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La Stampa - Il Foglio - Il Giornale - Corriere della Sera Rassegna Stampa
27.01.2010 Memoria 3 - Cronache e storia
Articoli di Elena Loewenthal, Olivier Guez,Mario Calabresi, Giuseppe Ghini, Edoardo Sassi, Paola D'Amico

Testata:La Stampa - Il Foglio - Il Giornale - Corriere della Sera
Autore: Elena Loewenthal - Olivier Guez - Giuseppe Ghini - Edoardo Sassi - Paola D'Amico
Titolo: «Il Giorno della Memoria - Non mito, ma realtà - L'anno prossimo a Varsavia - Grossman e Lustiger dimenticati dall’editoria - E il soprano della Scala cantò ad Auschwitz - Il terribile Binario 21 dei vagoni blindati sarà dedicato al ricordo»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 27/01/2010, a pag. 80, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo " Il Giorno della Memoria ", a pag. 36, la risposta di Mario Calabresi ad un lettore dal titolo " Non mito, ma realtà, con una sua unicità nella Storia ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Olivier Guez dal titolo " L'anno prossimo a Varsavia ". Dal GIORNALE, a pag. 33, l'articolo di Giuseppe Ghini dal titolo " Grossman e Lustiger dimenticati dall’editoria ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 33, gli articoli di Edoardo Sassi e Paola D'Amico titolati " E il soprano della Scala cantò ad Auschwitz " e " Il terribile Binario 21 dei vagoni blindati sarà dedicato al ricordo ". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Elena Loewenthal : " Il Giorno della Memoria "


Elena Loewenthal

Perché oggi si celebra il Giorno della Memoria?
Istituito dieci anni fa, il Giorno della Memoria si celebra il 27 gennaio perché in questa data le Forze Alleate liberarono Auschwitz dai tedeschi. Al di là di quel cancello, oltre la scritta «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi), apparve l’inferno. E il mondo vide allora per la prima volta da vicino quel che era successo, conobbe lo sterminio in tutta la sua realtà. Il Giorno della Memoria non è una mobilitazione collettiva per una solidarietà ormai inutile. È piuttosto, un atto di riconoscimento di questa storia: come se tutti, quest’oggi, ci affacciassimo dei cancelli di Auschwitz, a riconoscervi il male che è stato.
Che cosa è, che cosa rappresenta Auschwitz?
Auschwitz è il nome tedesco di Oswiecin, una cittadina situata nel sud della Polonia. Qui, a partire dalla metà del 1940, funzionò il più grande campo di sterminio di quella sofisticata «macchina» tedesca denominata «soluzione finale del problema ebraico». Auschwitz era una vera e propria metropoli della morte, composta da diversi campi - come Birkenau e Monowitz - ed estesa per chilometri. C’erano camere a gas e forni crematori, ma anche baracche dove i prigionieri lavoravano e soffrivano prima di venire avviati alla morte. Gli ebrei arrivavano in treni merci e, fatti scendere sulla cosiddetta «Judenrampe» (la rampa dei giudei) subivano una immediata selezione, che li portava quasi tutti direttamente alle «docce» (così i nazisti chiamavano le camere a gas). Solo ad Auschwitz sono stati uccisi quasi un milione e mezzo di ebrei.
Con il termine Shoah che cosa si definisce?
Shoah è una parola ebraica che significa «catastrofe», e ha sostituito il termine «olocausto» usato in precedenza per definire lo sterminio nazista, perché con il suo richiamo al sacrificio biblico, esso dava implicitamente un senso a questo evento e alla morte, invece insensata e incomprensibile, di sei milioni di persone. La Shoah è il frutto di un progetto d’eliminazione di massa che non ha precedenti, né paralleli: nel gennaio del 1942 la conferenza di Wansee approva il piano di «soluzione finale» del cosiddetto problema ebraico, che prevede l’estinzione di questo popolo dalla faccia della terra. Lo sterminio degli ebrei non ha una motivazione territoriale, non è determinato da ragioni espansionistiche o da una per quanto deviata strategia politica. È deciso sulla base del fatto che il popolo ebraico non merita di vivere. È una forma di razzismo radicale che vuole rendere il mondo «Judenfrei» («ripulito» dagli ebrei).
Quali sono gli antecedenti?
L’odio antisemita è un motivo conduttore del nazismo. La Germania vara nel 1935 a Norimberga una legislazione antiebraica che sancisce l'emarginazione. Tre anni dopo l’Italia approva anch’essa un complesso e aberrante sistema di «difesa della razza», rinchiudendo gli ebrei entro un rigido sistema di esclusione e separazione dal resto del paese. Ma questa terribile storia ha dei millenari precedenti. Prima dell’Emancipazione, ottenuta in Europa nella seconda metà dell'Ottocento, gli ebrei erano vissuti per millenni come una minoranza appena tollerata, non di rado perseguitata e cacciata, e sempre relegata entro i ghetti. Tanto nel mondo cristiano quanto sotto l'Islam. Visti con diffidenza e odio per la loro fede tenace (e, dal punto di vista della maggioranza, sbagliata), hanno sempre rappresentato il «diverso», la presenza estranea. Anche se da millenni vivono qui e si sentono europei.
Perché la Shoah è un evento unico?
Dopo la Shoah è stato coniato il termine «genocidio». Purtroppo il mondo ne ha conosciuti tanti, e ancora troppi sono in corso sulla faccia della terra. Riconoscere delle differenze non significa stabilire delle gerarchie nel dolore: come dice un adagio ebraico «Chi uccide una vita, uccide il mondo intero». Ma mai, nella storia, s’è visto progettare a tavolino, con totale freddezza e determinazione, lo sterminio di un popolo. Studiando le possibili forme di eliminazione, le formule dei gas più letali ed «efficaci», allestendo i ghetti nelle città occupate, costruendo i campi, studiando una complessa logistica nei trasporti, e tanto altro. La soluzione finale non è stata solo un atto di inaudita violenza, ma soprattutto un progetto collettivo, un sistema di morte.
Perché ricordare e commemorare?
Il Giorno della Memoria non vuole misconoscere gli altri genocidi di cui l'umanità è stata capace, né sostenere un’assai poco ambita «superiorità» del dolore ebraico. Non è infatti, un omaggio alle vittime, ma una presa di coscienza collettiva del fatto che l’uomo è stato capace di questo. Non è la pietà per i morti ad animarlo, ma la consapevolezza di quel che è accaduto. Che non deve più accadere, ma che in un passato ancora molto vicino a noi, nella civile e illuminata Europa, milioni di persone hanno permesso che accadesse.

La STAMPA - Mario Calabresi : " Non mito, ma realtà con una sua unicità nella Storia "


Mario Calabresi

Egregio Direttore, non sono per niente soddisfatto della risposta che Lei ha dato al lettore che lamenta la unilateralità del «giorno della memoria».
So per certo che questa mia lettera, su un argomento che non si può toccare, non verrà pubblicata, ma voglio comunque esprimerle il mio pensiero. Il rimandare alla legge del Parlamento italiano è un modo per sfuggire alla domanda.
Quanto poi al «ricordare la Shoah è fondamentale per noi che viviamo in Europa», le rammento che anche gli ucraini sterminati per fame da Stalin vivevano in Europa.
Perché non dire la verità? L’enfasi sulla Shoah rispetto agli altri genocidi è dovuta unicamente alla potenza mondiale della lobby ebraica.
PROF. MARIO ENRIETTI, TORINO

Le lettere che mi appassionano di più sono in genere quelle con cui non sono per niente d’accordo. La sua è una di quelle e per questo la pubblico, anche perché mi dà la possibilità di tornare sull’argomento.
La prima cosa che non mi ha mai convinto, anzi di cui ho sempre diffidato, è l’utilizzo della comparazione, specie se questa serve a rendere tutto relativo e discutibile.
Ho avuto modo di vederlo quando si discuteva l’istituzione del Giorno della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi. Chi non era d’accordo e non aveva il coraggio di dirlo apertamente allora cominciava a obiettare: «E le vittime degli scontri di piazza?»; «Però ci sarebbero anche i morti per terrorismo internazionale»; «Ma non vorremo mica dimenticare i caduti in missioni di pace, forse valgono meno?».
Lo considero un boicottaggio mascherato e non bisogna farsi intrappolare in questi dibattiti.
Ricordare la Shoah e la sua unicità nella Storia - che non è un mito ma una realtà - non significa certo voler dimenticare gli ucraini sterminati per fame, così come avere memoria dei crimini del nazismo non significa sottovalutare quelli del comunismo.

Il FOGLIO - Olivier Guez : " L'anno prossimo a Varsavia "


Varsavia

Una torcia si alza nel cielo grigio di dicembre. Imbacuccato in un cappottone nero, un berretto cacciato sulle orecchie, un braccio teso quasi fosse un atleta alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi, il rabbino Schudrich pronuncia a squarciagola le benedizioni per l’accensione della prima candela di hanoucca davanti al fabbricato bianco del Centro comunitario di Varsavia. Una muta di fotografi lo circonda, i flash crepitano, le telecamere riprendono la scena. Appena la cerimonia ha termine, alcuni reporter piombano su Piotr Kadlcik, presidente della comunità, robusto quarantenne dall’aria spaccona, amante delle arti marziali, al quale, malgrado abbia cominciato a nevicare, rivolgono stoicamente i loro microfoni. “La festa d’Hanoucca celebra il miracolo della boccetta d’olio che ha permesso ai sacerdoti del Tempio di far bruciare per otto giorni una quantità appena bastante per una giornata. La boccetta magica potrebbe essere il simbolo della comunità ebraica polacca: era sul punto di scomparire, e rinasce oggi dalle sue ceneri!”, dichiara loro, beffardo. Una primavera ebraica in Polonia, nel 2010? L’idea può sembrare grottesca in un paese dove i nazisti costruirono i campi di concentramento di Auschwitz e Treblinka e la cui reputazione antisemita è ancora tenace. Il XX secolo è stato micidiale per gli ebrei polacchi che, forti di più di 3 milioni e trecentomila anime alla vigilia della guerra, erano di gran lunga la più grande comunità ebraica d’Europa. Sopravvissero solo in trecentomila, principalmente in Urss, ma il loro ritorno nel Dopoguerra fu dei più amari: ai pogrom della fine degli anni Quaranta fecero seguito le violente campagne antisemite del 1957 e soprattutto del 1968, che costrinsero la stragrande maggioranza dei sopravvissuti e dei loro figli a lasciare la patria ingrata. Sopravvisse solo qualche istituzione di facciata, sorvegliata e censurata, e una piccola comunità che invecchiava, in via d’estinzione. Fino alla caduta del regime comunista, il ricordo degli ebrei di Polonia era sprofondato nell’oblio. Lo scrittore e giornalista Konstanty Gebert fu uno dei primi a ravvivarla a Varsavia. Figlio di ebrei comunisti integratisi, ha quindici anni nel 1968 quando, con sua grande sorpresa, si fa cacciare dal liceo a causa delle origini “sioniste”. “All’epoca, la sinagoga m’incuteva timore e non sapevo assolutamente nulla del giudaismo, salvo il fatto che essere ebreo mi sembrava una cosa cattiva e disonorevole. Gli ebrei che erano partiti, spesso, per salvarsi avevano venduto i loro libri. Questo fu una rivelazione: ho divorato quei vecchi libri, spesso traduzioni dallo yiddish, e anche se l’universo dello shtetl mi era estraneo, sentivo di comprendere i suoi personaggi, persone che la pensavano come me”. Con la militanza attiva in Solidarnosc, Gebert ritrova regolarmente qualche comparsa, ebrei dall’identità incerta e soffocata dopo la repressione del 1968. “Ci si metteva in cerchio, e ognuno raccontava la sua storia e i suoi traumi. Queste sedute furono catartiche”, racconta lisciandosi la barba e aspirando dalla pipa. Con la loro “università ebraica itinerante”, Gebert e i suoi amici attraversarono il paese, di nascosto, in quel periodo di stato d’assedio. Gebert si distingue ancor di più diventando un religioso: una scommessa nella Polonia comunista degli anni Ottanta. Nel suo appartamento, apre un asilo ebraico – “per quattro bambini, all’inizio, perché i genitori avevano paura” – e seppur male accolto dai vegliardi che ancora frequentano la sinagoga – “vai a caccia di guai, e li crei a noi”, gli dicevano – ne diventa un frequentatore abituale. Vent’anni più tardi, Gebert pensa che il suo sogno sia divenuto realtà: “Sarebbe presuntuoso che ci considerassimo gli eredi della Yiddishkeit prebellica. E’ stato abbattuto un albero plurisecolare, ma da questo tronco morto spunta ora un piccolo fusto verde che trae nutrimento dalle stesse radici. Siamo noi quel piccolo fusto: è fragile, ma cresce. A Varsavia ci sono stati restituiti i nostri beni, abbiamo una scuola, istituzioni culturali e religiose, e da poco un’organizzazione di operatori economici. Possiamo mangiare kasher… Ciascuno ha le sue “tsoures” – le sue preoccupazioni – ma la vita ebraica si perpetuerà. Non c’è più nulla di eroico a essere ebrei nella Polonia di oggi. Abbiamo vinto perché la vita della nostra comunità è normale, quasi noiosa…”. Chi non s’annoia affatto è Jan Spielberg. Studente di sociologia, organizzatore di serate, ha appena realizzato un documentario sulla vita ebraica prima della Seconda guerra mondiale ed è l’anima di Zoom, un’associazione che riunisce giovani ebrei a Varsavia. “Interveniamo nel dibattito pubblico per demolire certi cliché che sono sempre duri a morire. No, gli ebrei non erano degli accattoni, e non hanno nemmeno tradito la Polonia buttandosi tra le braccia di Stalin, nel 1939! Del resto, molti polacchi non hanno mai visto un ebreo nella loro vita. Organizziamo eventi culturali per ricordare loro che prima della guerra il 10 per cento della popolazione era ebreo, finanche un quarto o un terzo, nelle grandi città. E’ soprattutto a Est che la popolazione è ignorante, o peggio… A Varsavia, è diverso”, afferma Jan, presissimo da quello che fa, camicia Vichy e jeans skinny, nel baccano del Cafè Polityczna, l’ultimo locale alla moda della capitale, dov’è affisso all’ingresso un manifesto psichedelico per un “Hanoucca party”. Col suo inglese sparato a un ritmo da mitraglietta e le sue quattro parole di francese, Jan si troverebbe a suo agio a New York, o a Parigi. Ma è a Varsavia che vuole vivere. “Sono ebreo e polacco, polacco ed ebreo, non c’è alcuna contraddizione. La Polonia non finisce tutta ad Auschwitz. Del resto non ci sono mai andato, mi rifiuto di costruire la mia identità sull’Olocausto: qui c’è una cultura ebraica, e molti giovani si interessano alla cultura ebraica. Tutti sono cattolici in Polonia: allora essere ebrei, specie negli ambienti di sinistra a Varsavia, è estremamente cool, sei interessante, anche se sfortunatamente non ho mai rimorchiato una ragazza solo con questi argomenti!”. I buontemponi di Zoom, di quando in quando, si ritrovano all’Obiekt, uno scantinato fumoso sotto la Galleria Nazionale d’Arte Contemporanea della capitale. Questa sera, una graziosa brunetta di 22 anni troneggia in mezzo ai suoi compari, tra cui Jan, birra in mano e sigaretta in bocca. E’ Anna Bakula, presidentessa di Zoom. La sua storia è emblematica di un certo Rinascimento ebraico in Polonia. “Mio padre è ebreo, ma sono stata battezzata. Mi ha rivelato le mie origini solo quando avevo 17 anni. Non mi sono convertita, ma mi sento ebrea”, assicura. In questi ultimi anni, migliaia di polacchi hanno scoperto la loro ebraicità: talvolta, è una nonna morente che, prima di morire, confida a un nipote il pesante segreto che ha custodito per decenni; talvolta, è un vecchio album di fotografie ritrovato nel cantuccio di un granaio che svela la storia della famiglia. Certi la rifiutano; altri, incuriositi, vogliono saperne di più ma non sanno sempre a chi rivolgersi, specie nei borghi dell’Est dove non esiste alcuna istituzione ebraica all’infuori dei cimiteri. Negli anni Novanta era stata creata una “hotline” ebraica. Vi aveva fatto ricorso Malgorzata Lubinska, oggi presidente di Beit Warszawa, la comunità liberale di Varsavia: “Un giorno, ho visto un piccolo annuncio su un giornale. Ho esitato a lungo – allora, andavo ancora regolarmente in chiesa, sebbene qualche anno prima mia nonna mi avesse rivelato che era ebrea – e poi ho chiamato. Ho chiesto se potevano aiutarmi, perché non sapevo che fare di tutta questa storia”. Malgorzata, allora, partecipa a una terapia di gruppo che durerà due anni e che la libererà, anche lei. “Il contesto era diverso da quello di oggi, dove la parola ‘ebreo’ non è più tabù, e la cultura ebraica è di moda”. Nessuno lo sa meglio di Jerzy Halbersztadt. Questo cinquantenne baffuto è il direttore del futuro museo ebraico di Varsavia, i cui lavori sono cominciati sulla piazza che già ospita il monumento commemorativo della ribellione nel ghetto di Varsavia, il memoriale davanti a cui Willy Brandt si era inginocchiato, prostrato, nel 1970, con gran scorno delle autorità comuniste. “In questi anni sono usciti film, documentari, decine di libri. Come a New York, se non di più!”, giura quest’uomo energico e appassionato che per lungo tempo ha lavorato al museo dell’olocausto di Washington. “La riscoperta della cultura ebraica accompagna la trasformazione democratica della Polonia”. Lo stato e la città di Varsavia partecipano in modo sostanziale alla realizzazione del nuovo museo, di cui si accollano i costi di costruzione per un totale di 35-40 milioni di euro, mentre i donatori privati, come la fondazione Evens di Parigi, si faranno carico dei fondi museali e degli impianti. “Il museo racconterà la storia pluricentenaria degli ebrei in Polonia, in particolare nella sua dimensione non assimilazionista, e affronterà anche le questioni più spinose, come l’ultranazionalismo degli anni Trenta, l’atteggiamento degli ebrei nei confronti del comunismo e quello dei polacchi nei loro riguardi durante il genocidio”. Dieci anni or sono “I carnefici della porta accanto”, un libro di Jan Gross, scosse la coscienza dei polacchi. L’accademico americano di origine polacca vi raccontava il martirio degli ebrei di Jedwabne, assassinati selvaggiamente dai vicini polacchi il 10 luglio 1941; dopo il massacro, si appropriarono della loro casa e ne rubarono i beni. Il crimine, attribuito a torto ma deliberatamente ai tedeschi, rimase ignoto all’opinione pubblica per oltre 60 anni. La sua rivelazione diede avvio a un immenso dibattito sui rapporti tra ebrei e polacchi, e in occasione del sessantesimo anniversario della tragedia il presidente Kwasniewski chiese perdono agli ebrei a nome della nazione polacca. “E’ vero che l’atmosfera è cambiata dalla pubblicazione dei ‘Carnefici’. Il dramma di Jedwabne è citato in tutti i manuali scolastici, l’Istituto per la memoria nazionale lavora con l’istituto di storia ebraico per migliorare la formazione dei professori nell’insegnamento della Shoah. Ha anche avviato delle ricerche sui polacchi salvati dagli ebrei durante la guerra; fino a poco fa, nessuno osava parlarne. Il presidente Kaczynski è irreprensibile, e probabilmente ha fatto della Polonia il migliore alleato europeo di Israele”, spiega Helena Datner, sociologa ed ex presidente della comunità di Varsavia. Ciononostante, non sembra del tutto convinta di quel che dice. Perché borbotta, lancia continuamente sguardi ansiosi intorno a sé, come se i vicini di tavolo la stessero spiando? Dalla madre di Jan Spielberg emanano un malessere diffuso e una sicura malinconia. “Helena non gliel’ha detto, ma suo padre aveva esaminato la tragedia di Jedwabne già negli anni Sessanta. Ma il suo lavoro fu censurato: non poté indicare chiaramente la colpevolezza degli abitanti della città. La generazione di Helena, che nel 1968 aveva 20 anni, sarà sempre ossessionata dal ‘nazional-comunismo’. Il romanzo nazionale della Polonia, Cristo delle nazioni perseguitato, cattolico e monoetnico, composto nel periodo tra le due guerre dall’estrema destra e orchestrato dai comunisti, continua ad avere ai giorni nostri numerosi adepti, tra cui ad esempio gli ascoltatori di radio Maria. La chiesa non ha mai fatto un vero ‘aggiornamento’: se alcuni preti sono aperti al dialogo, è anche vero però che alla cerimonia di Jedwabne non si è visto alcun rappresentante ufficiale della chiesa”, assicura Elzbieta Janicka, una pasionaria dell’antisemitismo. A Varsavia l’incrocio principale porta sempre il nome di Roman Dmowski, politico ultra nazionalista e antisemita feroce. “L’anno scorso, alla scuola di cinema di Lodz, avevo mostrato ai miei studenti l’opera di Wojciech Wilczyk, che fotografava vecchie sinagoghe trasformate in caserme dei vigili del fuoco o in succursali di banche… Nessuno aveva commenti da fare, tranne una studentessa che se ne uscì con spropositi mostruosi. E dopo quell’uscita i suoi compagni se n’erano rimasti quatti”. Lublino fu un tempo capitale dell’ortodossia ebraica, bastione dell’hassidismo dove si distinse il celebre rabbino visionario Yaakob Yitzhak, di cui Martin Buber fece l’eroe di Gog e Magog. Ai piedi del castello si estendeva la città ebraica, dove vivevano quarantamila persone prima della guerra. Oggi restano solo una cinquantina scarsa di ebrei, tra cui Roman Litman, gracile settantenne che sovrintende al destino della comunità. E’ molto fiero di far visitare la yeshiva Chachmei, sontuosa costruzione del 1930 intonacata di fresco e da poco restituitagli dalla città. E però Litman non sa che farne: la sua grande sinagoga dall’elegante colonnato non è mai stata usata dalla piccola comunità, sprovvista com’è di un rabbino permanente: da lustri ormai a Lublino non si celebrano bar mitzva né matrimoni ebraici. Se migliaia di polacchi scoprono di avere radici ebraiche, la presenza di ebrei in Polonia rimane marginale: sarebbero ottomila le persone che fanno parte di una comunità, e quindicimila, forse ventimila quelle ad esse vicine, in un paese di oltre 38 milioni di abitanti. E’ un vuoto – che potrebbe essere ben rappresentato dall’antica collocazione della città ebraica di Lublin, rasa al suolo dai nazisti e trasformata in un parcheggio con parco per bambini – che alcuni polacchi stanno cercando di colmare. Qualcuno cede al kitsch, come il ristorante Mandragora di Lublin, dove un’inserviente accoglie gli ospiti con un vivace “shalom”, proponendo loro di assaggiare il pollo Ezechiele o la zuppa Gerusalemme. Altri, più seri, come i membri del teatro NN, fanno un’incredibile opera di ricostruzione, raccogliendo testimonianze, foto e documenti della vita ebraica locale prima della catastrofe. A Cracovia, nel vecchio quartiere ebraico di Kasimierz, si svolge il più grande festival di cultura ebraica al mondo, dove ogni estate si accalcano oltre trentamila persone. “Questo festival musicale è la mia vita”, racconta il direttore Janusz Makuch, 49 anni, un affabile barbuto i cui occhi brillano di una luce strana. “In questa città che fu una grande città multiculturale, rende omaggio ai vecchi abitanti di Kazimierz, a tutti gli ebrei di Polonia il cui assassinio ha rappresentato un dramma immenso per il nostro paese. Come polacco ho la responsabilità, il dovere, di trasmettere questa cultura e di fare tornare a Cracovia artisti ebrei dal mondo intero, anche se solo per la durata di un festival. Qui c’è qualcosa nell’aria, qualcosa di molto speciale radicato nella terra, che sento nel mio intimo più profondo”. Davanti a una serie di ritratti di tsadik che ornano un muro del suo ufficio, Makuch il traghettatore, assaporando un caffè profumato al cardamomo recentemente portato da Gerusalemme, cita i versi del talmud e ricorda i benefici dell’integrazione europea, in particolare per le nuove generazioni: “In questo paese ‘antisemita’ sta succedendo qualcosa”, dice con un sorriso. Il newyorkese Jonathan Ornstein, direttore del centro ebraico di Cracovia, l’artista norvegese Bente Kahan, che ha creato una sua fondazione culturale a Wroclaw e raccolto i fondi per restaurare la sinagoga della città, il rabbino liberale americano Schuman della comunità Beith Warszawa ne sono convinti. Tutti investono energie enormi per dare nuovo vigore a quel piccolo fusto verde di cui parlava Gebert. A tutti spiace che la stragrande maggioranza dei turisti ebrei vada solo ad Auschwitz. “Significa insultare gli ebrei che vivono qui e gli sforzi di tanti polacchi”, si lamenta Ornstein. Auschwitz? Boaz Pash, il rabbino israeliano di Cracovia, non voleva andarci. Più di un anno dopo il suo arrivo vi fu costretto, invitato dalla chiesa cattolica. La notte seguente non riuscì a chiudere occhio, ossessionato dal luogo dove aveva la sensazione di calpestare cadaveri mai sepolti. Oggi tenta di non pensare più al passato, non è venuto per questo. E nonostante le reticenze iniziali, malgrado l’assenza della famiglia, crede che resterà a lungo a Cracovia e in Polonia. “Amo questo posto e le persone di questa comunità”, dice pensieroso.

Il GIORNALE - Giuseppe Ghini : "Grossman e Lustiger dimenticati dall’editoria"


Il libro nero, di Vasilij Grossman, Il’ja Erenburg

«Q uesto libro costringerà finalmente i lettori occidentali a comprendere che i delitti del sistema comunista sovietico contro gli Ebrei furono un altro tipo di Olocausto». Così scrive Efim Etkind, già tenente dell’Armata Rossa, illustre accademico ebreo-russo, professore dell’università di Paris Nanterre, nella prefazione al Libro rosso: Stalin e gli Ebrei. La tragica storia del Comitato di Liberazione Ebraico e degli Ebrei sovietici. Un libro pubblicato da Arno Lustiger in tedesco nel 1998, tradotto in inglese e in russo, ma non in francese e in italiano.
Al centro del testo di Lustiger c’è la persecuzione degli Ebrei sovietici nonché il destino di un altro libro, Il libro nero: il genocidio nazista nei territori sovietici, 1941-1945, redatto  da due scrittori ebrei-russi, Vasilij Grossman, l’autore di Vita e destino, e Il’ja Erenburg, l’autore del Disgelo, il romanzo che identificò il carattere di un’intera epoca sovietica.
Durante la Seconda guerra mondiale, Grossman ed Erenburg (l’accento è sulla sillaba finale) furono corrispondenti di guerra tra le file dei reparti più avanzati dell’Armata Rossa e nel 1944 furono aggregati alla redazione del Libro nero. L’incarico veniva appunto dal Comitato di Liberazione Ebraico presieduto dal regista ed attore Solomon Michoels e realizzava un’iniziativa suggerita da Albert Einstein: raccogliere tutta la documentazione relativa all’Olocausto, in questo caso particolare, tutto ciò che riguardava il genocidio nazista degli Ebrei nei territori sovietici occupati dalla Wermacht. Grossman ed Erenburg si misero al lavoro con grande lena, potendo contare sui materiali già raccolti dal Comitato - che era stato costituito nel 1942 - e su ciò di cui loro stessi erano stati testimoni. Nel frattempo, però, il vento della politica staliniana aveva subito una rotazione di 180 gradi: nel giro di pochi anni, il sostegno prestato alla cultura ebraica - case editrici, scuole, teatri ebraici, giornali in jiddish - si era trasformato in aperta persecuzione. Nel 1948 Solomon Michoels venne ucciso su ordine di Stalin con l’accusa di nazionalismo ebraico, quasi tutti i membri del Comitato ugualmente assassinati, il Comitato sciolto. Ciò che prima era non solo tollerato, ma sostenuto dal regime sovietico ora costituiva un’accusa: l’appartenenza esplicita alla cultura ebraica veniva tacciata di «cosmopolitismo senza radici», «antipatriottismo borghese», «sionismo», «nazionalismo ebraico» (l’uso del termine «internazionalismo» associato all’aggettivo «ebreo» era invece proibito: internazionalisti erano solo i comunisti).
La pubblicazione del Libro nero, dapprima sottoposta a severissima censura da parte delle autorità sovietiche, nel 1947 venne definitivamente fermata. Erenburg, tuttavia, riuscì a far uscire dall’Urss una parte dei materiali, che venne pubblicata a Gerusalemme nel 1980. Solo nel 1994, però, la figlia di Erenburg ricevette da un conoscente la copia dell’edizione originale che si credeva distrutta. L’edizione venne affidata a quello stesso Arno Lustiger a cui si deve il Libro rosso e nel 1994, con 50 anni di ritardo, il testo raccolto da Grossman ed Erenburg vide finalmente la luce.
In Italia è stato pubblicato da Mondadori nel 1999, ristampato nel 2001, contiene saggi e appendici, tra cui la lettera di Albert Einstein. Nelle librerie, però è introvabile: esaurito - dicono i commessi -; fuori catalogo - rispondono le librerie on-line -. E invece sono libri importanti, importantissimi che andrebbero mantenuti costantemente in catalogo, traducendoli se mai dall’originale: il Libro nero è stato tradotto in italiano dal tedesco e non dal russo. Permettono di capire, infatti, perché le dittature sono costituzionalmente nemiche della verità. La pubblicazione dei materiali sul genocidio nazista nei territori occupati dalla Wermacht, potrebbe pensare il lettore, doveva essere vantaggiosa per il regime sovietico. E invece no. Nel 1948, documentare l’esistenza di una cultura ebraica, di tradizioni ebraiche, di preghiere rivolte al Dio ebraico era contrario alla politica ideologica di Stalin. E di conseguenza, orwellianamente, la censura sovietica pretendeva che tutto ciò fosse cancellato. Anche dal passato. La collaborazione delle altre popolazioni sovietiche allo sterminio degli ebrei-russi, il tentativo degli Ebrei di passare ai partigiani del controverso nazionalista ucraino Stepan Bandiera, poteva forse essere un fatto storico; di certo, secondo la censura sovietica, non andava documentato. Come sempre, da una parte la Memoria, dall’altra il Totalitarismo.

CORRIERE della SERA - Edoardo Sassi : " E il soprano della Scala cantò ad Auschwitz "


Shlomo Venezia

Ad accogliere il visitatore, in un viaggio che documenta e rievoca l’orrore nazista, le parole stampate su un pannello di Shlomo Venezia, uno dei pochi membri ancora vivi dei Sommerkommandos, gli speciali gruppi di deportati obbligati a collaborare con le SS nei luoghi di sterminio: «L’inferno, qualsiasi persona lo conosce dai libri, noi lo abbiamo vissuto».

E Shlomo, matricola 182727 tatuata sull’avambraccio, era, con Sadi Modiano, uno dei superstiti presenti ieri per la visita in anteprima alla mostra «Auschwitz-Birkenau», che si inaugura ufficialmente oggi, in coincidenza con il «Giorno della Memoria», nel Complesso del Vittoriano a Roma. Con loro anche il premio Nobel per la Pace Elie Wiesel, ex internato a Auschwitz, in visita nella capitale dove oggi incontrerà il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Camera Gianfranco Fini (alle 9.30 visita al Quirinale, alle 12 Wiesel terrà un discorso nell’Aula di Montecitorio alla presenza di Napolitano, con il quale, alle 17, inaugurerà la mostra).

«Ricordare è l’unica cosa che può aiutare— ha detto ieri Wiesel— ed è fondamentale soprattutto per i giovani, affinché non si cada più preda dell’odio». Ad accompagnarlo, oltre a Fini, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, il ministro per i Beni culturali Sandro Bondi e il sindaco di Roma Gianni Alemanno.

«Una mostra per raccontare l’orrore e la storia in modo corretto, incentrata sul luogo simbolo dello sterminio, dove venne ucciso un milione di ebrei»: così la rassegna è stata sintetizzata da Marcello Pezzetti, storico della Shoah e uno dei curatori, con Bruno Vespa e Alessandro Nicosia, della mostra, suddivisa in sezioni tematiche e cronologiche. Tra i pezzi importanti esposti, Pezzetti segnala un documento giudicato «di eccezionale importanza» e ritrovato nell’archivio di Auschwitz: il 16 febbraio 1943 il Teatro alla Scala di Milano, rappresentato dalla celebre soprano Lia Origoni — sarda, classe 1919 — partecipò alla serata «Sud solare», con «stelle internazionali», per il diletto delle guardie SS di Auschwitz, organizzata dalla Kommandantur di Auschwitz-Birkenau: «Questo per dimostrare che da noi si sapeva più di quanto si voglia ogni tanto far credere», il commento.

In mostra anche abiti di prigionieri, foto di torture ed esperimenti medici, piani di costruzione di crematori, documenti, lettere, diari e filmati, a partire dall’istituzione del campo, aprile 1940, e fino a quel 27 gennaio 1945, giorno dell’abbattimento dei cancelli da parte dell’Armata Rossa. Tra i focus, uno in particolare è dedicato ai bambini. Duecentomila quelli deportati a Birkenau, la quasi totalità uccisa nelle camere a gas il giorno stesso dell’arrivo. Altri, gemelli in particolare, dopo aver subito come cavie esperimenti di ogni tipo, erano eliminati con iniezioni di fenolo al cuore. La mostra dedica una parte della sua documentazione anche alla figura del famigerato dottor Josef Mengele, medico capo del campo, morto in libertà a San Paolo del Brasile nel 1979: «Fuggito— come ha ricordato Pezzetti— con la complicità del Vaticano».

CORRIERE della SERA - Paola D'Amico : " Il terribile Binario 21 dei vagoni blindati sarà dedicato al ricordo "

Il luogo della tragedia e del dolore, dimenticato per mezzo secolo, diventa luogo della memoria. Nei sotterranei della Stazione centrale di Milano, ieri mattina, è stata posta la prima pietra del Memoriale della Shoah. Le ruspe, che scavano già da un mese, hanno sfondato le solette per ricavare metri e metri quadri, settemila in tutto, da destinare a un’opera che renda omaggio alle vittime dello sterminio nazista ma al tempo stesso guardi al futuro, diventando spazio di studio e di ricerca. E come simbolo di un progetto unico in Europa, al Binario 21, per tanto tempo occultato nella pancia della Stazione, sono tornati due carri merci in ferro, piombati e coperti di legno: gli stessi usati dai nazisti per deportare da qui nei campi di sterminio gli ebrei italiani.

A strappare la tenda di garza bianca che li copriva alla vista del pubblico presente alla cerimonia, tre sopravvissuti a uno dei 15 viaggi della morte partiti dal Binario 21: Liliana Segre, Goti Bauer e Nedo Fiano, che il 30 gennaio del 1944 furono stipati in quei carri con altri seicento prigionieri.

Il memoriale «sarà una struttura vivente, per discutere, capire, meditare— ha detto il direttore del «Corriere della Sera» Ferruccio de Bortoli, che è presidente della Fondazione per il Memoriale della Shoah —. Un luogo che è testimonianza di una Milano che guarda al suo passato, non disconosce i suoi silenzi ed è orgogliosa dei tanti atti di coraggio».

De Bortoli ha poi letto un messaggio ricevuto dal presidente della Repubblica, in occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria, in cui Giorgio Napolitano gli esprime il suo «apprezzamento per avere portato a compimento il non facile percorso necessario per dare inizio a un’opera che ritengo altamente significativa». Napolitano ha poi aggiunto: «Ricordo con commozione la visita che ebbi modo di compiere tre anni fa in quel cupo sotterraneo della Stazione di Milano che era punto di partenza per il viaggio dei treni blindati diretti ai campi di sterminio nazisti, dove vennero atrocemente eliminati più di ottomila italiani di religione ebraica: uomini e donne di ogni età, vecchi e bambini, scoperti e arrestati in Italia con l’attiva e consapevole complicità della Repubblica sociale». Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione, ha illustrato il progetto del Memoriale, decollato grazie alla concessione dell’area da parte delle Ferrovie.

Presenti alla cerimonia il sindaco di Milano Letizia Moratti, il presidente della Provincia Guido Podestà, il governatore Roberto Formigoni, il presidente del Memoriale capitolino Giovanni Maria Flick e l’ad di Trenitalia Mauro Moretti. Ieri a forare l’oscurità dei sotterranei c’erano i flash dei fotografi. E Liliana Segre ha commosso la platea, che su suo invito si è alzata in piedi e ha osservato un minuto di silenzio, ricordando che quei flash ben più dei carri bestiame fermi sul Binario 21 l’hanno trascinata con violenza indietro nel tempo: «Forano l’oscurità oggi come i fari che i nazisti ci sparavano negli occhi allora».

E quel maledetto Binario 21, testimone di tanto orrore, è diventato anche il set del film Fratelli d’Italia? che rappresenterà il nostro Paese al Festival del cinema di Gerusalemme il prossimo luglio: dove nipoti e pronipoti e figli di deportati s’incontrano per far rivivere la storia. Su quel binario, su quel convoglio partito il 30 gennaio 1944 diretto ad Auschwitz, si incrociano le storie di uomini, donne, bambini, della famiglia Latis, sterminata, di Sissel Vogelmann, dei genitori di David Cassuto, che sarà poi sindaco di Gerusalemme, salvo solo perché dato in adozione.

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