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Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/07/2010, a pag. 28, l'articolo di Paola Capriolo dal titolo " Ebreo e fascista, la colpa senza riscatto del professor Cesare Orvieto ". Da REPUBBLICA, a pag. 33, l'articolo di Angelo Aquaro dal titolo " Quei crimini nazisti compiuti dalle donne ". CORRIERE della SERA - Paola Capriolo : " Ebreo e fascista, la colpa senza riscatto del professor Cesare Orvieto " «Se non soffrissimo di questa dannata smania di dover per forza appartenere a qualcosa! È così che si comincia a morire...». In questa frase, pronunciata da uno dei personaggi verso la fine del libro, è racchiuso il significato più profondo del romanzo d’esordio di Daniela Dawan, Non dite che col tempo si dimentica (edito dalla Marsilio, pagine 154, 15). Nata a Tripoli da una famiglia di ebrei italiani, rientrata in Italia nel ’67 per sfuggire all’ondata di violenza antisemita suscitata dalla Guerra dei sei giorni, la Dawan, già per ragioni biografiche, è particolarmente sensibile al tema dell’ «appartenenza» e ai drammi che essa può generare; qui lo affronta narrando la disperata vicenda di Cesare Orvieto, stimatissimo medico ebreo nella Tunisi degli anni Trenta. Il professor Orvieto è e si sente italiano; a tal punto da aderire, per spirito nazionalistico, all’ideologia fascista; ma nel 1938, con l’introduzione delle leggi razziali, si vede brutalmente negata dal regime di Mussolini quella che aveva sempre considerato la propria identità. Emarginato dai connazionali, scacciato dall’ospedale del quale sino al giorno prima era uno dei luminari, Orvieto rimane tuttavia prigioniero di quell’ «appartenenza» che gli viene rifiutata. Non può tradire se stesso, le idee in cui ha creduto per una vita intera, il Paese che seguita a considerare la propria patria; non può accettare di assumere la cittadinanza francese, che pure gli verrebbe facilmente concessa grazie alle sue relazioni; e non può continuare a vivere in questo conflitto dilaniante. Così una mattina, alle prime luci dell’alba, i vicini di casa trovano il corpo del professor Orvieto sfracellato nel cortile, «avvolto in una bandiera sbiadita, quella italiana». Narrando con incisività e insieme con una sorta di pudica compostezza la tragedia del suo protagonista, la Dawan descrive una realtà travagliata dal contrasto tra le diverse identità nazionali, etniche e religiose: realtà nella quale ci troviamo a vivere ancora oggi, quando la «dannata smania» dell’appartenenza, anziché affievolirsi, sembra acquistare nuovo vigore e l’identità tende a esasperarsi sino a sfociare nel fondamentalismo. Forse proprio per sottolineare l’«attualità» del problema, l’autrice ha scelto di intrecciare con la storia di Cesare Orvieto quella di una sua discendente, una pianista milanese che ai nostri giorni fa ritorno in Tunisia per seguire le tracce del passato famigliare; e non è un caso che si tratti proprio di una pianista, perché la musica svolge un ruolo fondamentale nell’economia del romanzo, come lo svolge la passione amorosa, di cui quasi tutti i personaggi si trovano a sperimentare la forza travolgente. Si ha l’impressione che entrambe rappresentino agli occhi della Dawan l’esatto opposto dell’«identità»: se questa isola e divide, creando tra gli esseri umani barriere che appaiono invalicabili, tanto l’amore quanto la musica ci fanno presagire, ciascuno a suo modo, una realtà più essenziale dove ogni barriera viene meno. Ma rimane, appunto, un presagio, una speranza poco più che accennata. Come tanti di noi, il professor Orvieto non trova la forza di evadere dalla prigione identitaria in cui lui stesso si è rinchiuso. Restandole tenacemente fedele a costo della vita, sembra piuttosto seguire inconsapevolmente l’esempio di Jha, il protagonista di una storiella che gli viene raccontata un giorno, nel porto di Tunisi, da un vecchio pescatore: sorpreso dalla tempesta mentre si trova con gli amici su un piccolo battello, Jha, invece di unirsi agli sforzi degli altri per gettare fuori bordo l’acqua che sta invadendo l’imbarcazione, fa l’esatto contrario, prende l’acqua dal mare e la rovescia dentro. «Che fai? Sei pazzo!», urlavano i compagni. «No, non sono pazzo — rispose Jha — so soltanto che sono debole. Per questo è bene che adesso mi metta dalla parte del più forte. E il più forte, in questo momento, è il mare». La REPUBBLICA - Angelo Aquaro : "Quei crimini nazisti compiuti dalle donne" L' altra metà della banalità del male. Settant´anni dopol´insuperabile Hannah Arendt c´è voluta un´altra donna per riportare alla luce l´ennesima verità nascosta del nazismo. «Perché guardare negli occhi questa realtà è una sfida troppo profonda alla nostra nozione di comportamento femminile», dice l´americana Wendy Lower di fronte agli esperti dello Yad Vashem di Gerusalemme. Dan Michman, il capo degli storici del Museo dell´Olocausto a cui la ricercatrice ha presentato i propri studi, concorda: «Nella letteratura dominante non troverete quasi mai le donne nominate». E invece quante erano? «Parlare di migliaia è dire poco», suggerisce la Lower, 45 anni, studial Museo della Shoah di Washington e oggi all´univeristà di Monaco. Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti lettere@corriere.it rubrica.lettere@repubblica.it |
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