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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Foglio - Fondazionecdf.it Rassegna Stampa
02.03.2010 Dubai: tutti concentrati sull'identità dei ricercati
Ma nessuno si chiede che cosa ci facesse là un terrorista di Hamas con documenti falsi?

Testata:Il Foglio - Fondazionecdf.it
Autore: Luca Rigoni - Fondazione Camis de Fonseca
Titolo: «La città delle locuste - Dubai, la domanda che nessuno pone»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 02/03/2010, a pag. I, l'articolo di Luca Rigoni dal titolo " La città delle locuste ". Da FONDAZIONECDF.IT, l'articolo dal titolo " Dubai, la domanda che nessuno pone ". Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Luca Rigoni : " La città delle locuste "


Dubai

Anche il nome è perfetto. E come ogni nome da romanzo nasconde un destino. Dubai. L’hanno chiamata così – questo almeno raccontano – quando era poco più di un villaggio sul mare abitato dai pescatori di perle. Daba è la radice del nome: come le fameliche locuste che la sorvolavano a sciami. Come oggi i turisti, i finanzieri, gli ingegneri, i mercanti d’armi, gli immobiliaristi, gli spalloni di valuta, i pachistani filippini indiani pronti a tutto per un lavoro da cento euro al mese. E le spie. In una città i cui residenti sono al novanta per cento stranieri ed è visitata ogni anno da quindici milioni di persone, di spie ne risiedono stabilmente, pare, almeno diecimila. La città delle locuste – questa concrezione artificiale di acciaio, cemento, cristallo e asfalto spremuta verso il cielo dal deserto e dal mare – è la nuova calamita dello spionaggio. E il laborioso blitz attribuito al Mossad nell’al Bustan Rotana Hotel per eliminare Mahmoud al Mabhouh, il capo degli squadroni della morte di Hamas, ha reso lampante quello che tutti sapevano. Dubai come la nuova Istanbul, o Nicosia, o Casablanca, o Berlino con il Muro, ha scritto Zvi Bar’el su Haaretz. Il nuovo paradiso degli spioni: ogni fronte di guerra se ne inventa uno che gli faccia comodo. Una camera di compensazione, un crocicchio di informazioni, un territorio franco, una zona di scambio. Lo era anche la Svizzera dell’agente Ashenden di Maugham, la Vienna del “Terzo uomo” di Greene, la Istanbul di “Dalla Russia con amore” di Fleming, la Beirut del “Levantino” di Eric Ambler. Zolle protette dalle frizioni della storia, precari approdi da un mare in tempesta. Uno spione – per esempio della Cia – potrebbe atterrare a Dubai così: “Tom Rogers scese dall’aereo della Middle East Airlines ed ebbe davanti la visione di Oz: le nuove torri che ospitavano uffici e gli edifici degli appartamenti brillavano al sole del pomeriggio. Nell’aeroporto, i facchini, minuti, correvano su e giù, gridavano e si davano importanza mentre buttavano i bagagli qua e là; lontano, sulla strada dell’aeroporto, con i clacson che strombazzavano tanto da svegliare i morti, avanzava lentamente una fila di macchine e camion diretti, quasi toccandosi, verso la città incantata”. E’ una spy-story del 1987, “Agenti di innocenza” (Mondadori), di David Ignatius, vicedirettore e columnist del Washington Post: però lo scalo d’arrivo, la visione di Oz del racconto, in realtà non è Dubai ma la Beirut del 1969: anche se si assomigliano maledettamente. Tom Rogers, un “americano tranquillo”, ci arriva con il compito di penetrare la guerriglia palestinese, a costo di urtare le manovre e gli interessi israeliani. “Nel 1969 Beirut era una città di frontiera ritenuta dai suoi abitanti l’ultimo avamposto d’Europa, nonostante si trovasse in piena Asia, al confine dell’islam e dell’oriente. Gli abitanti di Beirut – prosegue Ignatius – amavano chiamare la loro città la Parigi d’oriente ma spesso l’impressione era che fosse più una Hong Kong europea… Lo spirito nazionale era ben riassunto in un titolo di uno dei giornali locali; diceva: ‘Definito facilmente attuabile, lanciato il superprogetto per trasformare il Libano nel paese dei sogni’. Il progetto in questione prevedeva la costruzione di strade sopraelevate per risolvere il problema del traffico cittadino. Sarebbe costato la sbalorditiva somma di trecentocinquanta milioni di dollari, irraggiungibile per un paese che non riusciva a esigere neppure le imposte per la raccolta dei rifiuti. Per i libanesi tutto questo era molto divertente. Gli osservatori esterni, però, già vedevano i segnali d’avvertimento che la maggior parte degli abitanti di Beirut ignorava”. Sappiamo come sarebbe andata a finire di lì a sei anni: con una guerra civile durata, almeno tecnicamente, quindici anni, costata centocinquantamila morti e sopita nella cosiddetta pax siriana. Questo succede quando le parti in conflitto non hanno più la necessità o non sono più in grado di ritagliarsi una zona franca, quando la guerra delle spie sconfina nella guerra guerreggiata – e viceversa. E infatti la Beirut in cui atterra nei primissimi anni Ottanta la “Tamburina” di John le Carré non assomiglia per niente a Oz. Non c’è miraggio, non c’è futuro, non c’è sole. Piove. E le locuste dello spionaggio, dopo tanti preparativi, devono combattere anche allo scoperto, come soldati qualunque. “Stava piovendo quando atterrarono a Beirut e lei capì che doveva essere una pioggia calda perché il calore penetrava anche all’interno della cabina mentre ancora stavano girando intorno. Volarono sopra una nube, simile a una roccia arroventata dalle luci dell’aereo. Poi la nube finì e procedettero a bassa quota sul mare, rischiando di fracassarsi contro le montagne sempre più vicine… Fecero un atterraggio perfetto, le porte s’aprirono e lei sentì per la prima volta l’odore del medio oriente, che l’accoglieva come una che torna a casa. Erano le sette di sera, ma sarebbero potute essere le tre del mattino, perché lei comprese immediatamente che quello non era un mondo che andasse a letto. Il frastuono agli arrivi le ricordava il giorno del derby prima del via; c’erano uomini armati in varie divise e in quantità sufficiente da iniziare una loro guerra”. No, il Libano non è più, come scriveva Samir Kassir a proposito dei primi anni Sessanta, “un paese di miele e di latte” e la sua capitale non è più “una città del lusso e della voluttà, una perla rara in un Vicino Oriente tormentato” (“Histoire de Beyrouth”, 2003; Einaudi, 2009). Adesso è un paese dilaniato dalla violenza, percorso dalle bande e dagli eserciti; è una città smembrata, sventrata e distrutta. Ricordava Kassir, vittima anche lui dell’onda lunga della guerra civile e del controllo siriano, ucciso da un’autobomba nel giugno del 2005: “Fin dalla sua inaugurazione nel 1961 l’hotel Phoenicia si impose come una figura iconica della ricchezza libanese, nutrendo durevolmente l’immaginario dei contemporanei, compresa la maggioranza dei beirutini per i quali restò inaccessibile. Era forse soprattutto la scenografia del bar a colpire l’immaginazione; un’ampia vetrata, attraverso la quale si poteva contemplare la teoria di naiadi in bikini sul fondo della piscina, combinava la prodezza tecnica, impressionante per l’epoca, a un glamour degno dei film hollywoodiani che, nello stesso momento, attiravano le folle verso i cinema nuovi fiammanti di rue Hamra. Beirut aveva ormai il suo monumento, identificabile sulle cartoline panoramiche. Dando elevatezza al lungomare, superando di gran lunga il Saint-Georges e il Normandy, il nuovo fastoso albergo rifletteva la vocazione cosmopolita di una città dove la fortuna sembrava calamitare la fortuna”. Continuava Kassir: “La prosperità libanese poteva contare sull’apporto di capitali stranieri, segnatamente arabi, che affluivano sulla piazza di Beirut, soprattutto dopo l’istituzione del segreto bancario. La ‘Svizzera d’oriente’ era ridiscesa dalle villeggiature del Monte Libano vero il litorale di Beirut. Qui, una rutilante via delle Banche si aggiungeva alle prestigiose risorse alberghiere per dare consistenza a un’analogia che non avrebbe smesso di alimentare fantasmi e poi nostalgie”. Ci sono o no, in questo scatto di Beirut, 1961, analogie con Dubai, oggi? Alberghi di gran lusso, banche, capitali esteri e arabi, presenze straniere, traffici di ogni tipo. Sull’orlo del crac, ma in una momentanea, miracolosa condizione antisismica nel bel mezzo degli sconquassi mediorientali. Certo: da una parte la storia, la commedia e la tragedia libanese; dall’altra l’artificio edilizio e finanziario sulle sabbie bollenti dell’emirato. Da una parte l’influenza francese ed europea; dall’altra un gusto Mecca&Mall piombato suppergiù da Las Vegas. Ma, ancora e sempre, quanti Felicino Riva in fuga, e in cerca di oblio o di riscatto, da una parte e dall’altra? E quante reali e possibili spy stories? Spiega Bob Baer, ex funzionario della Cia a Beirut e in Iraq, che Dubai è la più importante fra le pochissime “finestre” e i “punti d’ascolto” che i servizi americani hanno sull’Iran, visto che è impossibile operare a Teheran. L’emirato conta una delle più vaste comunità di espatriati iraniani, una vera messe di informazioni. Senza contare che annualmente sono decine di migliaia gli iraniani che vanno e vengono regolarmente, per affari o turismo. E proprio la Cia ha bloccato più di una volta il dipartimento di stato quando negli ultimi anni, per tagli di bilancio, voleva chiudere l’ufficio consolare americano a Dubai. “Gli iraniani che chiedono il visto per gli Stati Uniti vengono monitorati, interrogati e alcuni di loro poi assoldati come informatori”, rivela l’ex corrispondente dell’Associated Press Jim Krane. Ma è vero anche il contrario: che l’Iran sta usando Dubai come base spionistica, oltre che affaristica, per aggirare le sanzioni internazionali. E secondo le fonti di Haaretz, le autorità dell’emirato, come nella più scontata delle trame levantine, indossano varie maschere, dando una mano a Teheran ma anche tenendo regolarmente informata Washington. Come non pensare ai ristoranti e ai bar del Burj al Arab – l’hotel a sette stelle a forma di vela – come a quelli del Phoenicia, o del Normandy, o del Saint-Georges nella Beirut di una volta, prima che tutto precipitasse? Molti hanno dimenticato le memorie di Eleanor Philby, la moglie americana di Kim durante gli anni libanesi: gli ultimi e stanchi e sempre più alcolici della recita, prima che il più grande doppiogiochista del secolo scorso fuggisse verso Mosca in una notte di pioggia, il 23 gennaio 1963. “Incontrai per la prima volta Kim Philby nel bar gremito del Saint-Georges, sei settimane prima che scoppiasse la guerra per Suez. Giornalisti di tutto il mondo si riversavano avidi di notizie a Beirut che, con il suo aeroporto internazionale e le facili comunicazioni, è il naturale posto d’ascolto per l’intero mondo arabo. Beirut è una città allegra e facile, dedita alla ricerca del denaro e dei piaceri. Tra tutti i suoi innumerevoli bar e alberghi, il Saint-Georges era il più noto. Si trova proprio di fronte al mare azzurro, un vasto edificio piacevole e quadrato, il migliore albergo del medio oriente. Sulla sua terrazza la gente chic sorseggia aperitivi, ammirando i bikini sulla spiaggia sottostante e gli sportivi che praticano lo sci d’acqua nella baia. Subito dietro la terrazza c’è il bar, quartier generale della stampa internazionale. Il 12 settembre 1956 stavo sorseggiando l’aperitivo prima di pranzo con alcuni amici. Qualcuno al nostro tavolo richiamò la mia attenzione su un nuovo arrivato, una persona dall’aria riservata e dall’aspetto inglese, seduta al lato opposto della sala. ‘Quello è Kim Philby’ mi fu detto” (“The Spy I Loved”, H. Hamilton, 1967). Il principio di un amore e l’avvio di un nuovo capitolo nella più grande e romanzesca storia di spie britannica, e non solo. Philby, quasi cinquantenne, era arrivato letteralmente all’ultima spiaggia e, sospettato dagli inglesi – ma scoperto con certezza dagli americani –, sopravviveva indossando la maschera del corrispondente dell’Observer e dell’Economist. E ficcandosi in ristorantini armeni passava informazioni, contemporaneamente, ai capistazione del MI6 e del KGB, in un gioco da funambolo che sapeva a esaurimento. “Nessuno può conoscere il futuro. Meno di tutti, quelli che credono nel determinismo storico; e dopo di loro le spie e i giornalisti. Forse è per questo che le spie si travestono spesso da giornalisti” scrive Iosif Broskij in un memorabile e astioso saggio su Philby contenuto nel “Profilo di Clio” (Adelphi, 2003). Suggerisce, Brodskij, che i russi a Beirut abbiano utilizzato il traditore Philby per fargli delineare, con l’esperienza di figlio dell’Impero britannico e i contatti che gli venivano, oltre che dalla sua attività, dal padre St. John Philby – grande arabista e consigliere della casa reale saudita – la politica di Mosca verso il medio oriente. Più ancora: per favorire la penetrazione sovietica nell’area del petrolio e mettere in ginocchio le democrazie industriali dell’occidente. “Il progetto prende le mosse dalla constatazione che gli inglesi hanno lasciato un vuoto nel vicino oriente. Riempitelo, dunque. Appoggiate i capi arabi, uno a uno, oppure associateli in una specie di confederazione. Riforniteli di armi, date loro di tutto. Costringeteli a indebitarsi. Dite loro che possono benissimo ripagarvi se aumentano i prezzi del petrolio, che voi continuerete a spalleggiarli; e che voi avete le armi atomiche. In un baleno l’occidente invoca aiuto, gli arabi diventano ricchi, e voi controllate gli arabi”. Philby: sottile regista – alla fine – di un piano grandioso, e destinato a fallire. “Doppio o triplo che fosse il suo gioco, era in tutto e per tutto un agente britannico, perché il tratto fondamentale dei suoi straordinari sforzi è un acuto senso di futilità. La futilità è così tremendamente britannica”. Invece a Eleanor, quando lo incontra, sembra un uomo molto solo, un po’ balbuziente, senza nemmeno un’automobile. “A commuovermi per prima cosa fu la sua solitudine. Non conosceva nessuno a Beirut. Abitava fuori città in un piccolo villaggio libanese di montagna, nella casa in cui aveva vissuto suo padre. Kim era a corto di denaro, e in questo modo risparmiava. Durante i primi mesi nel Libano veniva in città soltanto una o due volte la settimana per telegrafare i suoi dispacci a Londra. Un certo riserbo all’antica lo distingueva dalla disinvolta familiarità degli altri giornalisti. Era di statura media, molto magro, con un bel viso solcato di rughe profonde. Gli occhi erano di un azzurro intenso”. Ecco la spia. Quello che finora manca al romanzo di Dubai, dove lo sciame degli agenti del Kidon del Mossad viene fissato da decine di telecamere d’aeroporto e d’albergo, e i volti rilanciati in tutto il mondo. Tutto è moltiplicato e seriale: a un libro di Eric Ambler si è sostituito un film di Jason Bourne. Ma non è detto sia per sempre. Spiare – ci ricorda John le Carré – è attendere.

FONDAZIONECDF.IT - " Dubai, la domanda che nessuno pone "


Un terrorista di meno

La polizia di Dubai ha fornito al mondo a vero tempo di record i filmati delle persone che si presume siano coinvolte nell'uccisione di Mahmoud Mabhouh, e tutti i dati dei passaporti - falsificati - con cui costoro viaggiavano. Le informazioni rilasciate puntano tutte al coinvolgimento di Israele nella morte di Mabhouh. Rintracciare tante immagini e tante informazioni  precise in così poco tempo fra i milioni di fotogrammi e di dati immagazzinati dalle telecamere e dai computer è una prova di eccezionale efficienza, che credo nessuno si sarebbe aspettato.
 
Peraltro il capo della polizia, Dahi Khalfan Tamim, ha dichiarato alla TV Al Arabiya che lo stesso Mahmoud Mabouh viaggiava con documenti falsi, e che per questo la polizia non aveva saputo del suo arrivo e non aveva potuto organizzare un servizio di  protezione (?!) per lui. Sembra uno 'scusarsi' pubblicamente per aver omesso un atto dovuto. Perché per il Dubai era un atto dovuto proteggere Mabhouh? Atto dovuto a chi,  per che motivo? Perché il capo della polizia sente la necessità di scusarsi pubblicamente?
Come mai nessuno ha chiesto di vedere anche le immagini di che cosa ha fatto Mabhouh durante la permanenza a Dubai, chi ha incontrato a Dubai, con che passaporto viaggiava, rilasciato da quale stato, a quale nome? Forse queste informazioni farebbero luce anche sulla sua uccisione.
 
Come mai i nostri media  hanno così poca curiosità di sapere chi era e che cosa faceva questo signor Mabhouh, che viaggiava con falsi documenti?

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