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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio-Libero-IlSole24Ore Rassegna Stampa
15.01.2011 Come sarà il dopo Ben Ali ?
Tutti plaudono alla sua fuga, ma il futuro è denso di ombre

Testata:Il Foglio-Libero-IlSole24Ore
Autore: Luigi De Biase-Carlo Panella-Farian Sabahi
Titolo: «Ben Ali fugge da Tunisi-Un golpe da lontano-La rivolta borghese contro il rais di Tunisi-Fiamme a Oriente e colpe a Occidente»

E' presto per trarre conclusioni sugli avvenimenti tunisini, occorre vedere nelle mani di chi finirà il potere lasciato dall'ex presidente Ben Ali.
Eppure alcune  osservazioni si possono avanzare sin da ora, visti gli entusiasmi, nemmeno fra le righe, che abbiamo letto su quasi tutti i giornali. L'illusione che nel mondo islamico possa esistere un regime democratico con la semplice eliminazione dei presidenti-dittatori torna a riaffiorare negli articoli di molti analisti. In  alcuni c'è addiruttura la speranza che la soluzione possa venire dall'arrivo al potere  di un partito islamico 'moderato', e si cita l'esempio turco. Un paese che nel 2003 si è consegnato al governo Erdogan, proprio lui l'esempio citato un queste ore quale esempio per una soluzione (si veda il pezzo di Farian Sabahi sul SOLE24ORE dove scrive " ...
dittatori come il tunisino Ben Ali e l'egiziano Mubarak, decisi a contrastare gli integralisti con il pugno di ferro, piuttosto che elezioni democratiche che potrebbero portare al potere partiti religiosi e leader islamici anti-occidentali ). Non solo, c'è anche chi saluta la fuga di Ben Ali augurandosi l'arrivo di un El Baradei tunisino, senza rendersi conto che se in Egitto la soluzione al regime di Mubarak passasse attraverso un governo El Baradei significherebbe l'inizio della fine del paese aperto all'Occidente, essendo El baradei la longa manus dell' Iran sull'Egitto. Entusiami mal riposti, dunque, alle porte non c'è la democrazia, ma il partito islamista, che si presenterà come portatore di libertà e progresso, vincerà le elezioni, dopodichè la Tunisia si avvierà a diventare uno stato islamista. Turchia docet.
Ma i nostri media inneggiano, il dittature è in fuga, e non riescono a vedere chi è in arrivo.
Abbiamo scelto alcuni commenti da FOGLIO, LIBEROSOLE24ORE

Il Foglio-Luigi De Biase: " Ben Ali fugge da Tunisi "


Ben Ali in fuga                                Toccherà a Mubarak ?

Roma. Sono bastati ventotto giorni di proteste per assistere alla fine del regime tunisino e alla fuga del suo presidente, Zine El Abidine Ben Ali, un ex militare di 74 anni da 23 alla guida della nazione. Il suo potere è imploso in quattro settimane, i militari hanno abbassato i fucili, le scuole sono rimaste deserte così come i ministeri. Non c’è analista che neghi la meraviglia: nessuno, nel mondo arabo, ha mai visto una rivolta simile. Ben Ali ha lasciato il paese nel pomeriggio, inizialmente diretto in Europa: in tarda serata avrebbe fatto scalo a Cagliari ma senza scendere dall’aereo, si sarebbe trattato di uno stop per fare rifornimento. La polizia ha fermato i parenti della moglie sulla strada per l’aeroporto di Tunisi. Volare nella capitale è ancora impossibile. Il primo ministro, Mohamed Ghannouchi, ha parlato alla tv pubblica poco più tardi. “Il presidente non è in grado di esercitare le proprie funzioni – ha detto – Le assumo io a partire da adesso”. Ghannouchi ha parlato ai “figli e alle figlie della Tunisia”, ha chiesto loro “di mostrare spirito patriottico e unità per fare in modo che il nostro paese superi questo momento di difficoltà, e che la sicurezza sia stabilita di nuovo”. Ma il discorso del primo ministro non ha chiarito i dubbi sulla successione di Ben Ali. Al Arabiya dice che il capo del Parlamento ha formato un “direttorio” di sei persone che dovrebbe approvare una serie di riforme in vista delle prossime elezioni. Per un altro network arabo, al Jazeera, il paese è sotto il controllo dell’esercito, i militari avrebbero chiuso i collegamenti con l’aeroporto di Tunisi, sorvegliano il palazzo della tv e i centri del potere tunisino. Anche la sorte di Ben Ali è un mistero. Il presidente è stato sconfitto dal paese che ha costruito. Dai giovani che hanno frequentato le università, ma non sono mai riusciti a trovare un lavoro. Dalle famiglie che vivono ai bordi delle grandi città e fanno i conti con il prezzo del pane e dell’olio. Dalla classe media più forte del Maghreb, dagli avvocati e dai giornalisti che hanno visto crollare fortune e prospettive nel giro di pochi mesi.E’ stato tradito dai militari, che non sono riusciti a fermare la protesta prima che arrivasse nelle strade di Tunisi. La rovina del dittatore è nel modello che ha costruito in vent’anni di potere: un sistema solido, non autonomo, che oggi è sfiancato dalla crisi dell’economia, dall’inflazione, dalla disoccupazione, dalle smanie di una corte ricchissima e corrotta. Ben Ali ha cercato sino all’ultimo una soluzione che gli permettesse di conservare il potere – o almeno di essere ricordato come il padre della democrazia tunisina. Giovedì ha ammesso le proprie colpe, ha licenziato ministri e consiglieri, ha ordinato alla polizia di interrompere il fuoco contro i manifestanti. Ha persino promesso di rinunciare alle elezioni del 2014. Ancora ieri, ha sciolto il governo e ha annunciato elezioni in sei mesi. Secondo Stefano Torelli dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), “era il tentativo di aprire una fase di transizione politica”. Le piazze e i bazaar di Tunisi, con i loro martiri ma senza paladini, non hanno voluto accettare il compromesso. La polizia ha sparato anche ieri nonostante gli appelli di Ben Ali, e le autorità hanno dichiarato lo stato di emergenza in tutto il paese. Nessuno sa ancora prevedere che cosa verrà dopo questa rivolta che ha strisciato rapida dalle città del sud sino alla capitale, che ha corroso un potere stabile e temuto in meno di un mese. Nei 23 anni da presidente, Ben Ali ha falciato ogni alternativa. I partiti dell’opposizione sono deboli, quasi inesistenti. I militari e la polizia hanno le armi ma non hanno saputo opporsi alle manifestazioni scoppiate in ogni angolo della Tunisia, alle ruberie, agli assalti contro le banche e gli uffici pubblici. I sindacati non hanno un vero leader, e i ministri scelti da Ben Ali per governare il paese sono figure ancora pallide. Eppure, nelle strade di Tunisi, i giovani gridano già che è il momento della vittoria.

Il Foglio-" Un golpe da lontano "

 

Roma. Nel 1881, la Francia impone alla Tunisia un protettorato, malgrado ci sia una colonia italiana di 25 mila persone. L’Italia risponde firmando la Triplice Alleanza: con la Germania che ha piegato la Francia nel 1870, e anche con quell’Austria contro cui sono state da poco combattute le guerre di indipendenza. Nel 1987 il Sismi italiano pilota il “golpe costituzionale” con cui il generale Zin el Abidin Ben Ali, capo dei servizi segreti, cinque settimane dopo essere stato nominato primo ministro, fa giudicare incapace per senilità il padre della patria Habib Bourguiba e si proclama presidente al suo posto. I servizi francesi avrebbero forse risposto facendo scoppiare una bomba alle Tremiti. Nel 2011, Italia e Francia sono prese alla sprovvista dall’improvvisa insurrezione. La rivalità italo-francese ottocentesca sulla Tunisia si studia a scuola. La vendetta su Parigi del 1987, invece, è stata raccontata dall’ammiraglio Fulvio Martini, già comandate del Sismi, nel libro “Nome in codice: Ulisse”, uscito nel 1999: quattro anni prima della sua morte. Martini diede poi altri particolari in un’audizione alla commissione Stragi e in un’intervista, e il quadro è stato ribadito l’anno scorso in “Intrigo internazionale”, libro-intervista del giudice Rosario Priore. 1983: un moto di piazza contro l’aumento dei prezzi dei cereali convince il governo algerino che l’ottantenne Bourguiba non è più in grado di tenere la situazione sotto controllo. 1984: a Bettino Craxi, in visita, il presidente algerino Chadli Benjedid dice che presto sarà costretto a invadere la Tunisia per evitare problemi al tratto finale di gasdotto che, attraverso la Tunisia, porta il metano algerino in Italia. “Aspettate”, lo implora Craxi. Di ritorno, convoca Martini e gli dice di andare a parlare al capo dei servizi algerini. Glielo deve ripetere due volte: l’ammiraglio non si vorrebbe compromettere con un noto sostenitore del terrorismo palestinese. L’incontro avviene a notte fonda, all’aeroporto di Algeri. Algerini e italiani assieme si accordano per parlare a Ben Ali, gli algerini vanno anche dai libici, e Martini dai francesi.Ma il capo della Dgse René Imbot, ex Legione straniera alla battaglia di Algeri, si arrabbia: “Non avvicinatevi all’impero francese”. Anche Parigi è convinta che Bourguiba va sostituito, ma ha un suo uomo. La notte del 6 novembre 1987 Ben Ali manda le forze speciali a occupare il palazzo presidenziale e fa firmare da sette medici la destituzione di Bourguiba. Ben Ali commuterà alcune condanne a morte di integralisti e instaurerà il multipartitismo. 24 ore dopo il golpe, al Faro delle Tremiti scoppia una bomba, piazzata da due svizzeri. Sul momento vengono collegati a Gheddafi, che ha rivendicato le Tremiti come indennizzo per il colonialismo italiano. Ma nel 1996 il Corriere della Sera ipotizzerà una vendetta-avvertimento di Parigi. La Farnesina ha smentito, ma interpellato dal Foglio l’ex ministro degli Esteri e attuale presidente dell’Ipalmo, Gianni De Michelis, si limita a osservare che “è una storia del 1987”. Un’altra fonte, vicina ad ambienti dei servizi, ci spiega come le dichiarazioni di un ex responsabile del Sismi siano una “rivendicazione ufficiosa”. Ma ci invita a non prendere troppo sul serio un’altra dichiarazione di Martini, secondo cui “gli americani non furono coinvolti”. E’ probabile che sia venuto proprio da Washington un input decisivo. Lo “sgarbo” italiano segnerebbe la soluzione di continuità tra la politica americana in Africa negli anni 70 e 80, quella dell’alleanza con la Francia per contenere Gheddafi e quella tra gli anni 90 e il 2004, con lo scontro sulle sfere di influenza in Ruanda e Congo, riflessa anche nel dissenso sulla guerra in Iraq. Questo scontro si sarebbe poi appianato dal 2004: tra la cooperazione in Libano e l’elezione del filoamericano Sarkozy. De Michelis, che è appena stato in Tunisia, dice che là nessuno s’aspettava questa rivolta. “Quello di Ben Ali è un regime autoritario, per non dire poliziesco, che sembrava adatto più di altri a governare con un pugno di ferro nel guanto di velluto. Ma evidentemente ha ragione Tremonti, che la crisi sta durando troppo a lungo”.

 Libero-Carlo Panella: " La rivolta borghese contro il rais di Tunisi "

  

La decisionedel presidente tunisino Ben Ali di dimissionare il governo e di indire elezioni anticipate e di fuggire all’estero rappresenta ben di più del successo travolgente della rivolta dei giovani e dei tantissimi professionisti che hanno infiammato da un mese le piazze di tutto il Paese. È infatti la prima volta in un Paese arabo che un raìs, forse non un dittatore, ma sicuramente il capo di un regime autoritario e illiberale, decide di cedere alla piazza, di spalancare le porte alla democrazia e di fuggire in esilio. Un fatto dirompente, che potrà avere effetti enormi, prodotto da due forze che si intersecano: la modernità, la vivacitànonsolo dei giovani tunisini emarginati, ma anche e soprattutto di un ampissimo ceto medio e medio alto che si è unito, nelle piazze nella rivolta, per obbligare un regime corrotto a cedere il passo alla democrazia. Ma soprattutto la presenza e il peso di una “società civile” (scusate il termine, ma è l’uni - co a disposizione) che è stata formata non solo da un grande leader arabo quale è stato il padre della patria Hamid Bourghiba, ma anche dall’in - tuizione di Bettino Craxi che comprese che la Tunisia era il ponte ideale tra l’Europa e l’interomondo araboed era il naturale interlocutore, politico ed economico, dell’Italia nel Mediterraneo e che andava aiutata. La grandezza e la straordinaria solitudine nel contesto arabo di Bourghiba – che per decenni aveva lottato contro il colonialismo francese – è tutta nella suo progetto di costruire un Paese non già “laico”,o“panarabo”, ma che si costruisse come ponte tra Islam e Occidente. La mentalità di avvocati, medici, giornalisti, neolaureati chehanno datola spallata al regime di Ben Ali, si è formata nell’unico Paese arabo che ha investito al massimo nell’istruzione (nel 2010 l’analfa - betismoa 15 anni era solo dell’11% tra i maschie il 28.3% tra le femmine, contro un 31,3 e un 53,4 del Marocco) e soprattutto che, per volontà di Bourghiba, ha tolto ogni e qualsiasi potere ai tribunali islamici e si èdato codicidi modernamediazione tra il diritto islamico e quello europeo. Il bando della poligamia, la fine del diritto del marito al ripudio della moglie, il diritto delle donne di chiedere il divorzio e di avere in custodia i figli, sono contenuti nel Codice voluto da Bourghiba nel lontano 13 agosto 1956. Per decenni Bourghiba si è rifiutato di seguire le fole dell’oltranzi - smo nasseriano, tanto che l’11 marzo del 1965 propose ai Paesi arabi di riconoscere l’esistenza di Israele.Insomma,Bourghiba, sia pure col suo paternalismo illuminato, ha posto le fondamenta su cui la Tunisia ha potuto costruirsi come Paesearaboemoderno. Bettino Craxi intuìquesta realtà, comprese le potenzialità di una Tunisia che, pur poverissima, senza petrolio, poteva essere aiutata dall’Ita - lia a svilupparsi e a crescere. Mani Pulite ha fatto strame anche di questa straordinaria intuizione di Craxi – che non a caso scelse Hammamet per il suo esilio –ma ora la storia, anche su questo, gli dà ragione. La massa di investitori italiani che a partire dagli anni ’80 si è riversata in Tunisia, a partire dall’impulso voluto da Craxi e curato dall’ambasciatore Claudio Moreno, ha favorito la crescita economia di un Paese in cui se non tutti, molti, si informano guardando le televisioni italiane. Oggi sono 745 le imprese italiane che investono in Tunisia e l’Italia è il secondo Paese, dopo la Francia, nei rapporti con Tunisi. Ammalatosi Bourghiba, Ben Ali ne ha preso il posto con unmezzo golpe, ma nonne ha saputo sviluppare la strategia. Costretto a fronteggiare l’emergenza islamista – assolutamente marginale grazie ai semi gettatidaBourghiba –Ben Ali ha messo fuori legge il partito islamico Ennahda e ha imposto un regime poliziesco e corruttissimo. Ma i “fondamentali” su cui era cresciuto il Paese erano sani, tanto sani da saper dettar legge a Ben Ali. Un caso unico nel mondo arabo.

IlSole24Ore-Farian Sabahi: " Fiamme a Oriente e colpe a Occidente "

 

Provocate da povertà, disoccupazione e ingiustizie sociali, ma anche da corruzione e scarsa libertà di espressione, le proteste tunisine rischiano di contagiare altri paesi arabi dove presidenti filo-occidentali regnano da decenni reprimendo il dissenso. L'Occidente è stato a lungo complice di questi regimi. Un po' per convenienza (sono tante le imprese che fanno affari da quelle parti) e un po' per calcolo politico: meglio dittatori come il tunisino Ben Ali e l'egiziano Mubarak, decisi a contrastare gli integralisti con il pugno di ferro, piuttosto che elezioni democratiche che potrebbero portare al potere partiti religiosi e leader islamici anti-occidentali. Sebbene nei giorni scorsi il segretario di Stato americano Hillary Clinton abbia criticato la deplorevole situazione in cui versano i sistemi politici e le economie del mondo arabo, e il ministro degli Esteri Frattini abbia «invitato l'Europa a fare di più», per decenni l'Occidente è stato a guardare. A parole abbiamo avuto a cuore i diritti umani, ma a portare acqua al mulino dei radicali è stata proprio l'ipocrisia occidentale: le nostre imprese hanno delocalizzato alcune fasi della produzione nei paesi a sud del Mediterraneo, traendo vantaggio dalla manodopera locale a basso costo, e in cambio abbiamo fatto finta di non vedere l'assenza di alternanza politica, i diritti negati alle donne e alle minoranze religiose. Il liberismo in economia, accompagnato dal suo contrario in politica, però non funziona. Quello che sta succedendo in Tunisia nasce dal risentimento e potrebbe scatenare l'effetto domino. In realtà, in questo scontro tra regimi dittatoriali e società civili, a fare la prima mossa sono stati gli iraniani, che dopo le contestate elezioni del 2009 sono scesi in strada a protestare. E sebbene a causa della dura repressione in atto non abbia finora raggiunto i risultati che si era posto, il movimento verde ha suscitato i timori dei leader arabi che guardano con sospetto al potenziale rivoluzionario dell'Iran. Un paese sì musulmano ma diverso, giacché sciita e non arabo, dove la ribellione dell'Imam Hossein all'oppressione del califfo nel 680 d.C. resta un mito di grande attualità e un esempio da imitare. In Iran il dissenso è stato amplificato da Internet e dai social network, mentre nel caso della Tunisia la goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le rivelazioni di WikiLeaks a proposito di una serie di dispacci statunitensi dalla sede di Tunisi. E in particolare un'inchiesta sulla corruzione in cui si racconta come si sia arricchito il clan di Leila Trabelsi, una parrucchiera che il presidente Ben Ali ha sposato in seconde nozze nel 1992. Di ceto modesto e poco istruita, questa donna ha scalato le vette del potere, tant'è che la metà delle imprese tunisine sono legate al suo clan e a quello del marito. In assenza di una classe media in grado d'investire, le privatizzazioni hanno infatti permesso loro di acquisire molte imprese. Tant'è che Sakher Materi, il genero del presidente, è uno degli industriali più ricchi, e al tempo stesso proprietario di mezzi di comunicazione e possibile candidato alla successione. Per il profeta Maometto «è ingiusto aumentare senza tregua la propria ricchezza» e ad indignare gli arabi è proprio il crescente divario tra ricchi e poveri. Questo vale per la Tunisia, ma anche per l'Arabia Saudita, lo Yemen e gli Emirati. Basti pensare che a Dubai è consuetudine, sancita dal diritto, pagare un salario mensile di 200 dollari alle collaboratrici domestiche filippine e indiane, cui viene subito requisito il passaporto dal datore di lavoro. E in Qatar, dove nel 2022 si terranno i Campionati del mondo di calcio, le rendite del gas naturale permettono di vantare un reddito medio procapite annuo di 80mila dollari. Ma nell'emirato vivono anche migliaia d'immigrati asiatici che percepiscono 200 dollari al mese a fronte di un lavoro massacrante nei cantieri, molti dei quali dati in appalto a imprese occidentali.

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