosi contro Mubarak.
Ecco i pezzi:

CORRIERE dellaSERA - Giovanni Sartori : " Illusioni e delusioni "


Giovanni Sartori

S in da quando esistono, gli Stati Uniti si sentono investiti della missione di diffondere la libertà e la democrazia nel mondo. L’intento è nobilissimo. Ma le buone intenzioni possono generare cattivi risultati. Da quando la Cina ha sepolto il maoismo e ristabilito buoni rapporti con l’Occidente, non c’è presidente americano che non si senta in dovere, in Cina, di bacchettare i governanti di Pechino sul rispetto dei diritti umani. Serve a qualcosa? Ovviamente no; semmai li irrita. I cinesi si sentono eredi della più antica civiltà del mondo. La civiltà del Celeste Impero ha avuto alti e bassi, ma non si è mai dissolta. Persino a dispetto di Mao è restata, nel fondo, confuciana da 2.500 anni. E oggi non è la Cina ad aver bisogno degli Stati Uniti, ma gli Stati Uniti della Cina. Che tra l’altro protegge (per fare dispetto?) la Corea del Nord. Venendo al Medio Oriente, lì il grosso sbaglio del missionarismo americano è stato l’Iran. Lo scià Reza Pahlavi era sì un despota, ma un despota illuminato inteso a modernizzare il suo Paese. Quando scoppiò la rivolta istigata dal clero islamico, gli americani consigliarono ai generali dello scià di non resistere, di arrendersi. Khomeini rientrò trionfante da Parigi e li fece tutti fucilare. E da allora l’Iran degli ayatollah minaccia tutti i suoi vicini. Passando all’Iraq, probabilmente Bush credeva davvero che Saddam Hussein fabbricasse armi nucleari; ma in ogni caso credeva che la sua guerra avrebbe instaurato una democrazia a Bagdad. Poverino, l’intelligenza non è mai stata il suo forte. E lo stesso discorso si dovrà fare al più presto per l’Afghanistan, dove il problema non è di trasformare un millenario sistema tribale in uno Stato democratico, ma di impedire che diventi, o ridiventi, uno «Stato canaglia» nel quale il terrorismo islamico possa liberamente produrre micidiali armi chimiche e batteriologiche. Ma veniamo all’oggi, al fatto che parte dell’Africa araba che si affaccia sul Mediterraneo (Algeria, Tunisia, Egitto) è subitamente esplosa. C’era da aspettarselo? No, nel senso che tutti sono stati colti di sorpresa. Ma sì nel senso che sappiamo, o dovremmo sapere, che Internet, telefonini cellulari e simili sono formidabili strumenti di mobilitazione istantanea, e quindi anche di esplosioni insurrezionali (a fin di bene o a fin di male che siano). Al momento il caso più preoccupante è quello dell’Egitto. E al momento in cui scrivo Mubarak non è fuggito, è ancora lì; ma ha dovuto cedere il potere ai militari. Gli Stati Uniti hanno condannato, come da copione, Mubarak per l’impiego della violenza contro i manifestanti e sospeso gli aiuti militari. E ora il rischio è (come ha scritto sul Corriere Benny Morris) di ripetere «un secondo Iran» . Mubarak è stato un leale alleato dell’Occidente, ha firmato la pace con Israele, non è stato un dittatore sanguinario e ha bloccato i Fratelli musulmani (che si presentano come un islam moderato che però appoggia Hamas in Palestina). Spero che Obama sappia come è andata in Iran e che non ripeta gli errori di allora. Viviamo in un mondo pericolosissimo, che dobbiamo fronteggiare non da missionari ma scegliendo il male minore.

Il FOGLIO - Giuliano Ferrara : "  Il Cairo dà gli incubi al mondo uscito dall’11 settembre"


Giuliano Ferrara

Per conto di un’amministrazione nutrita delle idee dei neoconservatori e risvegliata alla realtà dall’11 settembre, il segretario di stato Condoleezza Rice disse, dopo la cacciata di Saddam Hussein da Baghdad, che il Medio oriente aveva le “doglie”. Lo ha ricordato Paola Peduzzi di recente in un nostro commento. Il Cairo della rivolta, come prima la Tunisia e il Libano e altri focolai del contagio, è il parto dopo le doglie. Ma non sappiamo come sarà il bambino. Essendo egiziano, questo solo ci è chiaro, il neonato avrà comunque un destino capitale per tutta l’area e per il mondo. La capacità araboislamica di generare mostri politici è praticamente inesauribile, e il mostro dei mostri, l’islamismo radicale, violento, ferocemente antisemita e anticristiano, antioccidentale e antiamericano, è sempre dietro l’angolo come minaccia esplicita, presenza ambigua e ben dissimulata. Obama è un presidente ancora in fase di collaudo, un collaudo forse troppo lungo, e se segna dei punti, se si mostra realista e incline al buon compromesso politico, se si muove nel solco della sapienza e del pensiero strategico americano, senza cacciare farfalle sotto l’arco di Tito, senza spirito ritorsivo verso la grandissima presidenza di guerra che lo ha preceduto, tuttavia ha la tendenza a considerare la politica, che è dolore, necessità, responsabilità, come un insieme di retoriche risolutive. Speriamo bene, perché dà gli incubi la tesi di un Egitto incubatore di soluzioni all’iraniana, dove una rivoluzione apparentemente antiautoritaria diventa rapidamente dittatura della sharia coranica. Questa tesi è sostenuta da diversi osservatori israeliani, e domani ne daremo più diffusamente conto ai lettori del Foglio. Non è accademia. L’Iran è stato il centro motore e il convogliatore profetico dell’islam politico, quello che i wahabiti di Bin Laden hanno sperimentato nella forma del terrorismo internazionale addestrato in Afghanistan e nelle grandi città europee, fino allo sbarco sui grattacieli di New York. Allora al potere c’era Carter, l’imbelle. Ma per i vent’anni successivi, fino al bombardamento delle Twin Towers e del Pentagono, con Reagan, con Bush padre e con Clinton, nessuno aveva mai avuto la minima idea su come si potesse contrastare, combattendo, la deriva di una grande civiltà in affanno lungo la faglia di uno scontro che fa epoca ed è fonte di allarme esistenziale per questa e per le future generazioni. Bisogna sperare che Obama si affidi alle informazioni e alle idee giuste, e che riesca a invertire lo statuto psicologico della sua diplomazia della mano tesa e del ritiro dalla scena del Grande medio oriente, affidando al generale Petraeus e allo staff di analisti politici e militari del Pentagono, del Dipartimento di stato, del Security council e della Cia la definizione immediata di una nuova proposta strategica per l’ordine internazionale minacciato nei suoi punti nevralgici. Bisogna sperare che lo faccia in fretta, perché il contagio, nella Umma islamica, è spesso frenetico, rapido, incalzante, e due sono le cose: o si riaccende l’idea che i consumi, le libertà economiche e civili, la scoperta della laicità e della buona secolarizzazione, sono la bandiera del benessere e del futuro in terra islamica, oppure presto sulle folle tumultuanti, sulla piazza araba avvilita colpita e strumentalizzata dalle combinazioni oscure della politica levantina, si richiuderà la cupola di piombo del revanchismo islamista. E nell’irresponsabilità imperiale degli Stati Uniti, comincerà un altro ciclo di guerre e di sangue, ma stavolta con l’occidente dialogante, a mano tesa, cioè insicuro di sé, in posizione di difesa timida e di impotenza conclamata.

Il GIORNALE - Vittorio Dan Segre : " Per l’Europa torna l’incubo di perdere Suez"


Vittorio Dan Segre

Nel 1954, nel pieno della crisi di Suez, l’Egitto - appena passato sotto la guida della giunta milita­re di Nasser - l’addetto militare egiziano a Parigi chiese all'Amba­sciata di Israele a nome del Gene­rale Naguib, capo ufficiale della giunta, di «garantire» le spalle al Cairo, impegnato in un mortale scontro con l'Inghilterra per il controllo delle basi britanniche sul Canale. Ben Gurion diede il suo consenso promettendo di non usare la crisi per colpire l'Egit­to con cui era ancora formalmen­te i­n guerra e proponendo ufficio­samente una collaborazione - at­traverso la Histadrut, i sindacati israeliani - fra i due paesi per un congiunto sviluppo economico.
Non se ne fece nulla. Da allora sono passati 57 anni, ci sono state tre guerre e una pace con l'Egitto che, per quanto fredda, dura da 30 anni. Essa è basata, fra l'altro sull'impegno egiziano a mantene­re solo polizia nel Sinai. Ieri il Cai­ro ha chiesto a Gerusalemme ­che ha acconsentito - l'autorizza­zione al ritorno di truppe egizia­ne nel Sinai. Questa volta non per difendersi da Israele ma per co­prirsi le spalle dalla trasformazio­ne di quel territorio in base oper­a­tiva anti egiziana di al Qaida e del­le cellule terroriste islamiche infil­trate attraverso Gaza e Hamas da parte dell'Iran. Che è oggi il peg­gior avversario dell'Egitto nel Me­dio Oriente.
C’è qualcosa di straordinario in questo rovesciamento di posizio­ni politiche e storiche. Nessuno è in grado di affermare se sarà dura­turo. Comunque sottolinea cin­que elementi di cui tutti gli attori di questa tragica situazione egi­ziana stanno tenendo conto sia per usarla a proprio vantaggio o a svantaggio degli avversari.
1. Il comune interesse israelia­no e egiziano al ritorno della stabi­lità politica nella valle del Nilo. Quattro sono le principali ragio­ni: il mantenimento dello stato di pace che comporta i miliardi di dollari di aiuti economici e milita­ri americani; il pericolo del pas­saggio del Sinai sotto l'influenza iraniana e/o di al Qaida. Nel Sinai almeno una tribù beduina è pas­sata sotto l'influenza di elementi
islamici radicali portando alla cre­azione di depositi di armi e esplo­sivi scoperti; la protezione strate­gica della sponda orientale sinai­ca del canale di Suez, arteria vita­le per l'economia egiziana e inter­nazionale nei confronti di un go­verno egiziano anti occidentale (il balzo del prezzo del petrolio lo dimostra); il comune interesse israeliano e del nuovo governo del Cairo di mantenere alto il pre­stigio e la capacità operativa dell' esercito nei confronti di una situa­zione su cui la polizia (odiata dal­la popolazione) ha perduto il con­trollo.
2. Sostegno senza pertanto comprometterlo con dichiarazio­ni di simpatia al nuovo vice presi­dente egiziano, generale Solei­man. Capo dei servizi segreti, con­vinto sostenitore dell'intesa fra Israele e i Palestinesi e uno degli
ultimi - per età - uomini vicini an­che se non membri della giunta rivoluzionaria nasserista la sua posizione è per il momento preca­ria. In Israele si teme che non rie­sca a prendere il controllo della si­tuazione a causa della palla di piombo che Mubarak continua a mettergli al piede con la sua pre­senza all' apice formale del pote­re, dopo avergli per anni rifiutato la vice presidenza onde favorire il figlio ora ignominiosamente scappato all'estero assieme a non pochi oligarchi del partito.
3. L'incertezza del comporta­mento
degli americani che dopo aver contribuito a scatenare la ri­volta popolare in Egitto appaiono ora sorpresi dalla sua violenza. Ancora legato alla sua strategia della mano tesa all'islam Washin­gton ondeggia fra il chiaro soste­gno ai militari e il desiderio di ca­valcare una rabbia popolare nell' illusione che essa possa rimanere - come nel momento attuale ­non anti americana.
4. Lo sfruttamento mediatico di una crisi che dimostra come il conflitto palestinese sia sempre stato ai margini e non al centro dei problemi del mondo araba . Per Israele e e per l'occidente è la prova che i leader corrotti, falsa­mente democratici e sperperato­ri delle ricchezze nazionali stan­no dimostrando che se è possibi­le alle volte ingannare qualcuno su qualche cosa, non di può ingan­­nare sempre tutti su tutto. Cioè fa­re di Israele il capro espiatorio del­le malattie endemiche degli stati arabi e della società islamica.

Il GIORNALE - Andrea Nativi : " L’esercito egiziano, troppo forte per lasciarlo agli integralisti "

L'Egitto come l'Iran? È possibile e un tale sviluppo è ancora più preoccupante dal punto di vista militare e della sicurezza. Perché l'Egitto confina direttamente con Israele, è proiettato nel Mediterraneo e dispone di uno strumento militare molto consistente e abbastanza moderno, grazie agli aiuti forniti dagli Stati Uniti. Gli Usa infatti garantiscono all'Egitto per assistenza militare e civile fondi considerevoli, 1,75 miliardi di dollari nel bilancio 2010. Le somme per Mubarak sono stabilite in 2/3 dell'aiuto militare che Washington assicura ad Israele. E all'aiuto economico si aggiunge il consistente trasferimento di materiale militare considerato surplus dal Pentagono, attraverso il programma Eda, Excess Defence Article. Si tratta spesso di mezzi e sistemi ancora molto efficaci. Altri materiali sono stati ottenuti di seconda mano o acquistati nuovi in Occidente e in qualche caso in Cina. Comunque è grazie all'aiuto americano che l'Egitto è riuscito progressivamente a rimpiazzare quasi tutto il vecchio materiale di provenienza sovietica ed ha anche assorbito la dottrina e le procedure americane, che vengono provate in esercitazioni in grande stile, come la serie Bright Star.
L'Egitto ha circa 350.000 soldati in servizio attivo, dei quali 250.000 sono coscritti, arruolati per una ferma di 36 mesi in base a un sistema di coscrizione selettiva. Il bilancio della Difesa è di quasi 2,5 miliardi di dollari all'anno, la forza armata principale è l'esercito, con quasi 300.000 militari e 240.000 riservisti. La punta di lancia è costituita da oltre mille carri da battaglia Abrams, prodotti su licenza e 1.700 M60, tutti americani. I veicoli da combattimento della fanteria sono mille di provenienza olandese e 2.300 M113 americani, oltre a 800 Fahd sviluppati localmente. L'artiglieria affianca 1.200 pezzi di produzione russa a 700 semoventi americani M109. Non mancano i missili balistici Scud e razzi d'artiglieria a lungo raggio. La Marina è invece abbastanza modesta, la forza alturiera comprende 6 fregate, tutte ex statunitensi, 2 corvette ex spagnole e 2 corvette cinesi. L'Aeronautica ha la sua componente principale nei caccia F-16 statunitensi, oltre 200, anche dell'ultimo modello Block 50 in corso di consegna. A questi si aggiungono aerei francesi Mirage, cinesi F-6 ed F-7, vecchi MiG-21, aerei radar e una consistente flotta di elicotteri.
Immaginate cosa potrebbe accadere se questo arsenale passasse sotto il controllo di un governo islamico non moderato. Certo, nel giro di qualche anno, fermando le consegne di ricambi e l'assistenza, la macchina militare egiziana si bloccherebbe. Ma non immediatamente. L'Occidente e gli Usa invocano il rispetto della democrazia, ma forse dimenticano cosa è accaduto quando hanno ottenuto le prime elezioni democratiche tra i palestinesi: la vittoria è andata a Hamas.
Un Egitto armato e non moderato vorrebbe dire che lo spettro di un conflitto arabo-israeliano tornerebbe d'attualità. Per non parlare delle velleità che l'Egitto ha sempre avuto nel campo delle armi per la distruzione di massa e relativi vettori missilistici e di cui si è parlato poco perché l'Egitto era tra "i nostri". Se il Paese virasse verso l'estremismo islamico ci sarebbero problemi diretti per la sicurezza europea, per i traffici marittimi (Suez), l'accesso alle risorse energetiche. Altro che la scalcinata Libia di quando Gheddafi era "cattivo". L'Egitto è proprio un'altra cosa. E negli Stati Maggiori Nato e Usa ci si augura che la situazione al Cairo e dintorni si stabilizzi al più presto. Mentre Israele ha già studiato il da farsi se le cose volgessero al peggio.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " El Baradei osannato in piazza. I dimostranti montano le tende "  


Mohamed el Baradei

Il CAIRO — I jet volano bassi sui palazzi della città, il frastuono dei motori è come il rintocco delle campane che avverte: le quattro del pomeriggio sono passate, il coprifuoco entra in vigore. I militari allineano sedici carri armati all’ingresso di piazza Tahrir, mostrano i pezzi migliori, tank di fabbricazione americana, sarebbero quelli utilizzati dalle truppe d’élite. Sembra che l’esercito abbia deciso di intervenire, per ora è stato soprattutto a guardare, con le sentinelle dispiegate agli incroci delle strade. In piazza arriva Mohamed ElBaradei, lo lasciano passare, nessuno gli impedisce di parlare. Da poche ore è ufficialmente il leader dell’opposizione, anche i Fratelli musulmani gli garantiscono l’appoggio perché avvii negoziati con il regime. Il Nobel per la pace più che trattare esige: «Siamo all’inizio di una nuova era, non si può tornare indietro. Hosni Mubarak. deve andarsene» . Esalta la folla: «Voi siete i proprietari di questa rivoluzione, voi siete il futuro» . Sta cercando contatti con i generali — dice — e alla Cnn annuncia di essere disponibile ad «assumere la presidenza temporanea del Paese per un periodo di transizione verso la democrazia» . Hosni Mubarak si fa vedere sulla televisione di Stato, in visita a una base militare. Chiede al ministro degli Interni— riferisce sempre l’emittente del regime — di «riportare la calma nel Paese» . La polizia dovrebbe tornare nelle strade, non si vede un poliziotto in uniforme dagli scontri di venerdì. L’esercito sarebbe stato schierato anche a Sharm el-Sheikh, sul Mar Rosso, e il coprifuoco al Cairo, Alessandria e Suez è stato esteso: da oggi va dalle 15 alle 8, anche se gli abitanti non l’hanno mai rispettato. Ad Abu Zabul, una prigione al nord del Cairo, gli scontri tra carcerati e agenti sono andati avanti per due giorni, ci sarebbero stati 14 morti, i cadaveri allineati in una moschea fuori dal muro di cinta. Le vittime dall’inizio della rivolta sarebbero almeno 150, il conteggio ufficiale è fermo a 97. Anche da altri penitenziari, sono arrivate voci di evasioni. I Fratelli musulmani hanno dichiarato che 34 attivisti, arrestati venerdì, hanno lasciato le celle di Wadi Natroun, le guardie erano scappate. In piazza Tahrir i dimostranti hanno allestito qualche tenda, altri dormono sull’erba. Non hanno intenzione di andarsene. «Sono entusiasta, continuano a protestare. Se Allah lo vuole, Mubarak se ne andrà» , dice un ufficiale dell’aviazione mentre passa vicino ai manifestanti. Uno striscione esprime il dilemma che il militare sta vivendo: «L’esercito deve scegliere tra Mubarak e il popolo» . Per ora, il presidente ha scelto l’esercito con le nomine di due generali, Omar Suleiman a vicepresidente e Ahmed Shafiq a primo ministro. Suleiman lo ha accompagnato nella visita di ieri alle forze armate. Internet continua a essere bloccata dal regime, un solo service provider fornisce l’accesso. I cellulari hanno ricominciato a funzionare, non i servizi dati e quelli per gli sms. Il regime ha imposto ad Al Jazeera di chiudere l'ufficio al Cairo.

La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " I Fratelli musulmani: uno Stato islamico? Deciderà il popolo "


Uno dei motti dei Fratelli Musulmani

Molto interessanti le domande poste da Mastrolilli, ma ancora di più le risposte fornite dai Fraelli Musulmani, in particolare quelle sui rapporti con Israele qualora il potere dovesse passare nelle loro mani :  «Perché, c’è un processo di pace? Israele vuole solo imporre la sua volontà, con l’aiuto degli americani e dello stesso Abbas. L’Olp non rappresenta più i palestinesi, la pace è impossibile senza un accordo con Hamas».
Ecco l'intervista:

Le diamo retta e partiamo per il quartiere Manial, una bella via residenziale lungo il fiume, che si chiama El Malek El Saleh. In cima ai gradini dell’ingresso, ricoperti di marmo, ci aspettano due uomini della sicurezza vestiti in nero. Spieghiamo che abbiamo un appuntamento, ma loro sanno già tutto: rapida perquisizione e siamo nella sala d’attesa al primo piano. Con gentilezza araba, un segretario ci avverte che il dottor Badie, nuovo capo dei Fratelli Musulmani, è atteso ad una riunione del leader dell’opposizione, e quindi avrà per noi pochi minuti. Ci fanno salire al secondo piano, dove una porta di legno scuro intarsiato conduce verso gli uffici. I Fratelli Musulmani saranno pure banditi, perché il regime li equipara ad Al Qaeda, vista anche l’antica familiarità con il vice di Bin Laden, l’egiziano Al Zawahiri. Eppure la targhetta sulla porta non prova neppure a mentire; prima in arabo e poi in inglese, chiarisce dove ci troviamo: «Muslim Brotherhood».

Badie, diventato capo per puntare sulle attività sociali del movimento più che sulla politica, è travolto dagli eventi. Porta la barba e un tradizionale fez, e si ferma giusto un momento: «La nostra linea è chiara: il regime ha fallito e ora sta collassando. La via di uscita è una sola, Mubarak deve ascoltare la gente e dimettersi. Poi il popolo deciderà come vuole essere guidato». La protesta vi ha sorpreso? «Non importa. Conta solo che c’è, e noi la sosteniamo». Per creare uno Stato islamico? «Questo lo deciderà il popolo». Prima di avviarsi al vertice ci presenta Sherif Abul Magd, professore di ingegneria alla Helwan University, che governa i Fratelli Musulmani a Giza: «Lui parla per me».

Abul Magd non aspettava altro e attacca subito in perfetto inglese: «Mubarak è stupido, oppure gli danno consigli sbagliati. Il regime è finito, la gente chiede in piazza le sue dimissioni, e lui cosa fa? Nomina vicepresidente Suleiman e premier Shafiq, due uomini delle forze armate. E’ questo il messaggio che vuole mandare? Non capisce che per salvarsi avrebbe dovuto quantomeno scegliere dei civili? Comunque sono problemi suoi: per noi è finito».

Per ora, in realtà, Mubarak è ancora al suo posto. Ma mentre si aggiusta sul divano che guarda il fiume, Abul Magd spiega la strategia per farlo andare via: «Continuare la protesta fino alle dimissioni». I carriarmati lo preoccupano fino a un certo punto: «Io credo che alla fine l’esercito si schiererà col popolo, contro il dittatore. Comunque la protesta non deve sfidare i militari, non vogliamo provocare una carneficina. I manifestanti devono sfilare ogni giorno pacificamente, per ripetere le loro richieste: il governo non potrà reggere a lungo. Cosa può fare? Se domani Mubarak blocca l’accesso a piazza Tahrir, andremo altrove. Fermare la protesta in realtà è facile: basta che lui si dimetta».

Se questo succedesse, i Fratelli Musulmani hanno già un piano pronto: «La Costituzione prevede che in casi simili il leader del Parlamento assuma la presidenza ad interim. Secondo noi non basta: a lui dovrebbero affiancarsi cinque giudici molto rispettati di varia estrazione, per creare un comitato di presidenza. Questo comitato dovrebbe ritoccare la Costituzione in senso democratico, e poi indire elezioni entro due mesi per il Parlamento e per la presidenza. A quel punto il potere tornerà nelle mani del popolo».

Prima di essere arrestato, Essam El Eriane ci aveva detto che la protesta aveva sorpreso i Fratelli Musulmani, dimostrando che non sono poi questo gruppo onnipotente in Egitto: «Vero. Questo dovrebbe tranquillizzare gli occidentali». Perché non avete la forza di creare uno Stato islamico? «Noi siamo convinti che l’Islam rappresenta il modello migliore di vita. Basta guardare le nostre leggi, che sono ispirate per l’80% ai princìpi musulmani. Lo Stato islamico non è in conflitto con la democrazia, ma deve essere il popolo a sceglierlo». E se scegliesse voi, il processo di pace con Israele continuerebbe? «Perché, c’è un processo di pace? Israele vuole solo imporre la sua volontà, con l’aiuto degli americani e dello stesso Abbas. L’Olp non rappresenta più i palestinesi, la pace è impossibile senza un accordo con Hamas». Abul Magd scrolla le spalle, quando gli facciamo notare il sospetto che i Fratelli Musulmani siano una costola di Al Qaeda: «Non c’è più Al Qaeda. Forse è esistita anni fa, ma ora è solo un’invenzione della Cia per giustificare la guerra al terrorismo».

Sherif deve raggiungere Badie al vertice e si offre di accompagnarci in macchina. Per strada incontriamo un posto di blocco di vigilantes, che fermano il passaggio con i sacchetti di sabbia: «Vedete? Colpa della polizia che è sparita. Hanno aperto anche le porte delle prigioni per mandare i criminali in città. E’ un piano del ministero dell’Interno per terrorizzare la gente e dare a Mubarak la scusa per la repressione. Ma noi non ci lasciamo intimidire. Questi leader sono traditori che meritano la corte marziale, però intanto la nostra gente già controlla le strade».

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