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Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 05/06/2009, a pag. 6, il commento di Fiamma Nirenstein dal titolo " Il mondo musulmano non è quello che il presidente Usa dipinge " e quello di Paolo Guzzanti dal titolo " 'Un nuovo inizio con l’islam'. Ma con la carota c’è il bastone ". Da LIBERO, a pag. 18, il commento di Glauco Maggi dal titolo " La guerra ad Allah non c’è stata. Di che pace parla il presidente? " ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'analisi di Christian Rocca dal titolo " Dal Cairo Obama non ripete il “no” alla bomba iraniana. Il suo centro studi di riferimento ci dice perché " e l'articolo dal titolo " Un ministro israeliano dice parole dure contro Obama prima del richiamo al silenzio di Netanyahu". Dalla STAMPA, in prima pagina, il commento di A. B. Yehoshua dal titolo " L'amico che vorrei a fianco " e quello di Gilles Kepel dal titolo " Tre crisi legate fra loro " preceduto dal nostro commento. A pag. 3, gli articoli di Aldo Baquis e Claudio Gallo titolati "Netanyahu: ' troppo morbido con l'Iran'. Hamas: ' C'è del buono ' " e " Per Khamenei : ' Soltanto parole. nessuna novità' ". Dall'OPINIONE l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Obama parla al mondo arabo " e quello di Michael Sfaradi dal titolo " Sembra più vicina la rottura Fra Usa e Israele ". Dalla REPUBBLICA, in prima pagina, i commenti di Bernardo Valli e Vittorio Zucconi titolati " L'incontro di civiltà " e " La riscoperta dell'America " preceduti dal nostro commento. Ecco gli articoli: Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Il mondo musulmano non è quello che il presidente Usa dipinge " Sarebbe bello vivere nel mondo disegnato ieri da Obama al Cairo, ma il senso di realtà suggerisce che non sarà possibile. Tralasciamo le ovvie parole di apprezzamento per la volontà di pace e per il coraggio politico del presidente americano: chi potrebbe negarli. Obama ha tentato al Cairo di creare con la forza della sua magia una svolta epocale, quella in cui non esiste il conflitto fra islam e Occidente. Ne è risultato il ritratto un po’ banale di un giovane presidente buono. Obama immagina il mondo a partire dalla sua autobiografia: non a caso non ha nemmeno citato la parola terrorismo. Il presidente americano si è presentato come la prova vivente della negazione del conflitto di civiltà, un giovane uomo cresciuto senza conflitto fra islam e cristianesimo, il padre e il nonno musulmani, la madre cristiana e bianca, gli Stati Uniti il porto d’arrivo, dove anche l’islam è una componente indispensabile. Obama ha parlato un’ora intera, ma il mondo ha sentito bene solo alcune cose: la prima riguarda il tono apologetico, in fondo abbiamo principi simili, quelli dei diritti umani. Ma non è andata così. Il GIORNALE - Paolo Guzzanti : " 'Un nuovo inizio con l’islam'. Ma con la carota c’è il bastone " L’espressione chiave è «fresh start» che non vuol dire soltanto «nuovo inizio», ma ricominciare una relazione andata a rotoli, per esempio in amore: una coppia di ex amanti in crisi può tentare «a fresh start», una partenza da zero e ciascuno dei due amerà allora anteporre al proprio nome l’aggettivo «new»: «a new Marc», «a new Jackie», sottolineando il cambio di personalità. Così in politica. Ieri il presidente Obama si è presentato all’università del Cairo, nell’Aula Magna dalla quale il governo aveva prudentemente fatto sparire gli studenti, presentandosi di fatto come «the new America», pronta a un «fresh start», ripartendo da zero con il mondo musulmano. Il mondo musulmano con i suoi notabili e intellettuali ascoltava e applaudiva soltanto quei passi in cui Obama dava torto a Israele, ma non quando deprecava la violenza araba e nemmeno quella terrorista dell’11 settembre. Applausi solo all’Obama «che la pensa come noi» e gelo impassibile di fronte alle altre espressioni più complesse con cui il presidente ha dato il via al ciclopico tentativo di rigenerare un legame fra le cosiddette tre religioni del libro riferendosi al Talmud, al Corano e alla Torah, o Bibbia per i cristiani. Questo è piaciuto, e le ovazioni si sono levate altissime e soddisfacenti. Ma non si è mai assistito ad una ovazione bipartisan. E Obama, per far passare negli Stati Uniti la politica del «fresh start», ha un bisogno dannato che il mondo musulmano impari a reagire con uno spirito diverso da quello, pur osannante per certi versi, cui abbiamo assistito ieri al Cairo. LIBERO - Glauco Maggi : " La guerra ad Allah non c’è stata. Di che pace parla il presidente? " Gratta gratta, sotto la globale retorica buonista offerta nel discorso di ieri al pubblico del Cairo dal presidente americano si scopre una sola novità, e negativa, rispetto a ciò che Bush aveva sempre detto nei suoi interventi a proposito dei musulmani: la scomparsa della parola “terrore” e la sua sostituzione con “estremismo” nei riferimenti agli assassini di Al Qaeda. Tanto per delegittimare la “guerra al terrore di Bush" in nome della vecchia filosofia del pacifismo, che si applica piuttosto contro i marines, e che spera di esorcizzare la realtà usando scappatoie lessicali. È un gioco pericoloso. In ogni caso non saranno le parole ma le azioni di Obama a definire i rapporti futuri tra l’America e l’Ovest da una parte e le autocrazie mediorentali, le loro propaggini armate e l’opinione pubblica islamica che si nutre di Al Jazeera. Non depone bene, agli occhi di chi vuol vedere, che non ci sia mai stata nel mondo islamico una reazione di massa agli "estremisti" interni: anche se sono i loro correligionari ad ammazzare i musulmani, quelli da odiare sono gli americani. Che l’«Islam è una religione di pace» lo aveva già detto Bush nel 2006, proprio con la stessa frase copiata da Obama a Istanbul un mese fa. E non era la prima volta. In un momento storicamente ben più drammatico dell’attuale, sei giorni dopo l’11 settembre 2001, George W. proclamò al Centro Islamico di Washington: «La faccia del terrore non è la vera fede dell’Islam. Non ha niente a che vedere con l’Islam. Questi terroristi non rappresentano la pace. Rappresentano il male e la guerra». E il 19 settembre 2001 ribadì dalla Casa Bianca, parlando con il presidente della islamica Indonesia: «Sia chiaro che la guerra contro il terrorismo non è guerra contro l’Islam». E ancora qualche giorno dopo Bush ribadì: «Ci sono migliaia di musulmani orgogliosamente americani, e loro sanno che io so che la fede musulmana è basata sulla pace, l’amore e la pietà». Nell’ottobre del 2002 articolò ancora meglio la sua opinione: «L’Islam è una fede vibrante... Noi rispettiamo quella fede. Onoriamo la sua tradizione. Ma i nostri nemici no. I nostri nemici non seguono le grandi tradizioni dell’Islam. Loro hanno dirottato una grande religione».E allora, dov’è tutta questa novità proclamata da Obama che «l’America non è in guerra con l’Islam?». E che bisogna ripartire da zero nei rapporti tra i due mondi? La verità è che la guerra tra il miliardo e rotti di islamici nel mondo e gli americani non c’è mai stata. Ma c’è stata, c’è, e ci sarà la guerra che i terroristi di Al Qaeda e dei gruppi affini hanno dichiarato agli Stati Uniti fin dal 1993 (primo attentato alle Torri Gemelli) e che è poi proseguita con gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington, e i successivi attentati di Londra, di Madrid, di Bali, di Mumbai. E ci sarà l’uso degli “estremisti” interni da parte di dittatori che hanno bisogno dei nemici “Israele&Usa” per stare al potere. Il solo fatto di chiamare «religione di pace» l’Islam, come ha fatto Bush con costanza, non ha rappacificato allora i suoi ”terroristi” e non rappacificherà domani gli "estremisti" di Obama. L’America non solo non ha fatto la guerra ai musulmani, ma li ha difesi musulmani in Bosnia, Kuwait, Afghanistan e Iraq. A proposito della guerra contro Saddam, sull’opposizione alla quale Obama ha basato la sua carriera, il presidente ha perfino dovuto ammettere che «il popolo irakeno sta meglio senza la tirannia di Saddam». Aggiungendo che i fatti in Iraq hanno ricordato il «bisogno di usare la diplomazia per risolvere i nostri problemi quando è possibile». E con quel «quando è possibile» il grande retore si tiene aperte, per fortuna, opzioni bellicose di bushana memoria. Il FOGLIO - Christian Rocca : " Dal Cairo Obama non ripete il “no” alla bomba iraniana. Il suo centro studi di riferimento ci dice perché" Washington. L’America di Barack Obama comincia ad accettare l’idea che l’Iran degli ayatollah islamici potrà dotarsi di tecnologia nucleare. Lo ha detto esplicitamente lo stesso presidente, nel suo discorso di ieri al Cairo, e lo spiegano con autorevolezza esperti e analisti di Washington che influenzano da vicino le sue strategie di sicurezza nazionale. Si tratta di una svolta decisiva nella politica estera americana, se confermata, e nei circoli politici della capitale si dice sia il vero motivo delle crescenti tensioni con il governo israeliano. Obama ovviamente non ha rinunciato a fermare la corsa atomica del regime islamista di Teheran, cerca di aprire una strada diplomatica per contenere i programmi militari iraniani e spera di poter dimostrare al mondo che ha fatto di tutto per agire pacificamente e senza arroganza, qualora gli dovesse servire la solidarietà internazionale per eventuali sanzioni economiche e commerciali. Ma sono scomparsi dalla sua retorica i proclami senza se e senza ma sul no a un Iran nucleare. Fino a un paio di mesi fa, Obama diceva che un Iran atomico sarebbe stato inaccettabile e che, da presidente, avrebbe fatto di tutto per evitare l’incubo di una setta di fanatici religiosi pronta a minacciare l’esistenza di Israele con le armi di distruzione di massa e in grado di passare tecnologia nucleare ai terroristi islamici. Ufficialmente la linea della Casa Bianca è ancora questa, ma prima in un discorso in Turchia, poi due giorni fa in un’intervista alla Bbc e infine ieri al Cairo, Obama ha riconosciuto esplicitamente il diritto dell’Iran a dotarsi di tecnologia nucleare civile, che è secondo gli esperti il punto di non ritorno per poi trasferire il know how sul fronte militare (ammesso che il programma non sia già unico). John Nagl, presidente del Center for a New American Security, il centro studi di Washington che sta fornendo uomini e idee alla strategia di sicurezza nazionale di Obama, ha detto al Foglio che il presidente non può che continuare a sostenere pubblicamente la posizione dell’inaccettabilità del programma nucleare militare iraniano, ma in realtà sa perfettamente che un intervento militare per fermarlo sarebbe un disastro. Così, spiega Nagl, Obama continua a mostrare agli iraniani “il martello” della forza militare americana, ma offre a Teheran “molte carote”, cercando di fargli capire che “il martello israeliano sta già martellando”. La convinzione di Nagl e del gruppo di esperti di sicurezza nazionale del suo centro studi che sono entrati nel cuore dell’apparato strategico militare americano – da Michéle Flournoy che è andata a occupare il ruolo di PaulWolfowitz al Pentagono, fino a Kurt Campbell nominato per occuparsi dell’Asia al dipartimento di Stato – è che un intervento militare si risolverebbe in un disastro e che la soluzione migliore sia quella della deterrenza. Nagl non condivide l’idea che lo stato iraniano sia guidato da una setta messianica incurante delle possibili conseguenze dell’uso dell’arma nucleare: “La deterrenza può funzionare”, dice. “Ahmadinejad è certamente un ideologo”, aggiunge, ma la popolazione iraniana no. “Il solo fatto che Obama parli di dialogo – continua – può già influenzare le elezioni presidenziali iraniane di giugno”. L’alternativa ad Ahmadinejad, spiega Nagl, non si può dire sia una svolta, ma è migliore, è un passo avanti. Nagl non è un pacifista, è un ex ufficiale dell’esercito che ha combattuto in Iraq e che con il generale David Petraeus ha riscritto il manuale anti guerriglia adottato con successo due anni fa: “Sono favorevole all’uso della forza – dice Nagl – ma da militare so che cosa vuol dire”. Il centro studi di John Nagl è considerato l’equivalente obamiano del Project for a new american century degli anni di Bush, tanto è influente in questi mesi. “Sono orgoglioso che dicano questo”, dice Nagl. E spiega che Obama “sta adottando una politica estera capace di trovare un equilibrio tra i valori e i principi ideali dell’America e i suoi più stretti interessi nazionali”. Una via di mezzo tra il tradizionale idealismo liberal che negli ultimi decenni è stato inglobato dalla “chiarezza morale” invocata da Ronald Reagan e George W. Bush e il realismo pragmatico del mondo conservatore che ha trovato dimora accogliente nei quartieri del Partito democratico. Così Obama parla di democrazia e libertà nel mondo islamico, ma non troppo. Invoca un “nuovo inizio”, ma è ospite del più longevo autocrate arabo, Hosni Mubarak, e del centro culturale che ha diffuso le tesi dell’estremismo islamico. Chiede riforme agli autocrati islamici, ma non vincola gli aiuti americani a progressi concreti. Invita gli iraniani al dialogo, ma li accusa di essere i primi sostenitori del terrorismo internazionale. Si batte per un mondo senza testate nucleari, ma si prepara a a gestire un futuro prossimo con gli ayatollah atomici. La sfida di Obama è ambiziosa. Il presidente, spiega Nagl, crede davvero che mostrare al mondo un nuovo atteggiamento, una nuova disponibilità e un nuovo volto possa contribuire ad allentare le tensioni. Il discorso del Cairo, assieme a quello di qualche settimana fa in Turchia, è uno dei pilastri di questa strategia del dialogo, lontana dai toni libertari usati da George W. Bush. In realtà, dice Nagl, c’è una grande continuità tra gli ultimi anni di Bush e questi primi di Obama: “La grande discontinuità – dice – è tra Bush e Bush, soprattutto sul Pakistan. All’inizio l’Amministrazione ha reagito in modo esagerato all’11 settembre e ha commesso parecchi errori, poi ha cominciato a cambiare idea e a correggerli. Obama continua sulla stessa strada, ma ci vorrà molto tempo per mettere a posto tutto”.Il FOGLIO - " Un ministro israeliano dice parole dure contro Obama prima del richiamo al silenzio di Netanyahu" Roma. “Noi israeliani apprezziamo molto l’amicizia con gli Stati Uniti”, ha detto ieri al Foglio un membro influente del governo Netanyahu, il ministro della Scienza Daniel Herschkowitz. “Non vogliamo aprire conflitti, ma siamo delusi perché il presidente Obama, nel suo discorso al Cairo, ignora il fatto che i palestinesi non hanno abbandonato il terrorismo contro lo stato di Israele e contro gli stessi Stati Uniti d’America”. Matematico e rabbino, presidente di Habayit Hayehudi, “La Casa ebraica”, piccolo partito formato nel 2008 sulla base del Partito nazionale religioso, il professor Herschkowitz è stato uno dei primi a saltare sulla sedia, ascoltando Barack Obama al Cairo. Stava visitando un insediamento nei dintorni del monte Hebron e non ha perso tempo per esprimere il suo giudizio: “Obama trascura il fatto che i palestinesi non hanno ancora abbandonato il terrorismo”, ha dichiarato al quotidiano Yediot Ahronot, mentre arrivava la notizia di quattro morti negli scontri tra Hamas e Fatah in Cisgiordania. Intanto, però, un altro membro del governo Netanyahu, come il laburista Avishay Braverman, ministro per gli Affari delle minoranze, dava segni di soddisfazione: “Ha ragione Obama a dire che l’estremismo è il nemico del mondo. La società israeliana deve trovare un modo per far proprio questo sentimento e offrirlo come specchio ai palestinesi. La soluzione dei due stati per i due popoli è per noi un impegno”. Così, per frenare sul nascere le divisioni in seno al governo, una nota del primo ministro annunciava che i membri del gabinetto, dopo esser stati pregati di astenersi da qualsiasi commento, erano riuniti in consultazione dal premier Benjamin Netanyahu. Poco dopo, veniva diramata un’altra nota ufficiale: “Il governo israeliano esprime la speranza che l’importante discorso del presidente Obama al Cairo porterà davvero a una nuova era di riconciliazione tra mondo arabo e musulmano e Israele”. Diplomatichese. Prima, però, il professor Herschkowitz, aveva detto al Foglio cose molto dure: “Apprezzo gli Stati Uniti, ma noi restiamo un paese indipendente e abbiamo il dovere di essere responsabili. La richiesta di Obama di congelare gli insediamenti è immorale e inaccettabile; come facciamo a dire a una giovane coppia di settlers che non devono avere più figli?”. Quanto all’impatto del discorso di Obama sul mondo musulmano, il professor Herschkowitz è parso attendista: “Mi piacerebbe che facilitasse i rapporti, ma soltanto il tempo lo dirà”. Sulla tenuta del governo Netanyhau in preda a tensioni centrifughe, mentre il ministro della difesa Ehud Barak plaudiva a Obama per “il coraggioso appello ai principi universali” e “l’incoraggiamento ai moderati che vogliono la pace”, il ministro della Scienza sperava non ci fossero conseguenze. “Spero soltanto che gli Stati Uniti capiscano che l’unico loro alleato affidabile in medio oriente è Israele. Investire su questa alleanza e mantenerla è importante non soltanto per noi, ma è d’interesse strategico anche per gli Stati Uniti”. Il test fallito Quando poi si è trattato di capire se Obama avesse parlato da realista o da utopista, il giudizio del ministro israeliano è stato chiaro e netto: “Obama è un utopista. Finora i palestinesi non parlano di due stati, ma di uno solo. Non contemplano l’esistenza dello stato di Israele per gli ebrei. Finché i palestinesi non accettano noi ebrei e lo stato ebraico non c’è spazio per i negoziati sulla soluzione di due stati. I palestinesi devono accettare l’esistenza dello stato di Israele, smettere di educare i figli alla violenza, educarli alla pace. Finché questa situazione non cambia, non vedo alcuna possibilità realistica di pace”. E riprendendo l’argomento del polemologo Victor Davis Hanson su Israele come primo test di Obama difensore dei principi e dei valori dell’Occidente: “E’ troppo presto per dirlo”, ha commentato il ministro matematico rabbino e presidente dell’Habayit Hayehudi. “Il vero test in effetti non è il discorso di Obama o il suo giudizio, ma la realtà. E la realtà è che l’Iran desidera eliminare lo stato di Israele, e continua nel tentativo di dotarsi dell’arma nucleare. Perciò parlare di pace comeLa STAMPA - A. B. Yehoshua : " L'amico che vorrei a fianco " Per leggere l'opinione di David Grossman, vedere altra pagina, sotto la testata Repubblica, che ha messo in bocca allo scrittore israeliano una polpetta avvelenata. Da cosa si riconosce un vero amico? Dal fatto che chi si definisce tale crede e ha fiducia in te, si preoccupa dei tuoi veri bisogni, anche a lungo termine, ti indica onestamente i tuoi errori e cerca di aiutarti a correggerli. Questo è l’amico che vorrei al mio fianco. Non chi approva automaticamente qualunque cosa io faccia, dichiara il suo amore per me e mi accetta così come sono. A partire dalla grande vittoria militare di Israele nel 1967, quando venne respinta la grave minaccia militare rappresentata da Egitto, Siria e Giordania che proclamarono apertamente di volere distruggere lo Stato ebraico e concentrarono grandi eserciti lungo il suo confine, Israele è precipitato in un vortice ideologico e militare innescato dalla conquista di vasti territori durante quel conflitto. La STAMPA - Gilles Kepel : " Tre crisi legate fra loro " Kepel scrive : " Il governo Netanyahu rifiuta sia la soluzione dei due Stati sia il congelamento degli insediamenti nei Territori occupati. I palestinesi sono divisi tra Fatah, che governa la parte di Giordania non colonizzata dagli israeliani, e Hamas, che controlla l’intera Striscia di Gaza, ormai devastata. Hamas si rifiuta di riconoscere Israele ma è pronto a far parte di una Olp incaricata di negoziare con lo Stato ebraico. ". Netanyahu e il suo governo non sono contrari alla nascita dello Stato palestinese. Se i palestinesi non hanno un loro Stato lo devono al secco rifiuto opposto dai Paesi arabi nel 1947, a tutte le guerre contro Israele iniziate da allora e alla politica terrorista di Hamas, non di certo al governo Netanyahu. La situazione è difficile e bloccata, ma non per colpa di Israele. Le sue richieste sono semplici e legittime: il riconoscimento come Stato ebraico e la fine del terrorismo palestinese. Per quanto riguarda il blocco degli insediamenti illegali, è sempre stato effettuato. Di recente il governo ne ha smantellato uno in Cisgiordania. Gli altri non sono insediamenti, ma città israeliane. Con la crescita della popolazione è naturale che aumenti il numero di case. Succede così ovunque e non vediamo il motivo di tanta attenzione al riguardo. Ecco l'articolo: Tre assi di crisi strutturano il Medio Oriente contemporaneo: il Levante, con il conflitto israelo-palestinese e le sue propaggini libano-siriane; il Golfo Persico, con gli idrocarburi e gli antagonismi irano-arabi e sunniti-sciiti; la zona AfPak (Afghanistan-Pakistan), dove l’aumento di potere dei taleban minaccia sia le truppe Nato in Afghanistan sia la coesione dello Stato pakistano. Questi tre assi hanno ognuno la sua logica, ma sono anche fortemente intrecciati, ed è questo che costituisce l’identità del Medio Oriente come oggetto problematico complesso del sistema internazionale. Quando il presidente Obama si rivolge al mondo musulmano dal Cairo o il presidente Sarkozy inaugura una base navale francese a Abu Dhabi, è l’intera posta in gioco che va presa in considerazione. La STAMPA - Aldo Baquis : " Netanyahu: ' troppo morbido con l'Iran'. Hamas: ' C'è del buono ' " «È l’inizio di un cambiamento»: questa la sensazione di Hamas, a Gaza, espressa pochi minuti dopo che al Cairo si erano spenti gli echi degli applausi al discorso di Barack Obama. «Il presidente degli Stati Uniti si esprime con toni nuovi, ha finalmente abbandonato la retorica che contraddistingueva il suo predecessore George Bush», hanno concordato compiaciuti i dirigenti locali. La STAMPA - Claudio Gallo : " Per Khamenei : ' Soltanto parole. nessuna novità' " Le parole di Obama ieri non sembravano in cima ai pensieri della gente di Teheran. Nel trentennale della morte dell’Ayatollah Khomeini la città era in festa, non c’erano giornali e la tv trasmetteva quasi soltanto programmi celebrativi. A rispondere al Presidente americano, prima ancora che pronunciasse il suo discorso al Cairo, ci aveva pensato l’Ayatollah Khamenei, il successore di Khomeini. «Non basteranno cento discorsi per cambiare i rapporti con l’Islam», ha detto la Guida Suprema, che sul fronte interno continua con i collaudati slogan antiamericani a sostenere Ahmadinejad nella corsa alle imminenti presidenziali. Il più aperto è stato il candidato riformista Mir Hossein Mousavi, l’unico forse in grado di impensierire Ahmadinejad, che ha apprezzato «il cambiamento di linguaggio», anche se ha chiesto che «alle parole seguano i fatti». Sui commenti pesa la retorica della campagna elettorale, certo alla diplomazia iraniana non sfugge che talvolta anche le parole sono fatti. L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Obama parla al mondo arabo " Tutti noi dobbiamo lavorare per il giorno in cui Gerusalemme “sarà il luogo dove tutti i figli di Abramo potranno mescolarsi in pace”. Il tono messianico ne contraddistingue la retorica oratoria, ma ieri Barack Obama ha avuto parole che faranno discutere per anni soprattutto il mondo arabo. Esortando i regimi dispotici che lo contraddistinguono a dare libertà alle persone, specie di sesso femminile, e ponendo sul piatto della bilancia come primo peso di paragone il riconoscimento del diritto di israele a esistere. Certo poi ha anche affermato che gli Stati Uniti non riconoscono e non riconosceranno i nuovi insediamenti dei cosiddetti settlers israeliani in Cisgiordania, ma il fulcro del discorso non è stato di certo quello. E invece, come ha giustamente rilevato il ministro degli esteri italiano Franco Frattini, alla fine il viaggio del presidente degli Stati Uniti Barack Obama in Medio Oriente segnerà “un tassello fondamentale che farà emergere come lo scontro in atto non è uno scontro tra due civiltà, quella occidentale e quella musulmano-islamica, ma è all'interno del mondo musulmano stesso”. Il discorso era iniziato con queste due affermazioni forti: “il ciclo del sospetto e della discordia deve finire” e “sono venuto qui per cercare un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e gli islamici di tutto il mondo”. Poi ha attaccato tra gli applausi dell’aula magna dell’Università di Al Azhar al Cairo a parlare dei diritti delle donne nel mondo islamico e della democrazia necessaria nei paesi arabi anche se non da indurre con la forza. Poi il primo pezzo forte: “dobbiamo andare avanti e per andare avanti è necessario un rapporto basato sull'interesse e rispetto reciproco, basato sulla verità che America ed Islam non sono esclusive e non hanno bisogno di essere in competizione, anzi si sovrappongono e condividono principi comuni di giustizia, progresso, dignità e tolleranza”. Magari sarà retorica, ma poi l’antifona è risultata più chiara quando ha affrontato il nodo della guerra israelo palestinese. Con queste prime parole a effetto: “tutti noi dobbiamo lavorare per il giorno in cui Gerusalemme sarà il luogo dove tutti i figli di Abramo potranno mescolarsi in pace”. E come sarà possibile tutto ciò? Beh, ad esempio, non con il “minacciare Israele di distruzione, o ripetere vili stereotipi sugli ebrei, che è profondamente sbagliato ed impedisce la realizzazione della pace”. E se l’allusione era diretta ad Ahmadinejad, il concetto era sovrapponibile per hamas e chi ancora oggi pensa solo alla lotta armata. “I palestinesi – dice infatti Obama - devono abbandonare la violenza. La resistenza con la violenza e l'omicidio è sbagliata e non ha successo”. Poi ha fatto i paragoni con la lotta pacifica dei neri d’America per l’emancipazione. Non è mancato l’esplicito richiamo ad hamas che “.. deve porre fine alla violenza, riconoscere i passati accordi e il diritto all'esistenza d'Israele”. Infine i paesi arabi che non devono appropriarsi della questione palestinese in maniera demagogica, Le parole usate sono state durissime: “Il conflitto arabo-israeliano non deve più essere usato per distrarre la gente delle nazioni arabe da altri problemi. Deve invece spingere all'azione per aiutare i palestinesi a sviluppare le istituzioni del loro stato, a riconoscere la legittimità d'Israele e scegliere il progresso invece di concentrarsi in maniera perdente sul passato”. In pratica la sconfessione di mezzo secolo di pan arabismo prima e di pan islamismo poi. Viste le premesse dei giorni scorsi la sorpresa stavolta Obama l’ha fatta proprio agli arabi e agli islamici che si aspettavano parole di fuoco contro lo stato ebraico e si sono invece dovuti accontentare della sconfessione di repertorio dei nuovi insediamenti in Cisgiordania.L'OPINIONE - Michael Sfaradi : " Sembra più vicina la rottura Fra Usa e Israele " Durante la recente visita del Primo Ministro israeliano Bibi Netanyahu a Washington si è capito che il Presidente statunitense Barack Obama ha voglia di cercarsi nuovi alleati, tanto è vero che prima ha reso noto che l´appoggio statunitense alle ragioni di Israele non sarà più automatico, dopo di che è volato in Arabia Saudita per poi recarsi in Egitto, paesi che spingono affinché Israele venga messa all´angolo e faccia concessioni senza contropartita. A Gerusalemme ci si aspettava un cambiamento nella politica estera americana, ma una virata di questo tipo non era stata prevista neanche dai più pessimisti. Ora, che il dado è tratto e il momento non è oggettivamente dei più tranquilli, il governo israeliano si trova a dover fare delle scelte di campo che fino a poco tempo fa erano assolutamente impensabili. Che la rottura sia vicina lo dimostra anche il cambiamento di agenda che Avigdor Liebermann ha dovuto adottare prima del viaggio a Mosca dove ha incontrato il suo omologo russo Sergej Lavrov. Il viaggio, nelle intenzioni iniziali, doveva essere di consultazioni bilaterali, ma poi è diventato di importanza strategica. Sono state affrontate diverse tematiche e si è ampiamente discusso sulla decisione israeliana di non partecipare agli incontri di pace se prima non ci saranno assicurazioni che tutte le parti in causa saranno disposte al riconoscimento dello stato di Israele all´interno di confini certi e difendibili. Questo, di fatto, escluderebbe Hamas da ogni trattativa. Liebermann ha fatto anche delle "prove di trasmissione" al fine di far capire al suo interlocutore che Israele, visto l´andamento delle cose dall´altra parte dell´Atlantico, sarebbe pronta a delle nuove collaborazioni confermando quello che si vociferava dal momento che Netanyahu è tornato in patria, e cioè che lo stato ebraico potrebbe anche aprirsi a nuove alleanze sullo scacchiere strategico mondiale. Per quello che riguarda la minaccia dell´atomica iraniana Liebermann è stato chiaro e durante uno scambio di battute con i giornalisti presenti ha dichiarato: "Ho appena detto al ministro degli esteri che Israele non ha alcuna intenzione di attaccare e distruggere gli impianti nucleari iraniani e che il mondo deve smettere di sperare che sia Israele a risolvere questo problema". Ma non si è fermato qui ed ha anche avvertito che dal mo mento in cui l´Iran riuscirà nel suo intento di possedere l´arma nucleare in Medio Oriente si aprirà una corsa al riarmo atomico con arsenali che saranno impossibili da controllare e che questo porterà ad un´instabilità tale che metterà in pericolo la pace mondiale. Anche se nei prossimi giorni ci saranno gli incontri con il presidente francese Sarkozy e con altre importanti personalità politiche europee, i colloqui di Mosca, in cui Liebermann ha anche incontrato Putin, sono considerati la cartina tornasole di quanto Israele sia lontana dall´amministrazione Obama che continua a vagare, senza meta, alla ricerca di un interlocutore nel mondo arabo. Cosa che, francamente, sembra un vero miraggio. Barack Obama ha recentemente dichiarato che la pace in Medio Oriente con la formula dei "due popoli e due stati" è anche, e soprattutto,nell´interesse degli Stati Uniti. Questo sarà anche vero, ma se pensa di arrivare a dei risultati soddisfacenti e duraturi soffocando politicamente Israele fino a strangolarla, senza far capire al mondo arabo che anche e soprattutto da loro che ci aspettiamo dei passi concreti che portino a far diventare la pace una cosa possibile, il suo tentativo porterà solamente alla perdita dell´unico vero alleato sul bacino=2 0del mediterraneo che non ha mai voltato la faccia a Washington nei momenti di crisi. Questa voglia di cambiamento, in parte dovuta alla crisi economica che sta soffocando il mondo intero e in parte dalla fallimentare politica militare adottata dall´amministrazione precedente, sta facendo sbandare gli Stati Uniti creando confusione ed incertezza in tutti coloro che hanno sempre visto la potenza americana come un faro di libertà e democrazia. La dichiarazione del presidente Obama "Nonsi può esportare la democrazia con la forza" all´arrivo in Arabia Saudita, è suonata come una sinfonia nelle orecchie di tutti quei dittatori che governano i loro popoli con il pugno di ferro. Sul fatto che la democrazia non vada esportata con la forza siamo anche d´accordo, ma l´atteggiamento di resa incondizionata che accompagna certe dichiarazioni è preoccupante. C´è da chiedersi se spingere una democrazia come quella israeliana a pericolose alleanze, e abbracciare dittature come quelle che caratterizzano il mondo arabo dando loro mano libera per continuare impunemente lo scempio di ogni diritto umano sia davvero la nuova frontiera che il presidente statunitense aveva promesso al suo elettorato, e al mondo intero, durante la sua interminabile campagna elettorale*************************************************** Molto favorevoli a Obama, Bernardo Valli e Vittorio Zucconi. Valli, troppo intento a celebrare il discorso del presidente Usa per accorgersi che, di fatto, Obama non ha mai parlato di terrorismo islamico, che ha offeso le donne costrette a portare il velo parlando della libertà di scelta di metterlo o meno, che è stato troppo morbido con l'Iran e il suo programma nucleare aggressivo. LA REPUBBLICA-Bernardo Valli: " L'incontro di civiltà " Le parole pronunciate ieri, al Cairo, dal presidente americano sono un balsamo. Lo sono per chi, seguendo da una vita, con passione, la tragedia mediorientale, le ha attese invano da un rappresentante della superpotenza: per chi le ha invocate spesso, tra critiche e incomprensioni, non esclusi gli insulti, ad ogni guerra o massacro, compiuto in uno dei due campi. Un anziano, molto anziano intellettuale, lacerato dal conflitto israelo-palestinese, essendo da un lato fedele alle sue origini ebraiche e dall´altro sensibile alle ingiustizie cui sono sottoposti i palestinesi, dopo il discorso di Barack Obama mi ha detto con slancio che «valeva la pena vivere abbastanza per ascoltarlo». Per inviare la propria opinione a: Il Giornale, Libero,La Stampa, il Foglio, L'opinione, La Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti. segreteria@ilgiornale.it segreteria@libero-news.eu lettere@ilfoglio.it direttore@lastampa.it diaconale@opinione.it rubrica.lettere@repubblica.it |
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