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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Stampa - Il Giornale Rassegna Stampa
28.06.2009 Iran, gli oppositori sotto tortura. Ahmadinejad attacca Obama per essersi schierato con i manifestanti
Cronache e analisi di Maurizio Molinari, Viviana Mazza, Guido Olimpio, Barbara Spinelli. Interviste di Federico Fubini, Gian Micalessin

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Giornale
Autore: Viviana Mazza - Guido Olimpio - Maurizio Molinari - Barbara Spinelli - Federico Fubini - Gian Micalessin
Titolo: «Iran, gli oppositori sotto tortura - Le 'anime nere' del regime che dirigono la repressione - L'apocalisse maschera del potere - Ahmadinejad attacca. ' Gli Usa si pentiranno' - Ora la comunità»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/06/2009, a pag. 14, la cronaca di Viviana Mazza dal titolo " Iran, gli oppositori sotto tortura  ",  l'articolo di Guido Olimpio dal titolo "Le «anime nere» del regime che dirigono la repressione  " e l'intervista di Federico Fubini a Strobe Talbott, presidente della Brookings Insti­tutions di Washington, dal titolo " Effetto Obama sui giovani di Teheran ". Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'analisi di Barbara Spinelli dal titolo "  L'apocalisse maschera del potere  " preceduto dal nostro commento e, a pag. 2, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Ahmadinejad attacca. ' Gli Usa si pentiranno' ". Dal GIORNALE, a pag. 12, l'intervista di Gian Micalessin a Ahmad Batevi, uno dei leader della rivolta studentesca del 1999, dal titolo " Ora la comunità internazionale aiuti Moussavi ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Iran, gli oppositori sotto tortura  "

Tutto un complotto stranie­ro, ripetono da giorni le autori­tà e i media di Stato iraniani. Le proteste contro le elezioni del 12 giugno sarebbero una «rivoluzione di velluto» («falli­ta ») appoggiata da americani ed europei (che ieri il presiden­te riconfermato Ahmadinejad ha accusato ancora di interferi­re), e dai sionisti. Un complot­to finanziato dalla Cia e ispira­to dai media stranieri. Cosa manca? Solo le prove.
Le autorità stanno torturan­do i politici riformisti arresta­ti, denuncia Amnesty interna­tional citando «fonti credibi­li », per farli confessare in tv (come i giovani manifestanti che dicono in onda: «Siamo terroristi»). Secondo diversi si­ti iraniani, lo scopo finale è di implicare Mir Hussein Mousa­vi e Mehdi Karroubi, i candida­ti riformisti sconfitti, nel pre­sunto complotto. I compagni di carcere di tre consulenti di Mousavi (ed ex ministri di Khatami) li avrebbero sentiti urlare sotto interrogatorio nel­la sezione 209 di Evin (quella dei prigionieri politici). I tre sono Mostafa Tajzadeh, Abdol­lah Ramezanzadeh e Mohsen Aminzadesh. Anche Reporters sans frontières teme che i dete­nuti siano torturati. Non pos­sono vedere i parenti, non han­no avvocati. Si trova a Evin an­che Saeed Hajjarian, ex consu­lente di Khatami, finito sulla sedia a rotelle dopo un tentati­vo di assassinarlo nel 2000. Ha bisogno di costante assistenza medica. La giornalista di Rooz Online Nooshabeh Amiri ha in­tervistato sua moglie, Vagihe Marsoosi, che lo ha visto l’al­tro ieri per pochi minuti. «Un agente filmava l’incontro — di­ce Amiri —. Lui ha pianto per tutto il tempo. Ha detto che non l’hanno picchiato. Ma la moglie, un medico, dice che era in condizioni fisiche terri­bili ».
Accusa le autorità anche Hu­man Rights Watch: «I parami­litari basiji conducono brutali raid notturni nelle case», affer­ma l’organizzazione per i dirit­ti umani, «distruggendo inte­re strade e quartieri» di Tehe­ran per fermare i canti di prote­sta intonati ogni sera alle 10, l’unico modo ormai per espri­mere la rabbia. Non più. «La scorsa notte (23 giugno, ndr) i basiji sono venuti nel quartie­re per intimidire chi gridava Allahu Akbar (Dio è grande) dai tetti — ha raccontato una donna —. Hanno preso a calci le porte, sono entrati nelle ca­se, hanno picchiato i residen­ti ». Avrebbero smontato le pa­rabole che consentono di guar­dare i media stranieri. E secon­do i blogger, ieri è stata repres­sa sul nascere una protesta del­le madri delle vittime della re­pressione. Il massimo organi­smo di arbitrato, presieduto dall'ex presidente Rafsanjani, ha chiesto ai candidati sconfit­ti di «cooperare con il Consi­glio dei Guardiani» che sta ri­contando il 10% dei voti (sul web Mousavi e Karroubi rifiu­tano, vogliono nuove elezio­ni) e ai loro sostenitori di «ob­bedire alla Guida suprema». A Evin, Hajjarian piangeva. «Co­nosco mio marito — ha detto la dottoressa Marsoosi —. Piange per l’Iran».

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : "Le «anime nere» del regime che dirigono la repressione  "

 Mesbah Yazdi, ha lanciato una fatwa contro i riformisti

WASHINGTON – Sono le anime nere. Capaci di repri­mere la protesta popolare sen­za avere il minimo rimorso, prigionieri dei loro dogmi e convinti di godere di una in­vestitura divina. Agiscono nel solco tracciato chi li ha prece­duti nella storia della Repub­blica Islamica. Come Sadegh Khalkhali, lo spietato capo delle Corti islamiche, un uo­mo che non riusciva a ricorda­re quante persone avesse mandato a morire e Asedol­lah Lajevardi, il responsabile del carcere di Evin sopranno­minato «il macellaio». Morti da tempo, hanno lasciato gli arnesi del supplizio ad altri.
In cima alla piramide c’è Mesbah Yazdi, l’ayatollah ul­traconservatore che ispira e protegge, sotto il profilo dot­trinario, il capo dello stato Ah­madinejad. Lui governa a col­pi di fatwa. Con l’ultima ha au­torizzato a far fuori i riformi­sti. Discreta e influente la posi­zione del figlio di Khatami, Mojtaba. È il filtro che proteg­ge la Guida, è il guardiano che disciplina i contatti ma nutre ambizioni politiche che spera di alimentare andando a braccetto con i radicali. Ve­glia sull’ortodossia l’ayatollah Ahmad Jannati, 83 anni, capo del Consiglio dei guardiani, distintosi per aver bocciato molte candidature riformiste. Agli ideologi si aggiungono quelli che fanno il lavoro spor­co. Uomini di legge, sbirri, mi­liziani. È stato rivelato che ma­nifestanti, bloggers e dissi­denti passeranno sotto l’oc­chio severo del procuratore islamico Saed Mortazavi, il magistrato che dovrà coordi­nare i processi dove la con­danna è già stata scritta. Per­ché il giudice si è sempre mo­­strato inflessibile nel tappare la bocca a chiunque contesti. Ha fatto chiudere giornali, ha mandato in prigione giovani studenti, ha minacciato le fa­miglie degli arrestati con pres­sioni d’ogni tipo e se ne è an­che vantato. Mortazavi è stato poi coinvolto nel caso della fo­tografa irano-canadese Zahra Kazemi, morta sotto tortura nel 2003. Al procuratore piace la ribalta: si è fatto fotografa­re alle esecuzioni di opposito­ri ed è andato in tv per mo­strare il materiale sequestrato «alle spie».
Ad alimentare i processi provvederà un sofisticato ap­parato repressivo coordinato da un quadrumvirato dove brilla la stella di Alì Jafari, il re­sponsabile dei 120 mila pasda­ran. Quando Khamenei lo ha messo alla guida dei pretoria­ni gli ha affidato una missio­ne speciale: quella di contra­stare
una possibile «rivoluzio­ne di velluto» in Iran. E Jafari ha ristrutturato i pasdaran in base alla «dottrina del mosai­co », decentralizzandoli in 31 dipartimenti. Inoltre ha desi­gnato le Brigate «Al Zahra» e «Ashoura» come reparti anti sommossa. Ma, risvolto più importante, ha reintegrato la milizia Basij nei pasdaran pro­prio per avere una forza d’ur­to in caso di una sfida nelle piazze. A questo fine ha nomi­nato — nel luglio 2008 — co­mandante dei Basij un ex stu­dente del seminario del­l’imam Khomeini, l’hojatole­slam Hussein Taeb. Una scelta mirata. Per gli oppositori il ge­rarca in turbante ha una soli­da base ideologica ed ha gui­dato la facoltà Cultura all’ate­neo Hussein, istituto dove si sono formati gli ufficiali pa­sdaran. Jafari e Taeb condivi­dono un obiettivo dichiarato: la «protezione dei risultati del­la rivoluzione». E per questo sono pronti a usare ogni mez­zo. Con loro collaborano le ombre della Vevak, oltre 30 mila agenti che dipendono dal ministro dell’Intelligence, Gholam Mohsen Ezhei. Espo­nente del clero, si è distinto nel denunciare il presunto ap­poggio straniero ai dimostran­ti. Accuse scontate e fasulle che però possono bastare per mandare un uomo sul patibo­lo.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ahmadinejad attacca. ' Gli Usa si pentiranno' "

 Ahmadinejad

«Hai fatto un grave errore a schierarti dalla parte dei manifestanti»: Mahmud Ahmadinejad tuona alla volta di Barack Obama, in coincidenza con le notizie che rimbalzano da Washington sulla scelta del Dipartimento di Stato di mettere a disposizione del dissenso fondi per almeno 20 milioni di dollari.
Il presidente iraniano ha attaccato frontalmente l’inquilino della Casa Bianca pronunciando un discorso a dipendenti del ministero della Giustizia. «Siamo molto sorpresi da Mister Obama - ha detto Ahmadinejad, ripreso in diretta dalla tv statale - non ci aveva forse detto che perseguiva un cambiamento? E allora perché ha scelto di interferire in Iran?». E ancora: «Gli americani continuano a dire che vogliono dialogare con l’Iran ma il metodo che hanno scelto non è quello corretto». Da qui l’affondo: «Schierarsi a sostegno dei manifestanti responsabili di gravi disordini e violenze è stato un grave errore».
Le parole di Ahmadinejad arrivano all’indomani della nuova condanna della repressione pronunciata da Obama ricevendo alla Casa Bianca la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma ciò che più potrebbe aver irritato Teheran è la decisione presa dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, di mettere a disposizione degli attivisti di opposizione fondi federali per 20 milioni di dollari. A darne l’annuncio sono le 31 pagine del bando denominato «Support for Civil Society and Rule of Law in Iran» (Sostegno per la società civile e lo Stato di diritto in Iran), che prevede l’assegnazione di «grants» da parte di UsAid, l’Agenzia per lo sviluppo internazionale del Dipartimento di Stato.
I finanziamenti andranno a chi presenterà progetti e programmi per «promuovere la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto in Iran» compilando gli appositi moduli disponibili sul sito www.grants.gov e inviandoli all’«Office of Acquisition and Assistance» della UsAid al numero 1300 di Pennsylvania Avenue. I «grant» potranno essere richiesti da singoli o gruppi di cittadini iraniani entro il 30 giugno e sarà poi l’UsAid ad esaminarli ed assegnarli, elargendo cifre da un minimo di 100 mila dollari ad un massimo di 3 milioni di dollari: somme apparentemente non ingenti ma che in Iran possono garantire ampi margine di azione.
Il bando suggerisce ai concorrenti alcuni «esempi» di programmi possibili: denuncia della corruzione, migliore organizzazione delle ong, uso dei nuovi media. Si tratta di una strategia di sostegno all’opposizione in Iran che venne inaugurata dall’amministrazione Bush e che ora Obama dimostra di voler continuare attraverso la «Near East Regional Democracy Initiative». «Parte dei fondi di questa iniziativa sono destinati ad aumentare l’accesso da parte degli iraniani alle informazioni e comunicazioni via Internet» spiega a «UsaToday» David Carle, portavoce della sottocommissione del Congresso che li ha autorizzati, lasciando intendere la volontà di rafforzare le potenzialità del popolo di twitter che nelle ultime settimane si è dimostrato molto attivo nel sostenere le proteste.
Per la Casa Bianca questa scelta non implica comunque «interferenze in Iran». Tommy Vietor, portavoce del presidente, lo dice così: «Gli Stati Uniti non finanziano alcun movimento o fazione politica in Iran, sosteniamo però i principi universali dei diritti umani, della libertà di parola e dello Stato di Diritto». Ian Kelly, portavoce di Hillary Clinton, aggiunge: «Rispettare la sovranità iraniana non significa restare in silenzio su questioni inerenti a diritti fondamentali di libertà, come il diritto a protestare pacificamente». Si tratta di un approccio che ricalca quello avuto dagli Stati Uniti con l’Urss dopo la Conferenza di Helsinki del 1975 quando la Realpolitik del dialogo bilaterale si coniugò al sostegno di singoli gruppi di attivisti per i diritti umani. La differenza rispetto al precedente programma di finanziamenti di Bush - il Segretario di Stato Condoleezza Rice stanziò 66 milioni di dollari per l’Iran nel 2006 - sta proprio nel fatto che allora i fondi andavano a gruppi politici organizzati mentre in questo caso l’assegnazione dei «grant» è a singoli cittadini.

La STAMPA - Barbara Spinelli : " L'apocalisse maschera del potere "

 Barbara Spinelli

Barbara Spinelli scrive : "L’Iran lo identifichiamo ormai da trent’anni con il turbante, con il Corano, con la violenza in nome di Dio, con la religione che s’intreccia alla politica e l’inghiotte. Quando i suoi dirigenti si ergono contro il mondo esterno o contro il proprio popolo, subito tendiamo a scorgere la mano e la mente d’un clero retrogrado. Il suo establishment usiamo chiamarlo religioso, nell’élite sacerdotale ci ostiniamo a non vedere altro che integralismo.". In Iran chi ha l'ultima parola su tutto, chi davvero governa, è la Guida Suprema, l'ayatollah Khamenei. E' un religioso, un fondamentalista islamico. Non è un laico. Scrivere che gli ayatollah di Qom sono schierati con Mousavi non corrisponde al vero. Come scritto nell'articolo di Guido Olimpio sopra riportato, a capo della repressione ci sono gli ayatollah.
Ahmadinbejad non è un dittatore laico. E' un conservatore strettamente legato al clero, tanto che ha l'appoggio dell'ayatollah Khamenei.
Per quanto riguarda il giudizio sull'America e i suoi errori con l'Iran, concordiamo sul fatto che l'amministrazione Obama sbaglia con la sua linea morbida della mano tesa. Non sta portando a risultati positivi e la prova sono i brogli elettorali e la continuazione del programma nucleare (che non è pacifico, ma bellico e volto alla distruzione di Israele). Ecco l'articolo:

Ci sono abitudini simili a bende sugli occhi, che impediscono di vedere. O simili a guinzagli, che accorciano il pensiero annodandolo al conformismo. Il nostro sguardo sull’Iran è prigioniero di queste bende e questi guinzagli, fin dai tempi dello Scià e poi anche dopo la rivoluzione di Khomeini. L’Iran lo identifichiamo ormai da trent’anni con il turbante, con il Corano, con la violenza in nome di Dio, con la religione che s’intreccia alla politica e l’inghiotte. Quando i suoi dirigenti si ergono contro il mondo esterno o contro il proprio popolo, subito tendiamo a scorgere la mano e la mente d’un clero retrogrado. Il suo establishment usiamo chiamarlo religioso, nell’élite sacerdotale ci ostiniamo a non vedere altro che integralismo.
È dagli Anni 50 che le amministrazioni americane sbagliano politica in Persia, suscitando sistematicamente le soluzioni peggiori e trascinando negli errori anche l’Europa. Tanto più urgente è congedarsi da bende e guinzagli, e cominciare a guardare quel che veramente sta succedendo in Iran.
Da quando si sono svolte le elezioni, il 12 giugno, sui tetti delle case si aggirano giovani assetati di libertà che gridano nella notte «Allah Akbar», Dio è grande, aggiungendo immediatamente dopo: «A morte il dittatore», proprio come nel 1979. Sono cittadini che di giorno hanno sfilato per strada contro i brogli elettorali: che hanno smesso la paura, e rischiano la vita parlando con frequenza di sacrificio di sé. Anche Mir Hossein Mousavi, il loro leader, annuncia che resisterà «fino al martirio».
A Qom, che è una delle città sacre dell’Islam sciita ­ di qui partì la rivoluzione khomeinista ­ vive una classe sacerdotale che nella stragrande maggioranza avversa il presidente. Non più di tre, quattro ayatollah lo sostengono, anche se i loro uomini occupano i principali centri di potere (Pasdaran, servizi, giustizia). I massimi teologi del Seminario di Qom hanno scritto una lettera aperta, dopo il voto, in cui dichiarano i risultati «nulli e non avvenuti». Viene da Qom ed è figlio di un ayatollah il presidente del Parlamento Larjiani, ostile a Ahmadinejad. Si è rinchiuso a Qom il numero due dello Stato, l’ayatollah Rafsanjani, per verificare se sia possibile mettere in piedi una maggioranza di religiosi, nel Consiglio degli esperti che presiede, capace di destabilizzare e forse spodestare la Guida suprema, l’ayatollah Khamenei che ancora difende la legittimità di Ahmadinejad. Il Consiglio degli esperti nomina la Guida suprema a vita, ma può destituirla se essa non mostra saggezza. Sembra che Rafsanjani abbia già convinto 40 capi religiosi, sugli 86 che compongono il Consiglio. Nella città religiosa di Mashhad, molti sacerdoti musulmani hanno partecipato alle manifestazioni contro il regime. Non trascurabile è infine il simbolo della resistenza: verde è il colore dell’Islam. Questo significa che non siamo di fronte a una sollevazione contro lo Stato religioso. Per il momento, siamo di fronte a un’insurrezione fatta in nome dell’Islam contro un gruppo dirigente considerato blasfemo e nemico del clero.
Ahmadinejad ha questo vizio blasfemo, agli occhi della maggioranza dei sacerdoti tradizionali e di grandissima parte della popolazione. In lui non si percepisce un leader integralista, ma un dittatore che ha motivazioni tutt’altro che religiose. Il suo potere è innanzitutto militare, e nel frattempo è anche divenuto economico. Le sue parole d’ordine sono improntate a un nazionalismo radicale, estraneo alla spiritualità. Il corrispondente della Frankfurter Allgemeine, Rainer Hermann, è un fine conoscitore del paese e parla di «svolta pakistana»: sotto la presidenza Ahmadinejad, negli ultimi quattro anni, avrebbe preso il potere un’élite che nella sostanza è laica, e che usa la religione non solo per abbattere ogni forma di democrazia ma per distruggere il clero tradizionale.
L’uso della religione è sin da principio politico, in Ahmadinejad.
Fedele alle dottrine apocalittiche dell’ayatollah Mesbah Yazdi, il presidente si dice convinto che l’era dell’ultimo Imam ­ il dodicesimo Imam messianico, il Mahdi occultato da Dio per oltre 1100 anni ­ stia per riaprirsi, con il ritorno del Mahdi. Tutte le apocalissi, anche quelle ebraiche e cristiane, sono rivelazioni che presuppongono tempi torbidi, in cui il male s’intensifica. Anche per la scuola Hakkani, che Yazdi dirige e cui appartengono gli Hezbollah iraniani, il male va massimizzato per produrre il Bene finale. L’ayatollah ha insegnato a Ahmadinejad l’uso del messianesimo a fini politici, non teologici. I politici messianici in genere parlano di Apocalisse non perché credono nella Rivelazione, ma perché nell’Apocalisse il dialogo con Dio è diretto (nell’Apocalisse di Giovanni scompaiono i templi) e il capopopolo non ha più bisogno del clero come intermediario. L’apocalisse serve a escludere il clero dalla politica e forse anche la religione.
Il segno più evidente della svolta laico-pakistana di Ahmadinejad è la militarizzazione del regime. I guardiani della rivoluzione, i Pasdaran, dipendono da lui oltre che da Khamenei. E i picchiatori delle milizie Basiji non sono nati nel fervore religioso ma nel fervore della guerra di otto anni tra Iran e Iraq. I Basiji erano i bambini o i giovanissimi che in quella terribile guerra, tra il 1980 e il 1988, venivano gettati, inermi, nei campi minati dal nemico: perirono in migliaia. Secondo alcuni storici (tra cui lo specialista Hussein Hassan) Ahmadinejad fu il giovane istruttore di quei martiri forzati. Il suo disegno: rompere il singolare equilibrio di poteri tra sovranità popolare-democratica, sovranità religiosa e sovranità militarizzata che caratterizza l’Iran. Un equilibrio ripetutamente violato ma che rispecchia la storia del paese, sempre oscillante fra il costituzionalismo democratico affermatosi nel 1906 e la brama mai spenta di Stato assoluto. Il potere di Ahmadinejad e dei Guardiani è ormai più forte ­ anche presso i più poveri del paese ­ di quello dei Mullah, i sacerdoti che fecero la rivoluzione.
Quel che è avvenuto sotto Ahmadinejad è una sorta di colpo di Stato modernista, che ha intronizzato l’élite formatasi nella guerra contro l’Iraq. È il potere di quest’élite che Ahmadinejad protegge, e esso non coincide con il potere religioso. Tra molti esempi si può citare la decisione di togliere al clero la gestione dei pellegrinaggi e di affidarla al ministero del Turismo: una misura che ha profondamente umiliato i religiosi. L’apocalisse è strumento di lotta molto terreno: nella conferenza stampa dopo le elezioni, Ahmadinejad ha ripetuto la formula d’obbligo che impone di parlare «in nome di Allah il Misericordioso», ma subito dopo ha rotto la tradizione invocando il dodicesimo Imam. Le milizie Basiji da qualche tempo si son tagliate la barba: è un altro segno di ribellione ai Mullah. Nella campagna elettorale, Mousavi si è presentato con il verde dell’Islam e del movimento riformatore. Ahmadinejad con la bandiera nazionale.
È dunque il nazionalismo militarizzato, il regime che oggi vacilla e sta riducendo al silenzio i riformatori. È il nazionalismo che si è abbarbicato all’atomica, e fatica a negoziare su di essa. Ma l’atomica è al tempo stesso la risposta dell’Iran intero ai tanti errori di valutazione dell’Occidente e alla cecità delle amministrazioni Usa, che mai hanno capito le riforme di cui questo paese aveva bisogno (non lo capirono con il Premier Mossadeq, che spodestarono nel 1953 per tutelare lo Scià e le vie del petrolio; non lo capirono quando minacciarono Teheran nonostante al governo ci fossero riformatori come Rafsanjani o Khatami). La sfida atomica iraniana non verrà meno, il giorno in cui vincessero i riformatori. Ma almeno non sarà al servizio del più tremendo dei nazionalismi: quello che sceglie come maschera l’Apocalisse.

CORRIERE della SERA - Federico Fubini : " Effetto Obama sui giovani di Teheran "

 Strobe Talbott

VENEZIA — La chiama «una risonanza fra l'effetto Ba­rack Obama e quello che accade nelle strade di Tehe­ran ». Poi Strobe Talbott, presidente della Brookings Insti­tutions di Washington, vice segretario di Stato con Bill Clinton e ora molto vicino a Hillary, quasi si impressio­na davanti alla sua stessa idea, o alla dimensione degli eventi. «Qualunque altra ipotesi è valida — frena — nes­suno capisce fino in fondo le dinamiche dell'Iran oggi».
Lei però sospetta che il discorso di Obama al mon­do musulmano dal Cairo dia più coraggio ai ragazzi delle piazze di Teheran?
«Penso che la voglia di Obama di tendere la sua mano, anziché mostrare un pugno chiuso, contribuisca alle con­vinzioni di larghe parti della popolazione in Iran: sono coloro che non vogliono un Paese isolato, ostile all'Occi­dente e soprattutto agli Stati Uniti».
In sintesi, c'è un effetto Obama sull'Iran.
«Certo, c'è un effetto Obama e sta giocando un ruolo nelle aspirazioni di molti iraniani, in particolare i più gio­vani, cosmopoliti e sintonizzati con il mondo esterno, quelli che usano Internet di continuo e vogliono essere parte del mondo. A loro Obama sostanzialmente sta di­cendo: vogliamo che voi siate parte del mondo».
La Casa Bianca aveva aperto in qualche modo al dia­logo con il regime.
Questa repressione la mette in imbarazzo?
«Non vedo perché do­vrebbe: Obama non ha mai sostenuto il regi­me. Piuttosto, ha mo­strato di capire che l'Iran è una società com­plessa. È un Paese più democratico di molti al­tri nel Medio Oriente, Turchia esclusa, direi il più democratico dopo — guarda un po' — Isra­ele. Ma la Casa Bianca non si è mai giocata la reputazione sulle scelte del regime: ha solo ri­cordato che siamo di fronte a un Paese in mo­vimento, ricco di grup­pi con cui dovremmo parlare se vogliono parlare con noi. I fatti lo conferma­no ».
Eppure per i repubblicani, e certi democratici, Oba­ma non sostiene abbastanza i giovani nelle piazze di Teheran.
«Sì: il presidente su questo incassa bordate sul fronte interno, ma credo abbia assolutamente ragione a mostra­re una certa cautela. Applaudire e incoraggiare i manife­stanti da Washington non li aiuterebbe affatto, al contra­rio sarebbe visto come il bacio della morte del Grande Satana. E i ragazzi che chiedono più democrazia laggiù sono i primi a non volere la benedizione americana: vo­gliono che l'America tenga la bocca chiusa».
A causa delle sanzioni, i gruppi petroliferi dell'Ue hanno rinunciato ai più recenti giacimenti in gara in Iran ma sono subentrati i cinesi. Le sanzioni servono davvero?
«Sono uno strumento decisivo per gestire la questio­ne nucleare. Assistiamo a eventi spiegabili solo con l'aspirazione dell'Iran ad avere armi atomiche in violazio­ne del Trattato di non proliferazione. In questa situazio­ne, ci occorre la carota del dialogo ma anche il bastone delle sanzioni. A maggior ragione, visto che credo l'op­zione di un attacco militare sull'Iran sia irrealistica. An­che la Russia e la Cina, che siedono in Consiglio di sicu­rezza dell'Onu, dovranno dare più sostegno a questo ap­proccio ».

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Ora la comunità internazionale aiuti Moussavi "

 Ahmad Batebi

«Quando alzai quella maglietta insanguinata non pensavo ad infiammare la piazza ma a fermarla. Un ragazzo era stato appena colpito da un proiettile, gli avevamo levato la maglia e l'avevamo usata per tamponargli le ferite... mi era rimasta in mano così l'alzai e la mostrai a quella piazza scalmanata ed entusiasta pronta a lanciarsi contro le forze di sicurezza. Volevo fargli capire che si dovevano fermare, che rischiavamo di finire tutti arrestati o di fare la fine di quel ragazzo. Quella maglietta alzata divenne il mio capo d'accusa. La foto fece il giro del mondo e io mi ritrovai in carcere davanti ad un giudice che mi diceva “Con quella foto hai firmato la tua condanna a morte”».
Succedeva nel luglio di dieci anni fa, in quel 18 di Tir ricordato come la prima rivolta studentesca contro il regime della Repubblica islamica. Oggi Ahmad Batebi ha 32 anni e vive a Washington. Per quella foto pubblicata in tutto il mondo si è fatto otto anni di carcere, ha subito due terrificanti finte impiccagioni, è stato torturato e bastonato. L'anno scorso, approfittando di una licenza dal carcere non è più tornato in cella, si è dato alla macchia, ha attraversato dopo una fuga avventurosa il confine con l'Irak. Oggi risponde da un cellulare di Washington e spiega al Giornale le differenze tra la rivolta di dieci anni fa e quella dell'onda verde di Moussavi.
«La differenza più grande, credetemi, è nella sostanza. Nel 1999 a subire la violenza del regime c'eravamo solo noi studenti, oggi tutti gli iraniani si sentono minacciati, percepiscono la consistenza della minaccia. Nel 1999 non potevi accusare l'intero sistema perché al governo c'era il presidente Khatami, al massimo potevi chieder di far punire i responsabili delle violenze sugli studenti. Oggi l'intero regime è colpevole, colpevole di aver rubato i voti e di aver scatenato la repressione. Per questo la rivolta è destinata ad aumentare e si estenderà. Oggi nessuno si accontenta di vedere in tribunale qualche comandante della polizia o dei basiji. Oggi la gente grida "Morte al Dittatore" e vuole la testa della "Suprema Guida". Dieci anni fa nessuno si sarebbe sognato una cosa del genere».
Che differenza c'è tra i giovani di oggi e i suoi coetanei?
«La consapevolezza. Noi eravamo mossi da una sorta di malessere, da una voglia di cambiamento, nessuno sapeva se le ragioni dei suoi compagni coincidevano con le sue. Oggi con internet e televisioni satellitari tutti si muovono per delle ragioni comuni... hanno un nemico comune rappresentato da chi ha rubato il loro voto e truccato le elezioni».
L'ex presidente Rafsanjani può cambiare le cose?
«Rafsanjani è un uomo potente e abile, ma è un uomo di quel sistema, molti degli errori commessi in 30 anni sono i suoi errori. Il vero cambiamento sarebbe limitare l'influsso della religione e questo nel caso iraniano significa cambiare la sostanza del sistema».
Hossein Moussavi e questa generazione di nuovi oppositori ce la possono fare?
«Solo se la comunità internazionale si decide ad aiutarli. Loro hanno fatto il possibile ora devono entrare in gioco i governi di tutto il mondo e garantirgli sostegno diplomatico. Devono smetterla di riconoscere il governo di Mahmoud Ahmadinejad e boicottarlo perché quell'esecutivo è frutto di un colpo di Stato».
La morte di Neda per lei cosa rappresenta?
«A nove anni vidi la lapidazione di un uomo... per molti anni quelle immagini non mi fecero dormire. La morte di Neda è un nuovo incubo. Mi dà la nausea, non mi abbandonerà per mesi».

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