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Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 09/06/2009, a pag. 2, gli articoli di Giulio Meotti e Massimo Introvigne titolati " Il dialogo tra Obama e i Fratelli musulmani è un segno di pace o di resa " e " La ragione debole di Obama rischia di non trovare consensi nell’islam " e, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Lo dice perfino l’Onu ". Dall'UNITA', a pag. 33, l'articolo di Robert Fisk dal titolo " Il potere delle parole ", preceduto dal nostro commento . Ecco gli articoli: Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Il dialogo tra Obama e i Fratelli musulmani è un segno di pace o di resa" Roma. Prima dell’ambizioso viaggio al Cairo, Barack Obama ha incontrato a Washington importanti esponenti dei Fratelli musulmani. Su richiesta esplicita della Casa Bianca, a sentirlo parlare al Cairo c’erano anche undici rappresentanti della fratellanza islamica, un fatto assolutamente nuovo per gli Stati Uniti. “Obama è pronto ad adottare la violenza, non l’ideologia islamista, come discriminante nell’attitudine americana verso simili organizzazioni”, si legge in un’analisi appena uscita sul sito Internet dei Fratelli, Ikhwanweb. In Europa i Fratelli musulmani, che sono anche il movimento più diffuso nelle moschee italiane, lavorano già oggi con il governo inglese, olandese e francese sui temi dell’integrazione. A Washington numerosi analisti, fra cui Fareed Zakaria su Newsweek, suggeriscono da tempo a Obama di cancellare la messa al bando non scritta nei confronti della storica organizzazione islamista, che si interseca con la clandestinità fondamentalista, che predica la distruzione di Israele e lavora per l’espansione della sharia in tutto l’occidente. Dall’ideologia dei Fratelli musulmani, nati nel 1928 in Egitto e ancora oggi fuorilegge al Cairo, sono nati gruppi terroristici come al Jamaa al Islamiya e Hamas, presenti sulla lista nera di Washington e Bruxelles. Nel maggio di due anni fa, il Foglio per primo intercettò un simile mutamento all’interno della diplomazia americana. Allora la discussione fu avviata da due studiosi del Nixon Center, Robert Leiken e Steven Brooke, che sulla rivista Foreign Affairs pubblicarono il saggio “The moderate muslim brotherhood”. I due chiesero al dipartimento di stato di avviare il dialogo con la fratellanza sulla base della sua “evoluzione non violenta”. Ma Zeyno Baran, analista della Hoover Institution e collaboratrice dell’Herald Tribune, liquida così ogni tentativo di dialogo con i Fratelli: “Per loro il Corano non è fonte di legge, è l’unica fonte. La fratellanza crea una quinta colonna per indebolire i sistemi occidentali. La Fratellanza ritiene necessario diffondere concetti islamici che rigettano la sottomissione e incitano alla lotta”. Il primo consigliere di Obama per i Rapporti con il mondo islamico, Mazen Asbahi, si dimise quando emersero i suoi legami con la Fratellanza islamista. “Gli Stati Uniti devono considerare quando e come parlare con movimenti politici che hanno un consenso pubblico sostanziale e hanno rinunciato alla violenza, i Fratelli musulmani potrebbero essere in questa categoria”, è scritto in un rapporto del The Project on U.S. Engagement with the Muslim World. Ne fa parte Dalia Mogahed, il primo velo islamico della Casa Bianca. Egiziana di nascita a capo del Gallup Center for Muslim Studies e tra le massime sostenitrici del dialogo fra Washington e lo storico movimento islamista, oggi Mogahed è a capo dell’Advisory Council on Faith-Based and Neighborhood Partnerships voluto da Obama. Laurea in Ingegneria e master in Business administration, Dalia è vicina alla Muslim American Society, l’organizzazione storicamente affiliata alla Fratellanza musulmana. Appena scelta da Obama come consigliera alla Casa Bianca, Dalia ha rilasciato una lunga intervista a Islamonline, il sito internet dello sceicco Yusuf al Qaradawi, che della Fratellanza è il guru e che sintetizza così il programma del movimento in occidente: “La conquista non sarà con la spada, ma con il proselitismo”. Anche l’altro membro islamico del board obamiano sulla fede, Eboo Patel, è legato al Council on American Islamic Relations, organismo finanziato dai sauditi e legato ai Fratelli. Ad aprile Obama ha visitato la Turchia per partecipare all’Alleanza delle civiltà, un forum vicino ai Fratelli musulmani con affiliazioni europee e americane, del cui board fa parte John Esposito, il mentore di Dalia Mogahed, l’islamologo della Georgetown University che da anni sostiene il dialogo con i Fratelli musulmani e la sua filiera americana. L’Alleanza delle civiltà a cui ha partecipato Obama non fa mistero di essere uno strumento dell’Organizzazione della conferenza islamica, che ha sede a Gedda in Arabia Saudita ed è non da oggi il più potente blocco di votanti alle Nazioni Unite, dominando anche il Consiglio dei diritti umani. E’ sua la risoluzione al Palazzo di Vetro che criminalizza l’islamofobia e rende sempre più tormentata e difficile la libertà d’espressione e di critica sull’islam in occidente. Lo scorso 15 settembre, alcuni membri dello staff di Obama, allora candidato alla guida degli Stati Uniti, si incontrarono a Washington con alcuni esponenti del Council on American Islamic Relations e della Muslim American Society, entrambe emanazione dei Fratelli musulmani. Quando nel 1928 nacquero in reazione all’abolizione del califfato, i Fratelli aprirono scuole, ambulatori, moschee. Gli uomini iniziarono a farsi crescere la barba, le donne a portare il velo. Come quello di Dalia Mogahed.Il FOGLIO - Massimo Introvigne : " La ragione debole di Obama rischia di non trovare consensi nell’islam" Nel discorso pronunciato all’Università del Cairo il 4 giugno 2009, il presidente degli Stati Uniti Barack Hussein Obama ha parlato di una “verità che trascende nazioni e popoli”, di “una verità che non è nuova, che non è né nera né bianca né marrone, che non è né cristiana né musulmana né ebrea”. Declinando le conseguenze di questa verità, Obama segue uno schema che, in apparenza, può ricordare Benedetto XVI: condanna senza appello della violenza e del terrorismo, diritti delle donne, libertà di religione. Il tono è diverso – con qualche concessione retorica all’audience musulmana che diventa errore sociologico e storico, come quando i fondamentalisti sono definiti una minoranza “piccola ma potente” (potente certo, ma non così piccola: sono almeno cento milioni di persone) o s’idealizza la tolleranza dei musulmani in Andalusia e a Cordoba, confrontandola con “l’Inquisizione” cattolica – ma l’architettura appare simile a quella più volte proposta dal Pontefice. E tuttavia manca qualcosa di essenziale. Nel discorso di Obama non c’è nessun riferimento a una legge naturale che la ragione può discernere. Né ci potrebbe essere: perché ogni teoria della legge naturale sarebbe in clamorosa contraddizione con tutto quanto Obama pensa e fa in materia, per esempio, di aborto e con un atteggiamento generale che privilegia i cosiddetti “nuovi diritti” rispetto a principi morali universali e non negoziabili, di cui anzi si nega l’esistenza, che è tipico del presidente americano e del suo partito e che determina i noti contrasti con i vescovi cattolici degli Stati Uniti. Su che cosa Obama pretende di fondare una verità capace di “trascendere nazioni e popoli”? Se non ci si vuole fondare su una nozione forte di ragione, una ragione debole finirà per fare appello alla fede, che però rischierà di essere assunta in modo confuso. Al Cairo Obama invoca la “visione di Dio” che, sembra di capire, “conosciamo” attraverso un’analisi di quanto le scritture sacre delle grandi religioni hanno in comune. Da questo punto di vista, Obama appare più fideista del Papa. Citando il Corano, il Talmud e la Bibbia, egli pensa di avere trovato “la singola regola che sta al cuore di ogni religione – facciamo agli altri quello che vorremmo che gli altri facessero a noi”. Questa credenza, dice Obama, “non è nuova”. In effetti non lo è. La cosiddetta “regola aurea” – non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te – è certamente un antico principio di buon senso, che i cristiani condividono. Tuttavia – da Kant in poi – molti hanno messo in luce come si tratti di uno schema formale che dev’essere riempito: chi sono gli altri? Questa volontà che attribuiamo agli altri è necessariamente conforme alla ragione e al bene? Se rimane uno schema vuoto, la “regola aurea” resta solo una pia aspirazione, più o meno sentimentale, al buonismo universale. Non potendo, per non smentire il suo relativismo in campo morale, fare appello alla legge naturale e a una ragione forte e fiduciosa di potere giungere a verità universali, Obama si trova costretto a proporre o una ragione debole – qualche cosa che ricorda i tentativi di costruire a tavolino etiche universali alla Hans Küng – o il faticoso e sterile tentativo di partire dalle scritture sacre delle religioni per discernerne il presunto spirito comune che ci permetterebbe di conoscere la stessa “visione di Dio” per l’umanità. In questo fondamento debole della ricerca di consenso con l’islam – un fondamento che non persuaderà i musulmani che vogliono rimanere musulmani – sta il limite essenziale del discorso di Obama. L’attenzione di molti si concentra, a proposito di questo discorso, sugli aspetti strettamente politici. Mentre su Afghanistan (dove dichiara di voler intensificare l’impegno) e Iraq (dove promette un cauto disimpegno, dicendosi comunque “convinto che gli iracheni stiano meglio oggi che sotto la tirannia di Saddam Hussein”) Obama ribadisce posizioni note, la novità sta nell’apertura di credito in bianco all’Iran e a Hamas, ingrediente obbligatorio di un messaggio che si vuole a tutti i costi nuovo, ma che non sembra per ora accompagnata da alcuna concessione da parte dei destinatari. Tuttavia, non è per i riferimenti ai coloni israeliani o al nucleare iraniano che Obama presenta il suo discorso come “storico”. E’ per la pretesa di fondare una nuova ricerca di consenso tra l’occidente e l’islam sull’appello a verità comuni. Questo consenso è difficile ma non è impossibile, purché si tratti delle verità di una ragione forte che si oppone a ogni relativismo. Se la ragione è debole, o cerca precari appoggi in una pretesa e sincretistica “visione comune” delle religioni, tutto l’edificio, per quanto sembri svettare orgogliosamente verso il cielo, è in realtà costruito sulla sabbia. E non potrà che cadere.Il FOGLIO - " Lo dice perfino l’Onu" La settimana scorsa abbiamo raccontato che Barack Obama, al di là delle dichiarazioni pubbliche, ovviamente più caute, è tentato dal non considerare più “inaccettabile” un Iran nucleare, come aveva detto durante la campagna elettorale. La Casa Bianca è convinta che un intervento militare americano o israeliano per distruggere i siti nucleari degli ayatollah possa risolversi in un disastro e crede che l’arma della deterrenza resti la più efficace per evitare uno scontro nucleare. Ora Obama dice apertamente che l’Iran ha il diritto a dotarsi di tecnologia nucleare, ma solo a scopo civile. I primi segnali di questa nuova strategia, però, non sono incoraggianti. L’ayatollah Ali Khamenei non si è affatto addolcito e ha ribadito che “il mondo odia gli americani dal profondo del cuore”. Nei giorni scorsi l’Onu ha reso pubblico un rapporto dell’Agenzia atomica secondo cui l’Iran ha già una quantità sufficiente di centrifughe e di combustibile nucleare per costruire due bombe l’anno (e ha confermato che il bombardamento israeliano del 2007 in Siria ha colpito un sito nucleare segreto). Gli esperti dell’Onu spiegano che da oltre un anno non hanno più accesso ai siti nucleari iraniani e che Teheran non risponde alle domande dell’Agenzia, imposte da diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Le aperture all’Iran hanno inoltre ringalluzzito il regime nordcoreano, impegnato in test atomici e missilistici che hanno convinto l’Amministrazione a confrontarsi con la realtà e a cambiare politica. Almeno riguardo a Pyongyang.L'UNITA' - Robert Fisk: " Il potere delle parole " Visto l'autore e il taglio dell'articolo, non ci stupisce che sia solo l'UNITA' a riportare l'articolo. La prima parte dell'articolo di Fisk è un'ode a Obama e al suo discorso del Cairo. Fisk apprezza l'apertura di Obama all'islam, ma, nella conclusione dell'articolo, scrive : " Non ha fatto parola - né durante né dopo i rimproveri pur sottotono all’Iran - delle 264 testati nucleari che secondo le stime si troverebbero negli arsenali israeliani. Ha ammonito i palestinesi per la loro violenza - perché «sparano missili contro bambini che dormono e fanno saltare in aria povere vecchie negli autobus». Ma non ha parlato della violenza di Israele a Gaza, ma semplicemente della «ininterrotta crisi umanitaria a Gaza». Né ha parlato dei bombardamenti israeliani contro i civili in Libano, delle ripetute invasioni del Libano (17.500 morti nella sola invasione del 1982). ". Insomma, Obama non è stato abbastanza compiacente con l'islam, e lo è stato troppo con Israele. Il presidente Obama tende la mano al mondo islamico con un discorso che segna una svolta. Predicatore, storico, economista, moralista, insegnante, critico, guerriero, imam, imperatore. Talvolta si finisce per dimenticare che Barack Obama è il presidente degli Stati Uniti d’America. Il suo discorso dinanzi ad una platea attentamente selezionata all’università del Cairo «ridisegnerà il mondo» e rimarginerà le ferite vecchie di secoli tra musulmani e cristiani? Contribuirà a risolvere la tragedia arabo-israeliana dopo oltre 60 anni? Se le parole avessero questo potere...non lo potremmo escludere. Per inviare la propria opinione a Foglio e Unità, cliccare sulle e-mail sottostanti lettere@ilfoglio.it lettere@unita.it |
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