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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa - L'Opinione Rassegna Stampa
03.03.2010 Iran: arrestato il regista Panahi. Il regime continua repressione e programma nucleare
Cronache di Fausto Biloslavo, Stefano Magni, Cecilia Zecchinelli. Intervista a Shirin Neshat di Fiamma Arditi

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa - L'Opinione
Autore: Fausto Biloslavo - Cecilia Zecchinelli - Fiamma Arditi - Stefano Magni
Titolo: «Iran, arrestato il regista che non ci sta -Intellettuali tra esilio e clandestinità: Qui non si può realizzare più nulla - Iran nucleare, non pacifico»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 03/03/2010, a pag. 21, l'articolo di Fausto Biloslavo dal titolo " Iran, arrestato il regista che non ci sta ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Intellettuali tra esilio e clandestinità: Qui non si può realizzare più nulla ". Dalla STAMPA, a pag. 13, l'intervista di Fiamma Arditi a Shirin Neshat dal titolo " Jafar è un artista eroico, non si farà imbavagliare  ". Dall'OPINIONE, l'articolo di Stefano Magni dal titolo " Iran nucleare, non pacifico ". Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " Iran, arrestato il regista che non ci sta "


Jafar Panahi

Il regime iraniano se la prende con Jafar Panahi, regista di fama internazionale, reo di voler girare un film sull'ondata di proteste antigovernative degli ultimi mesi. Agenti in borghese hanno fatto irruzione nella sua abitazione verso le 10 di lunedì sera, mentre Panahi intratteneva una quindicina di ospiti, soprattutto registi e attori. Lo ha raccontato il figlio del regista, Panahi, risparmiato dalla retata. Il padre, la madre e una sorella sono stati arrestati. Oltre a gran parte della famiglia Panahi sono finiti in manette i registi Mohammad Rasulov, Mahnaz Mohammadi, Rokhsareh Ghaem-Maghami e il cineoperatore Ebrahim Ghafari. Gli sgherri della sicurezza hanno perquisito la casa e portato via computer e altro materiale del regista pluripremiato in Europa.
Secondo fonti anonime del ministero dell'Intelligence, citate dal sito web d'opposizione Peykeiran, il cineasta è stato arrestato perché stava realizzando un film-documentario sull'ondata di proteste scoppiate nel giugno scorso dopo la discussa elezione del presidente Mahmud Ahmadinejad. A Panahi non erano state concesse le autorizzazioni per girare a Teheran le scene del suo nuovo film. Così è finito in galera.
Il procuratore della capitale, Abbas Jafari Dolatabadi, giura che «l'arresto di Panahi non è motivato politicamente». Secondo il braccio giudiziario del regime sarebbe «sospettato di altri reati», che non vengono specificati.
Il regista non ha mai fatto mistero di appoggiare il leader dell'opposizione Mir Hossein Moussavi, nemico numero uno del regime. La scorsa estate Panahi era stato fermato dalla polizia, con moglie e figlia, per aver partecipato alla commemorazione di Neda Agha-Soltan. Le immagini della giovanissima Neda agonizzante, dopo essere stata colpita a morte durante un manifestazione dell'opposizione, avevano fatto il giro del mondo.
Al regista era stato proibito lasciare il Paese dopo che in settembre, al festival del cinema di Montreal, aveva dimostrato un chiaro appoggio all'Onda verde, il movimento di protesta contro Ahmadinejad. Per lui festival di Mumbai, il mese dopo e quello di Berlino. Proprio nella capitale tedesca era stato premiato con l'Orso d'argento per «Offside», pellicola del 2006. Il film racconta la storia di alcune giocatrici di calcio femminile che vengono arrestate perché cercano di assistere a una partita per la qualificazione alla coppa del mondo dell'Iran. Nel Paese degli ayatollah le donne non possono fare il tifo per avvenimenti sportivi maschili. A Venezia, nel 2000, Panahi aveva ricevuto il Leone d'oro con «Il cerchio», un altro film dedicato alla condizione delle donne iraniane.
«L'arresto del regista conferma che il regime ha imboccato la strada della repressione più brutale nei confronti di ogni espressione di libertà da parte dei giovani, delle donne e degli uomini di cultura» ha dichiarato ieri il ministro per i beni culturali Sandro Bondi. Il rappresentante del governo italiano ha chiesto «a tutti i Paesi democratici un sostegno e una solidarietà attiva e costante per far prevalere la richiesta di libertà e di democrazia che sale sempre di più dalla società iraniana». Bondi ha annunciato la sospensione della collaborazione culturale con Teheran fino a quando non sarà liberato Panahi.
Non solo i registi famosi vanno in galera. Nel mirino della repressione finiscono anche i cristiani. Due esponenti di spicco della comunità cristiana della città di Isfahan sono stati arrestati tre giorni fa. La notizia è trapelata solo ieri sul sito dell'opposizione Iranpressnews. Le forze di sicurezza hanno portato via Hamid Shafihi e Reihane Azajeri, una coppia di cristiani. La loro colpa è ospitare in casa riunioni di preghiera. L'Iran riconosce ufficialmente le comunità cristiane e alcuni rappresentanti sono eletti in Parlamento, ma negli ultimi mesi è partito un giro di vite. Decine di cristiani sono stati arrestati o minacciati in concomitanza con le manifestazioni dell'opposizione. A Mashad, vicino al confine con l'Afghanistan, la cristiana Hamideh Najafi è stato costretta a sottoscrivere una confessione in cui ammette di «essere psicologicamente e mentalmente disturbata». L'avrebbero convinta con la minaccia di pestare a sangue il marito portandoglielo di fronte bendato e legato. A fine dicembre, durante le festività natalizie, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione in due comunità cristiane familiari nella zona di Teheran arrestando 4 persone. A Shiraz altri 8 cristiani sono finiti sotto interrogatorio e poi rilasciati. Il pastore Yousef Nadarkhani, di una chiesa evangelica, è in carcere dal 13 ottobre. I cristiani in Iran sono circa 150mila e i sistemi di pressione assumono forme diverse. In molti casi ai credenti nella fede di Cristo non vengono rinnovate licenze, patenti di guida e permessi di vario genere necessari per il lavoro.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Intellettuali tra esilio e clandestinità: Qui non si può realizzare più nulla "


Hadi Khorsandi,
poeta e autore satirico esule a Londra dal 1979 e mai più tornato in Iran

«In Iran c’è libertà d’espressione. E’ dopo l’espressione che la libertà non esiste più». Breve ed efficace sintesi della situazione di artisti e intellettuali nella Repubblica Islamica, secondo Hadi Khorsandi. Poeta e autore satirico esule a Londra dal 1979 («e mai più tornato»), sostiene che se questo è vero da trent’anni, negli ultimi mesi «le cose sono talmente peggiorate che perfino la figlia del consigliere per i media di Ahmadinejad, la regista Narges Kalhor, ha chiesto asilo politico in Germania. E come lei ce ne sono tanti, si pensi a Golshifteh Farahani», l’attrice pluripremiata in patria e all’estero ora esule a Parigi, che in veste di musicista è appena passata dall’Italia in tournée con il cantautore Mohsen Namjoo. Un altro rifugiato politico.

La lista degli artisti e intellettuali scappati — per evitare un arresto dopo essersi espressi o per prevenire l’Ershàd, il ministero-grande fratello che tutto controlla e censura — è lunghissima e in continua evoluzione. Nel cinema si parte da Mohsen Makhbalbaf, celeberrimo regista di Viaggio a Kandahar e altri 17 film, dal controverso passato khomeinista e dal presente in autoesilio a Parigi come «ambasciatore» del capo dell'opposizione Mir Hossein Mousavi. Ruolo contestato da molti connazionali, tanto che lui si definisce «portavoce del popolo che muore nelle strade», ma comunque a Teheran non ci torna. La figlia Hana, autrice di una docu-fiction sull’Onda Verde ( Green Days), ha fatto la stessa scelta. E identica, inevitabile decisione per Bahman Ghobadi: non solo fidanzato della giornalista irano-americana Roxana Saberi che l’anno scorso passò 100 giorni in cella a Teheran, ma soprattutto regista di Gatti persiani, premio speciale della giuria a Cannes 2009. Un film, per restare in tema censura, sul mondo della musica underground, girato con veri musicisti che cercano di suonare in qualche buco o meglio di emigrare. I due protagonisti ventenni, Ashkhan Kushanejad e Negar Shaghaghi, alla fine delle riprese sono scappati davvero.

«E’ sempre più difficile qui— dice al telefono da Teheran una giovane regista che chiede l’anonimato - Io sto portando avanti un progetto all’estero, appena posso lavoro fuori. Qui non puoi fare niente se non sei allineato o molto cauto». Esempio di quest’ultima categoria è Abbas Kiarostami, il più famoso maestro iraniano: mai apertamente critico con il regime (lui si definisce «pragmatico»), autore di film poetici per altro proibiti in Iran, viaggia ma torna. Forse più noto esponente degli «allineati» è Ebrahim Hatamikia, celebrato in patria e poco noto fuori, autore di pellicole sulla guerra e i suoi martiri. «Ma ci sono intellettuali e artisti che restano in Iran e resistono, lavorando meno ma in continuo contatto con la diaspora» sostiene Abbas Bakhtiari, noto musicista ed ex militante marxista, da 30 anni a Parigi dove coordina siti e attività dell’opposizione. E una situazione simile c’è per le altre arti, soprattutto per la letteratura.

«Le penne che non scrivono per i valori islamici vanno spezzate», sosteneva Khomeini (autore della fatwa contro Rushdie). E così è stato: dai falò di libri proibiti negli anni 80 si è passati alla sistematica censura, requisizione, eterna attesa di permessi di stampa. Editori come la coraggiosa Shahla Lahiji, amica di Shirin Ebadi, continuano a pubblicare. Ma molti autori se ne vanno. Come la celebre Azar Nafisi, emigrata in Usa nel 1997 dopo il successo di Leggere Lolita a Teheran. O Marjane Satrapi, autrice di Persepolis a fumetti e poi film, in Francia dal 1993. «Se anche non ti cacciano ti rendono la vita talmente impossibile che puoi solo partire — dice da Toronto Marina Nemat, autrice di Prigioniera di Teheran —. Se poi sei già stato in carcere non hai scelta. Ma anche partire è duro. E per quanto tu sia "famoso" questo ti protegge solo un po’. Loro possono sempre raggiungere la tua famiglia se vogliono, se li fai davvero irritare».

La STAMPA - Fiamma Arditi : " Jafar è un artista eroico, non si farà imbavagliare "


Shirin Neshat

«È stato eroico. Niente e nessuno gli ha impedito di dire la verità». Shirin Neshat commenta l’arresto del suo amico regista Jafar Panahi: «Non si è mai lasciato intimidire dal governo anche quando gli hanno tolto il passaporto e lo hanno costretto ad essere prigioniero nel proprio Paese», osserva mentre si prepara a partire per Madrid dove il suo film «Women Without Men» sarà presentato domani al Museo Reina Sofia. Subito dopo arriverà in Italia per una gimcana di proiezioni in musei e cinema di Bologna, Napoli, Roma, Firenze, Torino prima di approdare nelle sale di 25 Paesi nel mondo.
La prepotenza del governo iraniano cresce, non crede?
«Non mi sorprende, stanno facendo tutto quello che possono per intimidire la nostra gente, gli artisti, per metterli a tacere. Molti, però, come Jafar Panahi, che è una persona meravigliosa, si rifiutano. Lo avevano già arrestato in luglio perché sosteneva la rivoluzione verde e partecipava ai funerali delle vittime del governo per le strade di Teheran, poi gli hanno negato il visto per andare al festival di Berlino, così, infastiditi dal suo coraggio, lo hanno arrestato di nuovo».
È sorpresa di quanto sta accadendo?
«Niente affatto. È la conferma di quanto sia barbarico il governo iraniano. Irrompere in una casa, arrestare non solo la vittima predestinata, ma anche la famiglia e gli ospiti è la prova di un paese senza leggi, senza regole. Perché mai gente innocente, che si trova per caso a una cena, dovrebbe finire in prigione?».
Il suo ultimo film «Women Without Men», leone d’argento a Venezia in settembre, sta risuonando in tutto il mondo. Come si sente?
«Non sapevo cosa volesse dire avere un premio nel cinema. Certo questo ha aiutato a diffondere il film, oltretutto era la prima volta che veniva premiata un’opera prima. Anche il tempismo ha aiutato questa specie di esplosione. Non l’avevo pianificato ma il mio film è stato presentato al pubblico di Venezia subito dopo la frode elettorale in Iran, come quella successa nel 1953, quando il governo democratico di Mossadeq fu spodestato dallo Shah Reza Pahlavi, sostenuto dalla Cia. “Women Without Men”, dal romanzo di Shamush Parsipur, racconta come in realtà il movimento per la democrazia in Iran non si sia mai assopito. E lo fa in maniera nuova, autentica. Per me è stato un esperimento in cui ho cercato di fondere arte concettuale, cinema e storia del mio paese».
Al centro del film c’è il giardino. Che cosa significa per la cultura iraniana?
«Nel nostro misticismo e nella nostra letteratura ha un significato di trascendenza spirituale. È il luogo dove puoi sfuggire alla banalità o alla violenza di tutti i giorni e sentirti libero, ma è anche il grembo della madre, la vita dopo la morte. Per renderlo cinematograficamente misterioso abbiamo fatto attenzione all’uso del colore, al movimento della macchina da presa, che nel giardino rallenta. Quando sei nel giardino sei nel mondo interno della donna, contrapposto alla città».
Qual è il ruolo di un’artista iraniana all’estero nei confronti del suo Paese?
«Noi siamo controllati dal nostro governo, ma la gente sa quello che facciamo e ci sostiene. Grazie all’onda verde mi sento molto più vicina al mio popolo ed ho migliaia di amici che prima non avevo».
Si è trasformata in attivista?
«Non lo sono e non mi piace questa parte. Presto però la mia voce e il mio lavoro per fare capire alla mia gente che sono con loro».
Lo faceva già con i suoi video, Turbulent, Rapture, Soliloquy, Fervor, Passage...
«Sì, ma l’arte e la cultura non arrivano al grande pubblico, il cinema invece sì».
Come influiscono Internet e i social network alla diffusione dell’informazione in Iran?
«Quando a febbraio c’è stato l’anniversario della rivoluzione iraniana, e c’erano migliaia di dimostranti a favore, su Google Map si è visto che era tutto falso e combinato del governo che ha speso milioni per assoldare dimostranti e organizzare a pagamento carovane di autobus da ogni parte del Paese per sostenerla. Facebook, Twitter e Internet contribuiscono a mantenere viva l’onda della democrazia».
E i media tradizionali?
«In generale non hanno voce, spostano l’attenzione dai diritti umani al programma nucleare. Non denunciano come la gente continui ad essere imprigionata, torturata, giustiziata senza processo. Gli attivisti iraniani in ogni parte del mondo, invece, non smettono mai di aiutare i giovani in prigione e nei campi dei rifugiati in Turchia. Per i mezzi di comunicazione di massa siamo una curiosità come un’altra. Quando non interessiamo più si cambia canale. Il ruolo di noi artisti iraniani all’estero, dunque, è di mantenere viva l’attenzione su quanto succede nel nostro Paese».
Progetti?
«Tornerò a fare fotografie in studio, sugli oppressi e gli oppressori. Racconterò il gioco dinamico col potere e comincerò un nuovo film dal romanzo “The Palace of Dreams” di Ismail Kadare».
Il sodalizio con il regista Shoja Azari continua?
«Da “Turbulent” in poi non si è mai interrotto. Shoja comincerà presto il suo film “Paradise” ed io parteciperò come creative producer».
Come definisce il suo modo di raccontare col cinema?
«Enigmatico. È allo stesso tempo magico e realistico, storico e filosofico, parla dell’Iran di ieri, ma anche di oggi e non solo dell’Iran».

L'OPINIONE - Stefano Magni : " Iran nucleare, non pacifico "


Yukiya Amano

Il nuovo direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), il giapponese Yukiya Amano, ha cambiato decisamente atteggiamento rispetto al suo predecessore, l’egiziano Mohammed el Baradei. Dopo i silenzi e il tacito avallo della politica iraniana da parte del precedente direttore, Amano, nel primo rapporto dell’Aiea sull’attività nucleare dell’Iran, aveva scritto nero su bianco che c’era il sospetto di suo scopo militare. Si parlava chiaramente di “Preoccupazione per la possibile esistenza di passate e presenti attività segrete per la produzione di testate nucleari per missili”. Lunedì, Amano ha solo leggermente smorzato i toni, per evitare forti polemiche internazionali. E, per questo, è stato pubblicamente apprezzato dalle autorità nucleari di Teheran. Ma la sostanza del discorso resta quella: “(l’Aiea, ndr) non esclude che tutto il materiale fissile in Iran venga usato per scopi pacifici”. Resta dunque il sospetto che il regime islamico voglia dotarsi della bomba atomica.
Il dibattito è tornato di stretta attualità da tre settimane, da quando, cioè, Ahmadinejad ha annunciato pubblicamente l’inizio di un programma di arricchimento dell’uranio al 20%. Questa soglia è ancora insufficiente alla produzione di testate, ma avvicina notevolmente l’Iran a questo obiettivo. E soprattutto rappresenta un segnale chiaro che la Repubblica Islamica vuol produrre materiale nucleare in casa, contro ogni compromesso possibile con l’Aiea e con la comunità internazionale. In questo nuovo round dello scontro, i Paesi in via di sviluppo e la Cina si schierano dalla parte di Teheran. La tesi di questo schieramento è che qualsiasi Stato può dotarsi di impianti per la produzione di energia nucleare per scopi pacifici, mentre i timori per le armi atomiche sarebbero solo “pretesti” per escludere gran parte del mondo dallo sviluppo energetico. La Cina, in particolare, ha chiesto ieri “più tempo” per negoziare prima di applicare nuove sanzioni. Lo ha ribadito il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Qin Gang, in occasione dell’incontro con il diplomatico americano James Steinberg.
Tutte le potenze occidentali, a partire dagli Usa, sono invece preoccupate per lo sviluppo atomico della Repubblica Islamica. E anche la Russia si è unita al coro. Lunedì, il presidente Dmitri Medvedev si è detto “pronto, assieme ai nostri partner, a considerare l’introduzione di nuove sanzioni” contro il programma nucleare di Teheran.
La disputa, dunque, è sempre la stessa. E’ dalla parte di Ahmadinejad e dell’ayatollah Khamenei chi crede (o vuol credere) che la loro attività serva solo a produrre più energia elettrica in Iran. E’ contro chi è convinto che l’energia sia solo un paravento e che lo scopo, alla fine, sia quello di avere una bomba atomica. Che, una volta costruita, può consentire al regime islamico di distruggere Israele, o minacciare i Paesi arabi del Golfo o garantirsi l’assoluta immunità internazionale. O tutte e tre le cose assieme. Ci sono alcuni fatti oggettivi che dimostrano quanto abbia ragione il secondo gruppo di Paesi. La segretezza del programma, prima di tutto: è stato “scoperto”, dietro segnalazione di dissidenti interni, solo nel 2002. L’ultima installazione, a Qom, è stata svelata solo nel 2009. Perché tenere segreto un programma industriale, se ha solo scopi pacifici? L’ultimo rapporto dell’Aiea smentisce indirettamente il dossier pubblicato dall’intelligence americana del 2007 (secondo il quale, dal 2003, l’Iran avrebbe smesso di lavorare alla bomba) e consolida ulteriormente la tesi che la Repubblica Islamica voglia diventare una potenza nucleare a tutti gli effetti. Se resta un dubbio è solo nella dottrina del regime di Teheran: Khomeini, il suo fondatore, era fermamente contrario al possesso e all’uso di armi atomiche. Ma anche questo aspetto sta cambiando. Mentre la guida suprema, Alì Khamenei, continua a definire ufficialmente un “peccato” il possesso di testate nucleari, le riviste vicine al governo le vogliono. Gli alti ufficiali della Guardia Rivoluzionaria ritengono, non solo legittimo, ma obbligatorio, l’adozione di tutti i mezzi necessari alla difesa della rivoluzione islamica. Citano il Corano per affermare: “Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete (raccogliere) e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce. Tutto quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non sarete danneggiati”.

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