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Il Foglio-L'Opinione Rassegna Stampa
15.07.2009 Israele espulso dalla Federazione della Stampa internazionale
Un sindacato inutile, quindi dannoso

Testata:Il Foglio-L'Opinione
Autore: Giulio Meotti-Dimitri Buffa
Titolo: «Boicottaggio a mezzo libertà di stampa»

Il FOGLIO, cavaliere quasi solitario, continua la battaglia contro l'espulsione di Israele dalla associazione internazionale dei giornalisti. Nel numero di oggi, 15/07/2009, molti articoli sull'argomento, l'unico quotidiano che affronta l'argomento. Riportiamo l'analisi di Giulio Meotti, la situazione vista da Israele, due interventi (Magno e Cazzola).   Riportiamo  l'intervento di Franco Siddi, segretario generale della Fnsi, che nel suo pezzo elenca le linee guida dell'associazione " la libertà,la democrazia e il pluralismo dell'informazione". Se queste sono le linee guida, ci aspettiamo che la Fnsi intervenga,al più presto, per protestare, magari con espulsione, con l'Autorità palestinese e con Hamas, in quanto non risulta che queste condizioni ci siano nei territori da loro amministrati. Forse pagheranno anche le quote, ma i giornalisti vivono in quelle zone  in " condizioni di corruzione,povertà e paura ". Come in tre quarti del mondo. Ed è Israele ad essere espulso ! per capire poi come non si tratti di una questione di quote non versate, si legga quanto dichiarano gli israeliani. Dall'OPINIONE l'articolo di Dimitri Buffa.

Giulio Meotti- Boicottaggio a mezzo libertà di stampa

 Ha scritto Alan Dershowitz, il grande avvocato che rivendica da sinistra la solidarietà con Israele, che “la battaglia contro il boicottaggio è l’aspetto più urgente della guerra contemporanea contro l’antisemitismo”. La decisione della Federazione internazionale dei giornalisti di espellere i colleghi israeliani è il culmine di una campagna ideologica che va avanti da cinque anni. Triste sincronia, l’espulsione arrivava mentre il direttore d’orchestra israeliano Daniel Barenboim e il cantante canadese Leonard Cohen, impegnati per la pace, dovevano cancellare i concerti a Ramallah dopo che i palestinesi ne avevano chiesto il boicottaggio. Intanto un grande giornale europeo di sinistra, El País, pubblicava indisturbato una vignetta di Romeu. “Come fa Israele a violare nella totale impunità ogni legge umana e internazionale?”, chiede una donna. Risponde un ebreo ortodosso con il nasone: “Ci costa molti soldi”. La Federazione non sollevò un sopracciglio quando la National Union of Journalists, il potente sindacato britannico, boicottò Israele nell’aprile di due anni fa con questa rivendicazione: “Lavoriamo con i palestinesi attraverso la Federazione internazionale dei giornalisti e il boicottaggio è un’azione di sostegno al popolo palestinese”. Dalla Federazione non ci fu condanna dell’odioso paragone fra Israele e il Sudafrica dell’apartheid. Dissero che non era la loro posizione ufficiale. Fu la luce verde a una parte dei suoi iscritti (35 mila) per il boicottaggio. L’attuale presidente della Federazione, Jim Boumelha, è iscritto allo stesso sindacato inglese. Mentre si bandiva Israele, i giornalisti che provenivano da regimi dove si praticano massicci crimini contro i diritti umani venivano accolti nella Federazione. Sul sito della stessa, alla voce “medio oriente” e già prima dell’espulsione, non compariva Israele (mentre appare la Palestina, e con Gerusalemme per capitale). Lo scontro fra la Federazione e Israele risale a un’epocale sentenza del Consiglio di stato francese, che ha ordinato l’oscuramento di al Manar, l’emittente di Hezbollah che chiama Israele “ascesso purulento da estirpare”. Proteggendola in nome di una dolciastra “libertà di stampa” mentre tutta Europa stava per bandirla, la Federazione si è resa connivente di al Manar. In uno dei suoi video più popolari c’è un professore dall’aria simpatica che insegna alla classe questo ritornello: “Sion, la peccatrice, sarà sterminata”.I telegiornali, le interviste e i videoclip di al Manar avevano suscitato un’ondata d’indignazione in Francia per il contenuto antisemita e l’esaltazione dei kamikaze palestinesi, tanto che l’allora primo ministro, Jean Pierre Raffarin, parlò di “messa in scena dell’odio”. La messa al bando di al Manar nell’autunno del 2004 fu una decisione storica, sulla linea della decisione presa a Norimberga di processare la propaganda della Germania nazista elevando l’incitamento all’odio a crimine contro l’umanità. In nome dello stesso principio nel 1999, durante la guerra in Kosovo, gli aerei della Nato bombardarono la tv serba di Slobodan Milosevic che chiamava alle armi contro i musulmani del Kosovo. L’occidente avrebbe perseguito i discorsi che inneggiano alla violenza giudicandoli alla stregua di crimini di guerra anche nei processi della Corte internazionale in Tanzania, quando tre giornalisti ruandesi vennero condannati per aver gestito una radio e pubblicato un giornale che inneggiavano allo sterminio dei Tutsi. Anche il giornalista italobelga Giorgio Ruggiu fu condannato. Dalle onde di Radio Mille Colline lanciava appelli agli Hutu perché trucidassero quanti più Tutsi possibile: “Che aspettate? Le tombe sono vuote”. Commentando la sentenza francese, Reed Brody, il consigliere legale di Human Rights Watch, ebbe a dire: “Se uno soffia sul fuoco, deve affrontare le conseguenze”. Un sindacato internazionale dell’informazione libero e votato ai principi democratici, come dice di essere la Federazione internazionale dei giornalisti che ha espulso gli israeliani, avrebbe dovuto salutare la decisione del Consiglio di stato come un fondamentale punto di non ritorno per chi avesse deciso di propalare impunemente odio sui giornali, sull’etere e sul satellite. Invece la Federazione commentò così la sentenza il 15 dicembre 2004: “A rash decision with serious implications for free expression”. Tradotto: “Una sconsiderata decisione con gravi implicazioni per la libertà d’espressione”. Il segretario generale dell’Ifj, Aidan White, che ieri ha duramente attaccato il Foglio per l’articolo in cui denunciavamo l’espulsione di Israele dalla Federazione, disse che “la censura non fa che aggiungere intolleranza e alimentare ulteriore risentimento e incomprensione”. White commentò anche che “si tratta di provvedimenti sproporzionati e inadeguati, che non aiuteranno a superare le distanze che dividono ancora i media arabi dal mondo occidentale”. Non una parola per l’incredibile propaganda antisemita rovesciata da al Manar. Subito dopo la lettera firmata nel 2006 dalla maggioranza del Senato americano, tra cui Barack Obama e Hillary Clinton, e diret-ta all’allora presidente George W. Bush, il dipartimento del Tesoro bollò al Manar come un’entità “Specially designated global terrorist”. Per la prima volta uno strumento mediatico finiva nella stessa lista di cui fanno parte al Qaida, Hamas e Hezbollah, i principali fattori di morte nel mondo. Quel riconoscimento mise in evidenza il ruolo di al Manar come qualcosa di più che una mera emittente tv dai contenuti discutibili. La tv di Hezbollah era coinvolta nel reclutamento e nella raccolta di fondi per il gruppo islamista. Il sottosegretario Usa al Tesoro, Stuart Levey, osservò che al Manar è una “entità mantenuta da un gruppo terroristico”, è quindi “colpevole così come quello stesso gruppo terroristico”. I giornalisti di al Manar sono presi dai ranghi armati della milizia libanese, in molti casi partecipano a operazioni di guerriglia contro la vecchia “Fascia di sicurezza” israeliana nel Libano meridionale (poi smantellata nel 2000). Dall’estate 2003, al Manar diventa portavoce della guerriglia in Iraq, mentre saltavano in aria centinaia di cittadini musulmani, le sedi delle Nazioni Unite e della Croce rossa. Non fu un’isolata decisione americana. Anche l’Europa avrebbe adottato numerose misure contro al Manar. L’Unione europea e i governi di Francia, Spagna e Olanda indicarono che al Manar aveva violato la normativa che proibisce di incitare all’odio in tv. La decisione incoraggiò i provider satellitari europei, come Eutelsat, Globecast, Hispasat e New Skies Satellite, a far cessare la trasmissione della tv di Hezbollah. Lo scorso dicembre anche la Germania ha messo al bando al Manar. Secondo il ministro degli Interni tedesco, Wolfgang Schäuble, “le attività di al Manar mirano a difendere, sostenere promuovere l’uso della violenza come mezzo per raggiungere obiettivi politici e religiosi”. Si replica nell’estate del 2006, durante la guerra fra Israele ed Hezbollah. Non appena iniziò la guerra, gli aerei israeliani presero di mira al Manar, che diffondeva i proclami antisemiti del leader di Hezbollah Nasrallah. “Una chiara dimostrazione di come Israele utilizzi la politica della violenza per mettere a tacere i media dissidenti”, fu il commento lapidario di Aidan White e della Federazione internazionale dei giornalisti. I giornalisti israeliani si dimisero in segno di protesta: “Non ho intenzione di far parte di un’organizzazione disposta a tesserare militanti di Hezbollah”, disse uno dei reporter, Yaron Enosh. “Un terrorista non è un giornalista e se un’organizzazione internazionale preferisce averne tra le sue fila allora noi ce ne tiriamo fuori”. La Federazione scelse di schierarsi per partito preso con al Manar. Anche Khaled Fouad Allam, islamologo e deputato della Margherita, disse che “al Manar non è una televisione indipendente ma di propaganda di un partito, di una milizia islamica e in tempi di guerra è normale che venga distrutta”. Non la pensava così White: “L’attacco fa parte di un piano, quello di centrare i media, e ciò minaccia le vite di giornalisti e operatori, viola le leggi internazionali. E’ una strategia che significa catastrofe per la libertà di stampa e non dovrebbe mai essere appoggiata da uno stato che si dice democratico”. Parole non certamente amiche di Israele. Quando i giornalisti di Gerusalemme chiesero a White di ritrattare la condanna, il segretario della Federazione condannò nuovamente Israele per gli attacchi alla stampa, senza fare alcun accenno ai tentativi di omicidio di giornalisti israeliani da parte dei sicari di Hezbollah. Al Manar aveva appena ospitato una coproduzione siriano- palestinese dedicata a Yehie Ayyash, il famoso “ingegnere” responsabile della serie di spaventosi attacchi terroristici che a Tel Aviv e a Gerusalemme, fra il 1994 e il 1966, uccisero più di cento innocenti. Ayyash usava il perossido di acetone, l’esplosivo conosciuto come “Madre di Satana”. Così dilaniava donne, vecchi e bambini ebrei. Il portavoce del dipartimento di stato americano, Adam Ereli, ha commentato così la messa al bando di al Manar: “Un tale velenoso antisemitismo non deve avere alcun posto nel mondo civilizzato”. Oggi la Federazione internazionale dei giornalisti, se vuole tener fede ai suoi nobili principi, deve fare i conti con questa pioggia acida con cui è compromessa da troppo tempo, un movimento culturale razzista contrario a ogni libero scambio di informazioni e di idee, che chiude la bocca a Israele e che espelle fisicamente le persone che la rappresentano e che fa da copertura a un ricco antisemitismo islamista che rende la prospettiva di annichilire gli ebrei realistica, viva. Come ha detto l’ex refusnik sovietico Natan Sharansky, nel chiedere ai ministri europei di oscurare al Manar, “quando milioni di arabi e musulmani nel medio oriente e in Europa vengono preparati con questo tipo di propaganda dell’odio, non meraviglia che alcuni di loro attacchino e uccidano gli ebrei nelle sinagoghe durante lo shabbat. L’antisemitismo uccide e chi non lo combatte attivamente è suo complice”. Mentre la Federazione dei giornalisti era impegnata a Oslo nell’espulsione degli israeliani, i giornalisti della tv di Hamas, al Aqsa tv, difesa dalla stessa Federazione quando Israele ne bombardò le infrastrutture a gennaio nonostante i suoi giornalisti fossero miliziani armati di Hamas, erano impegnati a produrre uno dei loro cartoni animati. Si vede il caporale israeliano Gilad Shalit incatenato, in ebraico implora la madre, “ima”, “ima”. Un bambino palestinese gli domanda perché lo stato d’Israele sia insensibile alle sue sofferenze. Il caporale risponde: “Chi ha detto che Israele è uno stato? Ciascuno di noi è venuto da un paese diverso, dalla Gran Bretagna, dall’Italia, dall’America, dalla Francia”. Il bambino gli chiede cosa farebbe se venisse liberato. Shalit risponde che andrebbe a vivere in Francia o in Italia. Inutile cercare sul sito della Federazione internazionale o della Fnsi di Paolo Serventi Longhi una condanna di questo tipo di giornalismo. Sarebbe stato un bel gesto, visto che Gilad Shalit è cittadino onorario di Roma. Giulio Meotti

 La lettera israeliana

 Pubblichiamo la lettera che la Federazione nazionale dei giornalisti israeliani ha scritto il 13 luglio alla Federazione internazionale dei giornalisti. La Federazione internazionale dei giornalisti (Fig) ha distorto i fatti nei messaggi che riguardano l’espulsione della Federazione nazionale dei giornalisti israeliani (Fngi) . Siamo costernati dal fatto che l’autore di questi messaggi, Aidan White, guidi un’organizzazione che si occupa dell’etica nei media. Questa triste visione delle cose deve essere corretta. La Fig ha consultato i suoi membri palestinesi e arabi mentre stava compiendo una missione cosiddetta di ricerca di fatti per investigare gli eventi riguardanti i media a Gaza durante gli scontri in primavera. La Fig non ha ritenuto di dover cercare un contributo anche da parte della Fngi, definendo “irrilevante” tale contributo. I media israeliani, definiti non patriottici da molti nella società israeliana dopo la guerra in Libano a causa della loro copertura indipendente, sono stati lasciati fuori dalla missione della Fig. Forse perché la loro voce avrebbe potuto rovinare le accuse preconfezionate e pubblicate contro Israele. Il resoconto su Israele e i media è stato scritto senza consultare un singolo israeliano. Una lezione su come NON essere giusti nel ricercare i fatti, soprattutto da parte di coloro che si dichiarano reporter. La Fig non ha invitato i membri israeliani a prendere parte a importanti incontri a Varna e a Bruxelles senza fornire alcuna ragione. La decisione di cacciare la Fngi è stata presa a Oslo senza che noi fossimo invitati a dire la nostra versione. La Fig non ha citato nei messaggi alla stampa che White – in una visita a Tel Aviv e in un incontro con la Fngi – fosse d’accordo sul fatto che il sindacato israeliano dovesse pagare le rate alla stessa tariffa prevista per i paesi vicini, come la Siria e la Giordania. Dopo aver stretto la mano e aver dichiarato risolta la questione, White si è comportato come se l’accordo non fosse mai stato raggiunto. I membri israeliani – durante un incontro con i membri della Fig a Gerusalemme – hanno chiesto ancora una volta alla Fig di darci una mano a creare un forum regionale per i media che costituisca un ponte tra noi e i nostri vicini palestinesi – un club di giornalisti professionisti basato sul mutuo aiuto tra professionisti. Una joint venture tra professionisti al di là della politica potrebbe essere un aiuto per ogni giornalista che viene nella regione. Questa sfida non è mai stata raccolta dalla Fig che era troppo occupata a cacciare la parte israeliana. Speriamo che la leadership della Fig capisca che non è una questione di soldi, ma di una membership completa e uguale per tutti. Federazione nazionale dei giornalisti israeliani

Dialogo interrotto

La sede della Federazione nazionale dei giornalisti israeliani (Fngi) si trova nel centro di Tel Aviv. Nonostante il caldo di questi giorni, pure ieri si sono riuniti sul terrazzo di via Kaplan 2 i dirigenti per discutere su come reagire alla decisione della Federazione internazionale dei giornalisti (Fig) di espellere i giornalisti israeliani. “E’ assurdo – dice al Foglio Arik Bachar, segretario generale del sindacato israeliano – tenere fuori giornalisti israeliani da un’organizzazione che ha come scopo finale quello di mantenere equilibrio, trasparenza e pluralismo”, aggiunge amareggiato. Le opinioni dei giornalisti a Tel Aviv e a Gerusalemme non corrispondono alle decisioni prese a Bruxelles. Già il mese scorso, quando la Federazione internazionale ha comunicato l’intenzione di escludere Israele, la risposta era stata dura. “Siamo spiacenti per la vostra decisione – hanno scritto gli israeliani – Era proprio Yasser Arafat a sostenere in tanti momenti difficili del processo di pace che ‘se non c’è la volontà non c’è nessun modo’. Su questo (precisando questo caso specifico) Arafat aveva ragione. Ci sembra che la vostra volontà di avere un dialogo aperto sia finita”. Alcuni giornalisti presenti all’incontro di quattro mesi fa a Tel Aviv con Aidan White, segretario generale della Fig ricordano bene la discussione e le decisioni prese. Gli israeliani sono rimasti sorpresi quando hanno capito che White era in zona già due mesi prima perché una commissione della Federazione stava valutando il lavoro dei giornalisti durante gli scontri a Gaza, senza ascoltare nemmeno un israeliano, giornalista o militare. “Gli abbiamo detto: sei già qui. Perché non avevi pensato che sarebbe stato onesto entrare per prendere un caffè con noi?”, avevano detto gli israeliani a marzo. Per loro non era un comportamento da gentleman, quello di White, e così, com’è nel loro modo naturale, hanno detto le cose in faccia. L’ospite ha spiegato che Israele deve pagare le quote al sindacato secondo le tariffe di un paese collocato nella prima categoria: gli israeliani hanno allora chiesto gli stessi diritti dei paesi della prima categoria, hanno detto di essere dispiaciuti delle critiche che devono affrontare in ogni riunione e hanno chiesto di pagare le quote come gli altri paesi della regione, Siria e Giordania. L’accordo si è trovato, e tutti si sono salutati con cordiali strette di mano. Ma a Bruxelles l’accordo non piaceva. “Siamo stati noi a dire a White che quest’anno, il 2009, avrebbe dovuto essere quello in cui costruire ponti”, spiega al Foglio Chaim Shibi, membro della Federazione israeliana, responsabile delle Relazioni internazionali. “Abbiamo spiegato – continua – che c’è molto di più a unirci come giornalisti piuttosto che a dividerci come persone che provengono da regioni e opinioni politiche differenti”. Secondo quanto raccontato al Foglio, gli israeliani hanno chiesto l’aiuto di White per trovare giornalisti nel mondo arabo e musulmano pronti – anche sotto pseudonimo o anonimato – ad andare in Israele a presentare il loro lavoro: “Abbiamo detto, portate iraniani, portate siriani, portate qualsiasi giornalista che vuole contribuire alla pace”. La Federazione israeliana ha anche suggerito di aprire un club di giornalisti per israeliani e palestinesi insieme. “Il legame tra colleghi qui è più avanzato di quanto possa sembrare a Bruxelles”, dicono le fonti israeliane. Ma la Federazione internazionale, secondo gli israeliani, ha un piano diverso, come ha già dimostrato in passato: avvicinare il mondo arabo cacciando fuori gli israeliani. L’ironia e la tristezza “Siamo fieri del ruolo che la nostra stampa libera ha in mezzo a tutti i problemi nella nostra regione. Non siamo contro l’autocritica, a patto che sia presentata col tono giusto. Il diritto del pubblico a conoscere i fatti è sempre il nostro obiettivo”, c’era scritto nella prima lettera inviata a Bruxelles l’8 giugno. “Ma non vi sembra triste e ironico allo stesso tempo il fatto che la Federazione internazionale escluda l’unica Federazione stampa di questa regione che è veramente libera?”. La Federazione israeliana ha precisato che vede con grande entusiasmo la volontà di far circolare il valore della stampa libera in paesi come Iraq, Yemen e Qatar, ma non capisce perché tale iniziativa debba allo stesso tempo chiedere l’esclusione di Israele. E così la stampa che ha sempre avuto un ruolo determinante per la vita politica, economica e sociale in Israele subisce il razzismo da parte di suoi colleghi nel mondo. La stampa che ha voluto indagare che cosa era successo in Libano, che ha messo in croce ex presidenti, premier e ministri ora vede la stampa internazionale indifferente rispetto a valori che avrebbero dovuto unire tutti i giornalisti, di qualsiasi provenienza. (m.gan)

Michele Magno-Internazionalismi fatui

La Cisl Internazionale non si sognerebbe mai di espellere Histadrut o il sindacato palestinese per il mancato versamento delle quote associative. Perché l’organizzazione sindacale più rappresentativa su scala mondiale ha il senso della misura. Quello che è mancato alla Federazione internazionale dei giornalisti, quando ha “licenziato” il sindacato israeliano di categoria. Forse non è un episodio di apartheid antisemita. Certo è un atto politicamente ottuso. Colpisce, piuttosto, il silenzio della stessa Cisl Internazionale e della Ces (confederazione europea dei sindacati), che da sempre sono schierate apertamente contro ogni forma di boicottaggio nei confronti di Israele. Si tratta di una disattenzione che segnala una difficoltà più generale del sindacalismo internazionale. Esso offre una grande abbondanza di documenti, manifesti, appelli, al cospetto di una pressoché totale assenza di iniziative comuni. Non solo a livello planetario, ma anche in Eurolandia il passaggio dall’elaborazione dei documenti e dai confronti diplomatici a forme più incisive di azione sindacale è estremamente difficile. Si incontrano ostacoli teorici e pratici: differenti tradizioni negoziali, differenti norme legislative, chiusure autarchiche di ogni tipo. In verità, qualche iniziativa di mobilitazione da parte della Ces c’è stata, sul tema dei diritti umani come sul tema dell’occupazione, ma siamo ancora ai primi passi. E’ indubbio che questo limite del sindacalismo internazionale ha concorso in larga misura a distrarre nei diversi paesi l’attenzione dei lavoratori da problemi che sembravano passare sopra la loro testa, senza incidere granché sulla loro vita e sulle loro condizioni. Tuttavia, i processi di integrazione economica vanno avanti, mentre il sindacato continua a operare in una dimensione soltanto nazionale. Questo è il paradosso dell’internazionalismo sindacale nell’era della globalizzazione: una solidarietà verbale smentita da una prassi organizzativa subordinata alle logiche di uno stato e di un mercato del lavoro che restano nazionali. S’invoca un welfare più europeo, in altri termini, ma si chiedono pensioni e ammortizzatori sociali più italiani. Si alza la voce contro la limitazione dei diritti sindacali in Cina, ma si fa fatica a rispettare quelli dei cinesi che lavorano regolarmente a Prato. Sono le contraddizioni di un internazionalismo in cui miti proletari e ideologie terzomondiste vanno poco d’accordo con le questioni concrete sollevate dalla crisi globale della finanza e dell’industria.

Giuliano Cazzola- Strabismi sindacali

L’Ifj (la Federazione internazionale dei giornalisti) si è risentita per il modo in cui alcuni media italiani (tra cui il Foglio) hanno dato notizia dell’espulsione della Federazione israeliana (Nfij). La controversia è stata ricondotta a una banale questione di contributi associativi non versati. Per di più l’associazione dei giornalisti israeliani si sarebbe rifiutata di saldare il debito maturato e di regolarizzare la propria posizione a partire dal 2009. Nessuna forma di antisemitismo, dunque. Anzi, il segretario generale della Federazione internazionale, Aidan White, ribadisce che il suo sindacato difende con forza l’autonomia dei giornalisti, compresa – bontà sua – quella dei colleghi israeliani. Il fatto è che l’autorevole sindacalista non risponde all’obiezione di fondo degli israeliani che può riassumersi in una semplice domanda: possiamo finanziare un sindacato che assume tra i suoi obiettivi la costruzione di uno stato palestinese con capitale a Gerusalemme? Gli israeliani, per fortuna loro e di tutto il mondo libero, non fanno propria la celebre battuta di Groucho Marx (“non mi iscriverei mai a un club che accettasse tra i suoi membri persone come me”); sono giustamente fieri del loro focolaio nazionale e disposti a difenderne l’indipendenza. I nemici di Israele – anche quelli disarmati – pretendono che subisca in silenzio, perché se poi dovesse farlo le sue misure di difesa sarebbero immediatamente paragonate a un’aggressione. Ricordiamo tutti il tormentone del “muro” ovvero della “cortina” flessibile con la quale Israele decise di proteggere i suoi confini: una misura che si è rivelata efficace tanto che sono scomparsi gli attentati dei kamikaze contro la popolazione civile. Eppure contro il “muro” si levarono alte grida di dolore delle Istituzioni europee e persino della chiesa cattolica. Anche quando Hamas bombardava i villaggi di confine e l’esercito israeliano fu costretto ad intervenire per ripulire dai terroristi la Striscia di Gaza, tanti autorevoli politici italiani ed europei parlarono di intervento sproporzionato, come se uno stato non fosse legittimato ad usare le forze di cui dispone per sconfiggere i propri irriducibili nemici. Tornando però alla questione della Federazione dei giornalisti resta da chiedersi perché mai un sindacato debba infilarsi in delicate questioni di politica estera. E sempre a senso unico, dalla parte sbagliata. Giuliano Cazzola deputato del Pdl e vicepresidente della commissione Lavoro della Camera dei Deputati

Franco Siddi-Al lavoro per superare le incomrensioni

 Siamo addolorati per la misura polemica assunta dalla presa d’atto della mancata adesione della Federazione nazionale dei giornalisti israeliani (Nfij) da parte della Federazione internazionale dei giornalisti (IFJ). La Fnsi, che fa parte da tempo della Federazione internazionale, è impegnata a creare le condizioni per la revoca di questo provvedimento, per il superamento delle incomprensioni e per affermare le ragioni del dialogo e della piena partecipazione della rappresentanza israeliana. In questo senso ha comunicato alla Ifj la disponibilità a svolgere la propria opera di relazione e rilancio della partecipazione insieme con i Sindacati dei giornalisti statunitensi e olandesi. Faremo davvero il possibile perché vengano meno le incomprensioni. Tra di noi non ci sono ragioni antiisraeliane e nessun sentimento di questo tipo può essere imputato a dirigenti passati e presenti della Fnsi. Ci sono già abbastanza ragioni di ostilità tra israeliani e parti importanti del resto del mondo, cui non pensiamo affatto di dover concorrere. Come ha sottolineato anche il Papa, nella sua recente visita in Israele, va alleggerita la tensione e a ciò, professionalmente e sindacalmente, ci sentiamo impegnati nell’adesione all’autonomia della nostra condizione di operatori che vogliono poter agire in una situazione di informazione libera e pluralista ovunque, che non deve per forza costruirsi nemici. Legittimamente, i dirigenti del Sindacato dei giornalisti israeliani Nfij hanno ritenuto di contestare prese di posizione della Ifj, trasformando questi atti nel ritiro dell’adesione. Legittimamente la Ifj, dopo tre anni di mancata sottoscrizione delle iscrizioni, applicando le sue disposizioni statutarie, ha preso atto di un’auto cancellazione di fatto. La Federazione internazionale dei giornalisti, presente in 123 Paesi nel mondo attraverso Associazioni nazionali di categoria rappresentative di più di seicentomila giornalisti, è chiamata a tenere insieme, anche organizzativamente molte voci diverse. Linee guida: la libertà, la democrazia e il pluralismo dell’informazione all’insegna del motto “Non c’è stampa libera se i giornalisti vivono in condizioni di corruzione, di povertà, di paura”. Le campagne per la libertà e il pluralismo dell’informazione prescindono dai Governi di qualsiasi Paese, sono contro i regimi e come dimostra in questi giorni l’iniziativa internazionale per libertà di stampa in Iran, cui la Fnsi ha attivamente partecipato anche con manifestazioni tutt’altro che simboliche tenute nella sua sede di Roma. Ecco perché la Fnsi continua a stare nella Federazione internazionale dei giornalisti con una sua linea di sostegno all’impegno dei giornalisti liberi, all’affermazione di legislazioni nazionali rispettose della libera stampa (condizione sempre riconosciuta in Israele), alla lotta contro le sopraffazioni e contro le violenze nei confronti del giornalismo. La democrazia di Israele, la libertà del popolo palestinese e i suoi diritti nazionali sono beni grandi e delicati, per i quali ci sono ancora troppe sofferenze e non vogliamo alimentarne altre per nessuna ragione. Il nostro lavoro sui terreni della comprensione, del dialogo, dell’amicizia è e resta permanente”. Franco Siddi segretario generale della Fnsi

L'Opinione- Dimitri Buffa: "SIDDI SI SPEZZA MA NON SI SPIEGA SULLA POSIZIONE DELLA FNSI " 


"Siamo addolorati per la misura polemica assunta dalla presa d¹atto della
mancata adesione della Federazione nazionale dei giornalisti israeliani
(Nfij) da parte della Federazione internazionale dei giornalisti (IFJ)."
Così parlò, anzi scrisse, Farnco Siddi, presidente della Federazione
nazionale della stampa italiana per giustificare l¹ingiustificabile, cioè il
voto favorevole del sindacato italiano alla proposta di espulsione di quello
israeliano dal novero dell¹associazione internazionale che li riunisce tutti
lo scorso 7 giugno a Brussels.
Se si volesse essere cattivi si potrebbe riesumare quella vecchia boutade di
Prezzolini: "si spezza ma non si spiega". E in effetti le prime reazioni su
facebook sono tutte all¹impronte del "non ci ho capito niente", "ma allora
quale è la posizione della Fnsi?²" "ma che vuol dire?" eccetera.
Gli israeliani ,che fanno i giornalisti  parlano di boicottaggio poltically
correct che peraltro seguirebbe iniziative analoghe come quella dei docenti
inglesi o come la prassi di escludere Israele dai giochi del Mediterraneo
per compiacere i paesi arabi, persino a costo di escludere gli stessi
palestinesi per malinteso senso di compensazione.
Ieri molti colleghi, come Andrea Morigi di "Libero" come  Negri del
"Sole 24 ore" e come Franco Abruzzo, ex presidente dell¹Odg di Milano,
chiedevano una netta sconfessione del voto (a favore dell¹espulsione dei
giornalisti israeliani) da parte del rappresentante italiano in seno alla
Federazione internazionale dei giornalisti (Nfij) cioè paolo Serventi
Longhi, a suo tempo segretario della Fnsi.
Ebbene, pure a volere fare la non semplice esegesi del comunicato di Siddi,
questa sconfessione non c¹è stata. Anzi.
Siddi infatti insiste sul fatto che "legittimamente, i dirigenti del
Sindacato dei giornalisti israeliani Nfij hanno ritenuto di contestare prese
di posizione della Ifj, trasformando questi atti nel ritiro dell¹adesione.
Legittimamente la Ifj, dopo tre anni di mancata sottoscrizione delle
iscrizioni, applicando le sue disposizioni statutarie, ha preso atto di
un¹auto cancellazione di fatto."
Insomma non sono più stati espulsi, ma si "sono autoesclusi di fatto". Non
"pagando le quote". Sia pure per protesta. Una formuletta che va bene per
una riunione di soviet a Mosca non per un sindacato democratico e
pluralista.
Senza tenere conto che i cronisti israeliani potestavano contro cose
effettivamente un po¹ infami: ad esempio contro la solidarietà espressa
dall¹organismo internazionale dei sindacati dei giornalisti agli operatori
della tv di Hamas quando fu bombardata a Gaza lo scorso gennaio o a quelli
hezbollah quando due anni prima fu distrutta la sede di Al Manar nel sud del
Libano. Eventi salutati come "attentati alla libertà di stampa²" Che è un
po¹ come dire che anche la propaganda di Goebbels e la sua radio sarebbe
potuta rientare nella medesima categoria dello spirito. Ecco ieri nel
comunicato che "si spezza ma non si spiega", Siddi invece di tirare in ballo
il Papa e il viaggio in Terrasanta, o l¹equivicinanza alle ragioni dei
palestinesi e a quelle degli israeliani, che francamente c¹entrano come i
cavoli a merenda, poteva dire poche semplici parole per sconfessare il voto
di Serventi Longhi. Ad esempio: "la Fnsi si dissocia". Non l¹ha fatto e
questo è quello che resterà agli atti. Almeno per ora.
 

 

Chiediamo ai nostri lettori di scrivere al quotidiano che leggono abitualmente per protestare contro la mancata pubblicazione di notizie sulla scandalosa decisione di espellere Israele dalla Federazione Internazionale della Stampa.

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