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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - Libero - La Stampa - L'Opinione - La Repubblica Rassegna Stampa
05.06.2009 Il discorso di Obama non ha incantato tutti. Quotidiani a confronto
Analisi di Fiamma Nirenstein, Paolo Guzzanti, Glauco Maggi, Christian Rocca, A. B. Yehoshua, Gilles Kepel, Dimitri Buffa, Michael Sfaradi, Bernardo Valli

Testata:Il Giornale - Libero - La Stampa - L'Opinione - La Repubblica
Autore: Fiamma Nirenstein - Paolo Guzzanti - Glauco Maggi - A. B. Yehoshua - Gilles Kepel - Christian Rocca - la redazione del Foglio - A. B. Yehoshua - Gilles Kepel - Aldo Baquis - Claudio Gallo - Dimitri Buffa - Michael Sfaradi - Bernardo Valli
Titolo: «Obama parla al mondo arabo - L'incontro di civiltà - La riscoperta dell'America»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 05/06/2009, a pag. 6, il commento di Fiamma Nirenstein dal titolo " Il mondo musulmano non è quello che il presidente Usa dipinge " e quello di Paolo Guzzanti dal titolo " 'Un nuovo inizio con l’islam'. Ma con la carota c’è il bastone ". Da LIBERO, a pag. 18, il commento di Glauco Maggi dal titolo " La guerra ad Allah non c’è stata. Di che pace parla il presidente? " ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'analisi di Christian Rocca dal titolo " Dal Cairo Obama non ripete il “no” alla bomba iraniana. Il suo centro studi di riferimento ci dice perché " e l'articolo dal titolo "  Un ministro israeliano dice parole dure contro Obama prima del richiamo al silenzio di Netanyahu". Dalla STAMPA, in prima pagina, il commento di A. B. Yehoshua dal titolo " L'amico che vorrei a fianco " e quello di Gilles Kepel dal titolo "  Tre crisi legate fra loro " preceduto dal nostro commento. A pag. 3, gli articoli di Aldo Baquis e Claudio Gallo titolati "Netanyahu: ' troppo morbido con l'Iran'. Hamas: ' C'è del buono ' " e " Per Khamenei : ' Soltanto parole. nessuna novità' ". Dall'OPINIONE l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Obama parla al mondo arabo " e quello di Michael Sfaradi dal titolo " Sembra più vicina la rottura Fra Usa e Israele ". Dalla REPUBBLICA, in prima pagina, i commenti di Bernardo Valli e Vittorio Zucconi titolati " L'incontro di civiltà " e " La riscoperta dell'America " preceduti dal nostro commento.
Il MANIFESTO dedica ben cinque pagine (che non riportiamo) alle celebrazioni filoarabe al discorso di Obama. Stessa linea seguita dall'UNITA' con, in testa, un articolo di Luigi Bonanate (che non pubblichiamo) il quale, nel pieno delle sue sviolinate a Obama, non perde occasione per fare  propaganda elettorale italiana. 
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In Homepage il video del discorso di Obama al Cairo

Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Il mondo musulmano non è quello che il presidente Usa dipinge "

Sarebbe bello vivere nel mondo disegnato ieri da Obama al Cairo, ma il senso di realtà suggerisce che non sarà possibile. Tralasciamo le ovvie parole di apprezzamento per la volontà di pace e per il coraggio politico del presidente americano: chi potrebbe negarli. Obama ha tentato al Cairo di creare con la forza della sua magia una svolta epocale, quella in cui non esiste il conflitto fra islam e Occidente. Ne è risultato il ritratto un po’ banale di un giovane presidente buono. Obama immagina il mondo a partire dalla sua autobiografia: non a caso non ha nemmeno citato la parola terrorismo. Il presidente americano si è presentato come la prova vivente della negazione del conflitto di civiltà, un giovane uomo cresciuto senza conflitto fra islam e cristianesimo, il padre e il nonno musulmani, la madre cristiana e bianca, gli Stati Uniti il porto d’arrivo, dove anche l’islam è una componente indispensabile. Obama ha parlato un’ora intera, ma il mondo ha sentito bene solo alcune cose: la prima riguarda il tono apologetico, in fondo abbiamo principi simili, quelli dei diritti umani. Ma non è andata così.
Prima di tutto la storia dei diritti umani è saldamente ancorata all’Europa e agli Usa, non giace anche in qualche anfratto delle satrapie mediorientali pronta a saltare fuori. In secondo luogo la storia delle due culture è sempre stata conflittuale, e mentre le nostre masse lo hanno dimenticato quelle islamiche invece ne fanno la bandiera di ogni giorno, a scuola, in piazza. Non si tratta di fenomeni marginali: lo testimoniano le enormi piazze di Hamas e degli hezbollah, la determinazione dei talebani e di Al Qaida, la laboriosa strategia atomica e terrorista dell’Iran che dal 2005 minaccia prima di tutto gli arabi moderati (per poco Mubarak non veniva deposto da una recente sovversione). Il più grande problema musulmano è la guerra intraislamica, non quella con gli Usa. Gli Usa, come Israele, non sono in guerra con l’islam, ne sono attaccati. Dal ’79, attacco all’ambasciata americana a Teheran, poi Nairobi nel ’98, la Tanzania, giù fino all’11 settembre, l’islam radicale ha attaccato, mentre si creava intorno agli attacchi un consenso di massa.
Obama misura dentro di sé l’equilibrio delle sue componenti e le proietta in un universo pacificato. Fa così anche sul conflitto israelo-palestinese che ha citato prima della questione iraniana, lasciando Israele di stucco: ha ribadito la forza del rapporto con Israele, ma ha anche messo sullo stesso piano il comportamento di due popoli di cui in realtà uno ha offerto molte volte di sgomberare i territori occupati per fare spazio a uno Stato palestinese e l’altro ha fatto del rifiuto la sua bandiera. Ed è difficile immaginare che proprio a Hamas, che fa della distruzione di Israele la sua ragione sociale, la proposta di Obama di due Stati possa suonare realistica. Non lo è stata ieri quando Arafat ha rifiutato tutte le offerte, non lo è stata poco fa quando Abu Mazen ha detto no a Olmert. Oggi che c’è di nuovo? Quanto all’Iran, troppe poche parole ha dedicato Obama a quello che è oggi il Paese più pericoloso del mondo, l’islam più aggressivo e feroce. Forse è proprio la sua inconciliabilità con l’islam obamocentrico che lo ha spinto a dire che il Paese degli ayatollah può farsi la sua energia atomica per usi domestici. Risibile ipotesi. Manca lo sfondo: Obama quando parla della tolleranza islamica percorre luoghi comuni. La sua citazione della Spagna era sbagliata: Cordoba, Granada furono testimoni di eccidi musulmani di ebrei, come anche il Marocco, l’Algeria, la Libia, l’Irak, la Siria, l’Iran, lo Yemen, l’Egitto.Lo scontro con il cristianesimo, poi, è così lungo e profondo che non basterà il viso contrito e deciso di Obama a portare pace. Abbiamo già visto Shimon Peres proclamare ai tempi dell’accordo di Oslo che il Nuovo Medio Oriente era stato realizzato. Ma l’attrattiva dei vantaggi della stabilità non ferma l’aspirazione islamica a primeggiare. Obama ha sbagliato a non farne una promessa all’Egitto: forse solo l’aiuto concreto contro l’estremismo iraniano potrebbe confederare l’islam in un sogno di pace.
www.fiammanirenstein.com

Il GIORNALE - Paolo Guzzanti : " 'Un nuovo inizio con l’islam'. Ma con la carota c’è il bastone  "

L’espressione chiave è «fresh start» che non vuol dire soltanto «nuovo inizio», ma ricominciare una relazione andata a rotoli, per esempio in amore: una coppia di ex amanti in crisi può tentare «a fresh start», una partenza da zero e ciascuno dei due amerà allora anteporre al proprio nome l’aggettivo «new»: «a new Marc», «a new Jackie», sottolineando il cambio di personalità. Così in politica. Ieri il presidente Obama si è presentato all’università del Cairo, nell’Aula Magna dalla quale il governo aveva prudentemente fatto sparire gli studenti, presentandosi di fatto come «the new America», pronta a un «fresh start», ripartendo da zero con il mondo musulmano. Il mondo musulmano con i suoi notabili e intellettuali ascoltava e applaudiva soltanto quei passi in cui Obama dava torto a Israele, ma non quando deprecava la violenza araba e nemmeno quella terrorista dell’11 settembre. Applausi solo all’Obama «che la pensa come noi» e gelo impassibile di fronte alle altre espressioni più complesse con cui il presidente ha dato il via al ciclopico tentativo di rigenerare un legame fra le cosiddette tre religioni del libro riferendosi al Talmud, al Corano e alla Torah, o Bibbia per i cristiani. Questo è piaciuto, e le ovazioni si sono levate altissime e soddisfacenti. Ma non si è mai assistito ad una ovazione bipartisan. E Obama, per far passare negli Stati Uniti la politica del «fresh start», ha un bisogno dannato che il mondo musulmano impari a reagire con uno spirito diverso da quello, pur osannante per certi versi, cui abbiamo assistito ieri al Cairo.
Tutti sappiamo che Obama ha vissuto in Indonesia un periodo musulmano della sua vita infantile grazie al secondo marito della madre. Ieri ha salutato la folla, iniziando il suo discorso, con un fraterno «Salam Aleikum» (la pace sia con voi) a nome del popolo americano e a nome delle comunità musulmane d’America, il che fa sensazione, anche se pochi ricordano che il primo atto politico del presidente W. Bush subito dopo l’11 settembre fu di andare a visitare in segno di pace le più importanti moschee americane e le comunità islamiche degli Stati Uniti.
Obama ieri aveva assunto il suo tono professorale, da intellettuale universitario che concede una «lecture» di alto livello, ben nutrita di citazioni, riferimenti etici, filosofici, storici e religiosi. Un discorso che non si può definire cristiano, né musulmano, né ebreo, ma al tempo stesso di enorme risalto della religione, come va fatto davanti ad una audience islamica che ha i propri cardini civili piantati come radici nel terriccio della religione e che rilutta a riconoscere la benché minima separazione fra religione e legge civile. Quando Obama ha deprecato la «guerra per scelta» («war of choice»), che non è esattamente una guerra «unilaterale» (come ama tradurre la stampa italiana), ha ricevuto il bagno degli applausi che si sono ripetuti quando ha deprecato Guantanamo, le torture e la violazione dei diritti umani. Ha assicurato che non un soldato Usa resterà in Afghanistan quando il terrorismo sarà vinto e non minaccerà più il Pakistan e gli interessi americani, il che ha provocato battimani, anche se si trattava di fatto di una conferma di lunghissima durata.
Ma più che altro Obama ha messo un dito nell’occhio dei due grandi malati: Iran e Medio Oriente. All’Iran ha riconosciuto - «fresh Start» ­ il diritto all’energia atomica, ma a condizione che sia sotto il controllo dell’Onu, e sul Medio Oriente ha confermato il suo brutale (perché espresso apertamente) dissenso con Bibi Netanyahu, primo ministro di Gerusalemme, sugli insediamenti in Cisgiordania e la politica israeliana in genere che non vorrebbe uno Stato palestinese in grado di gestire le proprie frontiere.
Obama si tiene alla larga dal concetto caro ai repubblicani secondo cui la democrazia si esporta se necessario con le armi, rendendo piuttosto omaggio a tradizioni e religioni, ma senza far cenno al costo in termini di dignità umana che possono comportare quando si tratta dell’islam. Ha preferito riferirsi al grande «islam buono e benevolente» pieno di tolleranza che si oppone a quello radicale e guerriero che si sente per definizione in guerra con l’Occidente. La sua apertura a Teheran, dove stanno per svolgersi elezioni che non cambieranno nulla, finora è stata frustrata. E sulla nuova vocazione aperturista di Obama è intervenuto dalle sue caverne Bin Laden con un video in cui lo accusa di razzismo anti islamico, il che dimostrerebbe.

LIBERO - Glauco Maggi : " La guerra ad Allah non c’è stata. Di che pace parla il presidente? "

Gratta gratta, sotto la globale retorica buonista offerta nel discorso di ieri al pubblico del Cairo dal presidente americano si scopre una sola novità, e negativa, rispetto a ciò che Bush aveva sempre detto nei suoi interventi a proposito dei musulmani: la scomparsa della parola “terrore” e la sua sostituzione con “estremismo” nei riferimenti agli assassini di Al Qaeda. Tanto per delegittimare la “guerra al terrore di Bush" in nome della vecchia filosofia del pacifismo, che si applica piuttosto contro i marines, e che spera di esorcizzare la realtà usando scappatoie lessicali. È un gioco pericoloso. In ogni caso non saranno le parole ma le azioni di Obama a definire i rapporti futuri tra l’America e l’Ovest da una parte e le autocrazie mediorentali, le loro propaggini armate e l’opinione pubblica islamica che si nutre di Al Jazeera. Non depone bene, agli occhi di chi vuol vedere, che non ci sia mai stata nel mondo islamico una reazione di massa agli "estremisti" interni: anche se sono i loro correligionari ad ammazzare i musulmani, quelli da odiare sono gli americani. Che l’«Islam è una religione di pace» lo aveva già detto Bush nel 2006, proprio con la stessa frase copiata da Obama a Istanbul un mese fa. E non era la prima volta. In un momento storicamente ben più drammatico dell’attuale, sei giorni dopo l’11 settembre 2001, George W. proclamò al Centro Islamico di Washington: «La faccia del terrore non è la vera fede dell’Islam. Non ha niente a che vedere con l’Islam. Questi terroristi non rappresentano la pace. Rappresentano il male e la guerra». E il 19 settembre 2001 ribadì dalla Casa Bianca, parlando con il presidente della islamica Indonesia: «Sia chiaro che la guerra contro il terrorismo non è guerra contro l’Islam». E ancora qualche giorno dopo Bush ribadì: «Ci sono migliaia di musulmani orgogliosamente americani, e loro sanno che io so che la fede musulmana è basata sulla pace, l’amore e la pietà». Nell’ottobre del 2002 articolò ancora meglio la sua opinione: «L’Islam è una fede vibrante... Noi rispettiamo quella fede. Onoriamo la sua tradizione. Ma i nostri nemici no. I nostri nemici non seguono le grandi tradizioni dell’Islam. Loro hanno dirottato una grande religione».E allora, dov’è tutta questa novità proclamata da Obama che «l’America non è in guerra con l’Islam?». E che bisogna ripartire da zero nei rapporti tra i due mondi? La verità è che la guerra tra il miliardo e rotti di islamici nel mondo e gli americani non c’è mai stata. Ma c’è stata, c’è, e ci sarà la guerra che i terroristi di Al Qaeda e dei gruppi affini hanno dichiarato agli Stati Uniti fin dal 1993 (primo attentato alle Torri Gemelli) e che è poi proseguita con gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington, e i successivi attentati di Londra, di Madrid, di Bali, di Mumbai. E ci sarà l’uso degli “estremisti” interni da parte di dittatori che hanno bisogno dei nemici “Israele&Usa” per stare al potere. Il solo fatto di chiamare «religione di pace» l’Islam, come ha fatto Bush con costanza, non ha rappacificato allora i suoi ”terroristi” e non rappacificherà domani gli "estremisti" di Obama. L’America non solo non ha fatto la guerra ai musulmani, ma li ha difesi musulmani in Bosnia, Kuwait, Afghanistan e Iraq. A proposito della guerra contro Saddam, sull’opposizione alla quale Obama ha basato la sua carriera, il presidente ha perfino dovuto ammettere che «il popolo irakeno sta meglio senza la tirannia di Saddam». Aggiungendo che i fatti in Iraq hanno ricordato il «bisogno di usare la diplomazia per risolvere i nostri problemi quando è possibile». E con quel «quando è possibile» il grande retore si tiene aperte, per fortuna, opzioni bellicose di bushana memoria.

Il FOGLIO - Christian Rocca : "  Dal Cairo Obama non ripete il “no” alla bomba iraniana. Il suo centro studi di riferimento ci dice perché"

Washington. L’America di Barack Obama comincia ad accettare l’idea che l’Iran degli ayatollah islamici potrà dotarsi di tecnologia nucleare. Lo ha detto esplicitamente lo stesso presidente, nel suo discorso di ieri al Cairo, e lo spiegano con autorevolezza esperti e analisti di Washington che influenzano da vicino le sue strategie di sicurezza nazionale. Si tratta di una svolta decisiva nella politica estera americana, se confermata, e nei circoli politici della capitale si dice sia il vero motivo delle crescenti tensioni con il governo israeliano. Obama ovviamente non ha rinunciato a fermare la corsa atomica del regime islamista di Teheran, cerca di aprire una strada diplomatica per contenere i programmi militari iraniani e spera di poter dimostrare al mondo che ha fatto di tutto per agire pacificamente e senza arroganza, qualora gli dovesse servire la solidarietà internazionale per eventuali sanzioni economiche e commerciali. Ma sono scomparsi dalla sua retorica i proclami senza se e senza ma sul no a un Iran nucleare. Fino a un paio di mesi fa, Obama diceva che un Iran atomico sarebbe stato inaccettabile e che, da presidente, avrebbe fatto di tutto per evitare l’incubo di una setta di fanatici religiosi pronta a minacciare l’esistenza di Israele con le armi di distruzione di massa e in grado di passare tecnologia nucleare ai terroristi islamici. Ufficialmente la linea della Casa Bianca è ancora questa, ma prima in un discorso in Turchia, poi due giorni fa in un’intervista alla Bbc e infine ieri al Cairo, Obama ha riconosciuto esplicitamente il diritto dell’Iran a dotarsi di tecnologia nucleare civile, che è secondo gli esperti il punto di non ritorno per poi trasferire il know how sul fronte militare (ammesso che il programma non sia già unico). John Nagl, presidente del Center for a New American Security, il centro studi di Washington che sta fornendo uomini e idee alla strategia di sicurezza nazionale di Obama, ha detto al Foglio che il presidente non può che continuare a sostenere pubblicamente la posizione dell’inaccettabilità del programma nucleare militare iraniano, ma in realtà sa perfettamente che un intervento militare per fermarlo sarebbe un disastro. Così, spiega Nagl, Obama continua a mostrare agli iraniani “il martello” della forza militare americana, ma offre a Teheran “molte carote”, cercando di fargli capire che “il martello israeliano sta già martellando”. La convinzione di Nagl e del gruppo di esperti di sicurezza nazionale del suo centro studi che sono entrati nel cuore dell’apparato strategico militare americano – da Michéle Flournoy che è andata a occupare il ruolo di PaulWolfowitz al Pentagono, fino a Kurt Campbell nominato per occuparsi dell’Asia al dipartimento di Stato – è che un intervento militare si risolverebbe in un disastro e che la soluzione migliore sia quella della deterrenza. Nagl non condivide l’idea che lo stato iraniano sia guidato da una setta messianica incurante delle possibili conseguenze dell’uso dell’arma nucleare: “La deterrenza può funzionare”, dice. “Ahmadinejad è certamente un ideologo”, aggiunge, ma la popolazione iraniana no. “Il solo fatto che Obama parli di dialogo – continua – può già influenzare le elezioni presidenziali iraniane di giugno”. L’alternativa ad Ahmadinejad, spiega Nagl, non si può dire sia una svolta, ma è migliore, è un passo avanti. Nagl non è un pacifista, è un ex ufficiale dell’esercito che ha combattuto in Iraq e che con il generale David Petraeus ha riscritto il manuale anti guerriglia adottato con successo due anni fa: “Sono favorevole all’uso della forza – dice Nagl – ma da militare so che cosa vuol dire”. Il centro studi di John Nagl è considerato l’equivalente obamiano del Project for a new american century degli anni di Bush, tanto è influente in questi mesi. “Sono orgoglioso che dicano questo”, dice Nagl. E spiega che Obama “sta adottando una politica estera capace di trovare un equilibrio tra i valori e i principi ideali dell’America e i suoi più stretti interessi nazionali”. Una via di mezzo tra il tradizionale idealismo liberal che negli ultimi decenni è stato inglobato dalla “chiarezza morale” invocata da Ronald Reagan e George W. Bush e il realismo pragmatico del mondo conservatore che ha trovato dimora accogliente nei quartieri del Partito democratico. Così Obama parla di democrazia e libertà nel mondo islamico, ma non troppo. Invoca un “nuovo inizio”, ma è ospite del più longevo autocrate arabo, Hosni Mubarak, e del centro culturale che ha diffuso le tesi dell’estremismo islamico. Chiede riforme agli autocrati islamici, ma non vincola gli aiuti americani a progressi concreti. Invita gli iraniani al dialogo, ma li accusa di essere i primi sostenitori del terrorismo internazionale. Si batte per un mondo senza testate nucleari, ma si prepara a a gestire un futuro prossimo con gli ayatollah atomici. La sfida di Obama è ambiziosa. Il presidente, spiega Nagl, crede davvero che mostrare al mondo un nuovo atteggiamento, una nuova disponibilità e un nuovo volto possa contribuire ad allentare le tensioni. Il discorso del Cairo, assieme a quello di qualche settimana fa in Turchia, è uno dei pilastri di questa strategia del dialogo, lontana dai toni libertari usati da George W. Bush. In realtà, dice Nagl, c’è una grande continuità tra gli ultimi anni di Bush e questi primi di Obama: “La grande discontinuità – dice – è tra Bush e Bush, soprattutto sul Pakistan. All’inizio l’Amministrazione ha reagito in modo esagerato all’11 settembre e ha commesso parecchi errori, poi ha cominciato a cambiare idea e a correggerli. Obama continua sulla stessa strada, ma ci vorrà molto tempo per mettere a posto tutto”.

Il FOGLIO - "  Un ministro israeliano dice parole dure contro Obama prima del richiamo al silenzio di Netanyahu"

Roma. “Noi israeliani apprezziamo molto l’amicizia con gli Stati Uniti”, ha detto ieri al Foglio un membro influente del governo Netanyahu, il ministro della Scienza Daniel Herschkowitz. “Non vogliamo aprire conflitti, ma siamo delusi perché il presidente Obama, nel suo discorso al Cairo, ignora il fatto che i palestinesi non hanno abbandonato il terrorismo contro lo stato di Israele e contro gli stessi Stati Uniti d’America”. Matematico e rabbino, presidente di Habayit Hayehudi, “La Casa ebraica”, piccolo partito formato nel 2008 sulla base del Partito nazionale religioso, il professor Herschkowitz è stato uno dei primi a saltare sulla sedia, ascoltando Barack Obama al Cairo. Stava visitando un insediamento nei dintorni del monte Hebron e non ha perso tempo per esprimere il suo giudizio: “Obama trascura il fatto che i palestinesi non hanno ancora abbandonato il terrorismo”, ha dichiarato al quotidiano Yediot Ahronot, mentre arrivava la notizia di quattro morti negli scontri tra Hamas e Fatah in Cisgiordania. Intanto, però, un altro membro del governo Netanyahu, come il laburista Avishay Braverman, ministro per gli Affari delle minoranze, dava segni di soddisfazione: “Ha ragione Obama a dire che l’estremismo è il nemico del mondo. La società israeliana deve trovare un modo per far proprio questo sentimento e offrirlo come specchio ai palestinesi. La soluzione dei due stati per i due popoli è per noi un impegno”. Così, per frenare sul nascere le divisioni in seno al governo, una nota del primo ministro annunciava che i membri del gabinetto, dopo esser stati pregati di astenersi da qualsiasi commento, erano riuniti in consultazione dal premier Benjamin Netanyahu. Poco dopo, veniva diramata un’altra nota ufficiale: “Il governo israeliano esprime la speranza che l’importante discorso del presidente Obama al Cairo porterà davvero a una nuova era di riconciliazione tra mondo arabo e musulmano e Israele”. Diplomatichese. Prima, però, il professor Herschkowitz, aveva detto al Foglio cose molto dure: “Apprezzo gli Stati Uniti, ma noi restiamo un paese indipendente e abbiamo il dovere di essere responsabili. La richiesta di Obama di congelare gli insediamenti è immorale e inaccettabile; come facciamo a dire a una giovane coppia di settlers che non devono avere più figli?”. Quanto all’impatto del discorso di Obama sul mondo musulmano, il professor Herschkowitz è parso attendista: “Mi piacerebbe che facilitasse i rapporti, ma soltanto il tempo lo dirà”. Sulla tenuta del governo Netanyhau in preda a tensioni centrifughe, mentre il ministro della difesa Ehud Barak plaudiva a Obama per “il coraggioso appello ai principi universali” e “l’incoraggiamento ai moderati che vogliono la pace”, il ministro della Scienza sperava non ci fossero conseguenze. “Spero soltanto che gli Stati Uniti capiscano che l’unico loro alleato affidabile in medio oriente è Israele. Investire su questa alleanza e mantenerla è importante non soltanto per noi, ma è d’interesse strategico anche per gli Stati Uniti”. Il test fallito Quando poi si è trattato di capire se Obama avesse parlato da realista o da utopista, il giudizio del ministro israeliano è stato chiaro e netto: “Obama è un utopista. Finora i palestinesi non parlano di due stati, ma di uno solo. Non contemplano l’esistenza dello stato di Israele per gli ebrei. Finché i palestinesi non accettano noi ebrei e lo stato ebraico non c’è spazio per i negoziati sulla soluzione di due stati. I palestinesi devono accettare l’esistenza dello stato di Israele, smettere di educare i figli alla violenza, educarli alla pace. Finché questa situazione non cambia, non vedo alcuna possibilità realistica di pace”. E riprendendo l’argomento del polemologo Victor Davis Hanson su Israele come primo test di Obama difensore dei principi e dei valori dell’Occidente: “E’ troppo presto per dirlo”, ha commentato il ministro matematico rabbino e presidente dell’Habayit Hayehudi. “Il vero test in effetti non è il discorso di Obama o il suo giudizio, ma la realtà. E la realtà è che l’Iran desidera eliminare lo stato di Israele, e continua nel tentativo di dotarsi dell’arma nucleare. Perciò parlare di pace come

La STAMPA - A. B. Yehoshua : " L'amico che vorrei a fianco "

Per leggere l'opinione di David Grossman, vedere altra pagina, sotto la testata Repubblica, che ha messo in bocca allo scrittore israeliano una polpetta avvelenata.

Da cosa si riconosce un vero amico? Dal fatto che chi si definisce tale crede e ha fiducia in te, si preoccupa dei tuoi veri bisogni, anche a lungo termine, ti indica onestamente i tuoi errori e cerca di aiutarti a correggerli. Questo è l’amico che vorrei al mio fianco. Non chi approva automaticamente qualunque cosa io faccia, dichiara il suo amore per me e mi accetta così come sono. A partire dalla grande vittoria militare di Israele nel 1967, quando venne respinta la grave minaccia militare rappresentata da Egitto, Siria e Giordania che proclamarono apertamente di volere distruggere lo Stato ebraico e concentrarono grandi eserciti lungo il suo confine, Israele è precipitato in un vortice ideologico e militare innescato dalla conquista di vasti territori durante quel conflitto.
Doveva considerare fin dal principio quelle regioni come merce di scambio e indurre il mondo arabo e i palestinesi a cercare la pace.
E invece Israele - vuoi per sfiducia nei confronti delle vere intenzioni dei suoi nemici e del loro impegno a rispettare fedelmente un’eventuale intesa di pace, vuoi per la sua aspirazione ad annettersi quei territori (soprattutto quelli con un significato storico e religioso) - ha iniziato una politica di insediamenti e creato una realtà difficile da sovvertire.
Tali comunità civili erano, e sono tuttora, irrilevanti per la sicurezza dello Stato ebraico. Al contrario. Poiché ubicate nel cuore della popolazione palestinese sono obiettivo di attacchi terroristici e richiedono speciali misure di difesa e l’impegno di ingenti forze militari in compiti di sorveglianza e pattugliamento. Anche sulle alture del Golan, dove non c’è una presenza siriana, i centri ebraici situati a pochi chilometri da enormi concentrazioni di truppe siriane rappresentano un intralcio poiché, in caso di guerra, l’esercito israeliano si vedrebbe costretto ad evacuarli rapidamente, come è avvenuto nella guerra del Kippur nell’ottobre del 1973.
Gli insediamenti israeliani acuiscono dunque l’odio dei palestinesi verso Israele. Infatti, oltre a occupare le loro terre, a sfruttare le loro risorse idriche e a imporre limiti alla loro libertà di circolazione, essi simboleggiano la volontà dello Stato ebraico di restare, la sua riluttanza a concedere l’indipendenza al popolo palestinese, anche qualora questi ne riconoscesse la legittimità e si mostrasse disposto a una convivenza pacifica.
Israele ha investito grandi risorse finanziarie in quegli insediamenti, spesso ignorando importanti bisogni interni o lo sviluppo di centri abitati entro la linea verde. I coloni, in gran parte sostenitori di movimenti e partiti religiosi-nazionalisti, ostentano sovente un atteggiamento di superiorità nei confronti delle autorità israeliane, pretendono uno status speciale non solo rispetto ai palestinesi ma anche rispetto agli altri cittadini israeliani e, come possiamo renderci conto in questi giorni, c’è chi, fra loro, nemmeno riconosce più l’autorità giuridica dello Stato israeliano.
Ciò che è difficile da accettare, ed è fonte di preoccupazione, è che se quegli insediamenti continueranno ad ampliarsi la soluzione di due Stati per due popoli sarà compromessa e, prima o poi, tra il Giordano e il Mar Mediterraneo si estenderà un unico Stato popolato da due etnie che, in ragione della crescita demografica palestinese, a poco a poco si trasformerà in uno Stato a maggioranza palestinese. Una ricetta sicura per la fine di Israele.
La maggior parte degli israeliani ha ormai compreso tutto ciò eppure, come un tossicodipendente schiavo della droga, non è in grado di dire: basta, abbiamo commesso un errore a cui occorre porre rimedio prima che sia troppo tardi. È vero, quando fu firmato l’accordo di pace con l’Egitto coloni ebrei furono evacuati a forza dai territori del Sinai. E quando la situazione delle comunità civili ebraiche della Striscia di Gaza divenne insopportabile il leader della destra Ariel Sharon sgomberò a forza novemila coloni che vivevano frammisti a un milione e mezzo di palestinesi: un evento traumatico che ha lasciato cicatrici in entrambe le parti. Ma in Cisgiordania vivono 250.000 israeliani e la loro evacuazione potrebbe innescare una guerra civile.
Tutti gli Stati del mondo disapprovano gli insediamenti israeliani sorti dopo la Guerra dei Sei giorni, e fra questi gli Stati Uniti. Eppure, malgrado in passato i governanti a Washington abbiano avuto l’opportunità di far valere la loro influenza, hanno preferito permettere a Israele, Stato alleato e amico, di fare ciò che voleva.
È arrivato il momento della verità ed è un bene che un leader saggio e coraggioso quale Barack Obama che (non ne ho alcun dubbio) ancor prima che il rafforzamento della sua nazione agli occhi del mondo musulmano vede il bene di Israele e la sua sicurezza, proclami: basta, voi non fate che del male a voi stessi, danneggiate il vostro futuro. Pur non credendo a una genuina volontà di pace dei palestinesi, alla loro capacità di tenere a bada le organizzazioni terroristiche e a una sincera rinuncia alla pretesa del diritto del ritorno dei profughi, potete sempre garantire la vostra sicurezza grazie a una presenza militare nei territori palestinesi ed evitare di pregiudicare un’eventuale pace e la creazione di due Stati con ulteriori ampliamenti di insediamenti comunque inutili.
Con un appello tanto diretto e chiaro al governo israeliano non solo il Presidente statunitense ha espresso ciò che gran parte degli israeliani ha nel cuore ma ha dato prova della sua profonda amicizia con lo Stato ebraico.

La STAMPA - Gilles Kepel : " Tre crisi legate fra loro "

Kepel scrive : " Il governo Netanyahu rifiuta sia la soluzione dei due Stati sia il congelamento degli insediamenti nei Territori occupati. I palestinesi sono divisi tra Fatah, che governa la parte di Giordania non colonizzata dagli israeliani, e Hamas, che controlla l’intera Striscia di Gaza, ormai devastata. Hamas si rifiuta di riconoscere Israele ma è pronto a far parte di una Olp incaricata di negoziare con lo Stato ebraico. ". Netanyahu e il suo governo non sono contrari alla nascita dello Stato palestinese. Se i palestinesi non hanno un loro Stato lo devono al secco rifiuto opposto dai Paesi arabi nel 1947, a tutte le guerre contro Israele iniziate da allora e alla politica terrorista di Hamas, non di certo al governo Netanyahu. La situazione è difficile e bloccata, ma non per colpa di Israele. Le sue richieste sono semplici e legittime: il riconoscimento come Stato ebraico e la fine del terrorismo palestinese. Per quanto riguarda il blocco degli insediamenti illegali, è sempre stato effettuato. Di recente il governo ne ha smantellato uno in Cisgiordania. Gli altri non sono insediamenti, ma città israeliane. Con la crescita della popolazione è naturale che aumenti il numero di case. Succede così ovunque e non vediamo il motivo di tanta attenzione al riguardo. Ecco l'articolo:

Tre assi di crisi strutturano il Medio Oriente contemporaneo: il Levante, con il conflitto israelo-palestinese e le sue propaggini libano-siriane; il Golfo Persico, con gli idrocarburi e gli antagonismi irano-arabi e sunniti-sciiti; la zona AfPak (Afghanistan-Pakistan), dove l’aumento di potere dei taleban minaccia sia le truppe Nato in Afghanistan sia la coesione dello Stato pakistano. Questi tre assi hanno ognuno la sua logica, ma sono anche fortemente intrecciati, ed è questo che costituisce l’identità del Medio Oriente come oggetto problematico complesso del sistema internazionale. Quando il presidente Obama si rivolge al mondo musulmano dal Cairo o il presidente Sarkozy inaugura una base navale francese a Abu Dhabi, è l’intera posta in gioco che va presa in considerazione.
L’asse di crisi del Levante è caratterizzato innanzitutto dal doppio blocco israeliano e palestinese.
Il governo Netanyahu rifiuta sia la soluzione dei due Stati sia il congelamento degli insediamenti nei Territori occupati. I palestinesi sono divisi tra Fatah, che governa la parte di Giordania non colonizzata dagli israeliani, e Hamas, che controlla l’intera Striscia di Gaza, ormai devastata. Hamas si rifiuta di riconoscere Israele ma è pronto a far parte di una Olp incaricata di negoziare con lo Stato ebraico. I dirigenti delle due fazioni palestinesi sono così indeboliti che Egitto e Arabia Saudita da un lato, Siria, Qatar e Iran dall’altro si danno battaglia per allungare la loro influenza su di esse. Accade così anche con l’elemento libanese di questo asse di crisi. Il Libano, il cui destino è legato all’evoluzione della situazione in Israele - come ha dimostrato la «guerra dei 33 giorni» dell’estate 2006 - è più che mai attento all’Iran, che sostiene Hezbollah, il più potente partito libanese.
Il nodo libanese
Per contrastare l’influenza di Teheran, Riad sostiene a caro prezzo la corrente «Futuro», il partito sunnita della famiglia Hariri. Così il Libano è diventato uno dei luoghi della cristallizzazione dell’asse di crisi del Golfo Persico - mentre i cristiani, un tempo dominanti, si dividono tra «cristiani sunniti» e «cristiani sciiti». Quanto alla Siria - che ha cominciato una trattativa oggi interrotta con Israele sotto l’egida turca e fatto delle aperture a Francia e Stati Uniti -, essa non può rinunciare a un’alleanza strutturale con l’Iran, Hezbollah e Hamas, salvaguardando il suo eventuale potere di mediazione. Se l’asse di crisi del Levante occupa il davanti della scena mediatica - con i suoi sessant’anni di storia e la dimensione emotiva del problema ebraico e palestinese - ben più problematico è l’asse del Golfo arabo. Gli interessi in gioco nel Golfo sono di importanza incommensurabile rispetto a quelli del Levante: il mondo non può fare a meno degli idrocarburi che ogni giorno attraversano lo Stretto di Hormuz e rappresentano un quinto dei consumi globali. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi sono le due prime economie arabe e i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo restano i principali investitori sul pianeta. La soluzione al caos iracheno e il ritiro delle truppe americane - questioni su cui Obama si gioca la credibilità - si inscrivono nel cuore dell’asse di crisi del Golfo. Ma la scommessa più arrischiata del nuovo Presidente americano è il reinserimento dell’Iran nel sistema regionale.
L’utopia sciito-curda
L’asse di crisi del Golfo nella sua forma presente è il risultato del fallimento del progetto di George W. Bush in Iraq. Gli ideologi neo-con della Casa Bianca speravano di fare dell’Iraq pacificato, filoamericano e governato da una maggioranza sciito-curda senza contenziosi con Israele e fuori dall’Opep, il jolly di un Medio Oriente ridisegnato. A questa chimera si è sostituita, per il presidente Obama, l’imperiosa necessità di trovare un altro vettore per avviare la dinamica politica che porti a una soluzione globale della tripla crisi in Medio Oriente. Questo è il senso della mano tesa all’Iran. L’elezione di Ahmadinejad nel giugno 2005 rappresentava per l’establishment politico iraniano l’occasione per trarre il massimo vantaggio dalla paralisi americana in Iraq, facendo salire il prezzo in proporzione al bisogno degli Stati Uniti di neutralità delle milizie sciite irachene alleate di Teheran, mentre subivano lo choc della guerriglia sunnita. Sul piano simbolico, questa politica ha pagato: Ahmadinejad - come Hassan Nasrallah di Hezbollah - si è fatto il campione dell’antisionismo sulle piazze arabe.
Per un Iran «presentabile»
Ma la situazione economica dell’Iran è disastrosa; all’embargo internazionale che risponde alle rodomontate di Ahmadinejad, alla corruzione e allo sperpero si aggiunge un’inflazione record che impoverisce una popolazione ormai stanca. Se la Guida Khamenei appoggia la rielezione di Ahmadinejad, altre fazioni al potere, tra cui l’ex presidente Rafsanjani, padrino della candidatura del riformista Mousavi, sono più ricettive all’offerta americana, nella quale vedono la conservazione della loro influenza su una repubblica islamica meno ideologica e più pragmatica e dell’egemonia iraniana sul Golfo, al prezzo di un’intesa con Washington - un Iran «presentabile» capace di esercitare pressioni su Hezbollah e Hamas e facilitare la ricerca di compromessi in Libano e sul dossier israelo-palestinese. Una prospettiva del genere avrebbe però bisogno di intensi negoziati e già ora urta contro l’ostilità araba. Parlando al Cairo per rivolgersi al mondo arabo e aggiungendo al viaggio una tappa in Arabia Saudita, Obama ha rassicurato i tradizionali alleati sunniti di Washington e il governo israeliano. La riuscita dell’apertura all’Iran ha bisogno che costoro non si mettano di traverso. Ostacolo inaspettatamente forte si è rivelato poi AfPak. È la Jihad in Afghanistan degli Anni 80, finanziata dagli Usa e dagli Stati arabi del Golfo per battere l’Armata Rossa a offrire un’alternativa antisovietica e filoamericana alla rivoluzione iraniana in piena espansione, che ha incluso questa regione nel Medio Oriente in senso lato. Sono stati Osama bin Laden e Ayman Al Zawahiri, figli dell’Arabia e dell’Egitto passati alla Jihad che hanno unito a modo loro l’Afghanistan, il Golfo Persico e la Palestina con gli Usa nel cataclisma dell’11 Settembre. Per ritorsione, l’America e i suoi alleati hanno distrutto il regime dei taleban ma poi, anziché consolidare la vittoria, per prolungare la «guerra al terrore» hanno trasferito le truppe in Iraq, dove si sono impantanati, mentre i taleban riconquistavano terreno, minacciando il governo afghano e i soldati Nato che ne garantiscono la sicurezza.
Arginare i taleban
La scommessa di Obama sta nel ritornare nell’Afghanistan abbandonato per completare lo sradicamento dei taleban e delle reti di Al Qaeda installate nelle zone tribali alla frontiera pakistana, smorzando l’asse di crisi AfPak per avere le mani libere nel Golfo e nel Levante. Ma gli interventi in territorio pakistano, soprattutto con le incursioni dei droni che dovrebbero individuare i militanti e invece devastano le popolazioni civili, hanno fatto precipitare la rivolta dei gruppi taleban, che traggono vantaggio dalla debolezza del governo civile e dalle divisioni dell’esercito per occupare intere regioni, avvicinarsi alla capitale Islamabad e colpire il Punjab con attentati devastanti. Su scala mediorientale globale, una paralisi degli Stati Uniti e della Nato nella zona Afpak non può che indebolire la capacità di negoziare e agire sugli altri due assi di crisi. Nell’intreccio che struttura la regione, l’esito dei combattimenti nella valle dello Swat paradossalmente incide sul congelamento degli insediamenti in Cisgiordania o sulla fabbricazione delle centrifughe nucleari in Iran.

La STAMPA - Aldo Baquis : " Netanyahu: ' troppo morbido con l'Iran'. Hamas: ' C'è del buono '  "

«È l’inizio di un cambiamento»: questa la sensazione di Hamas, a Gaza, espressa pochi minuti dopo che al Cairo si erano spenti gli echi degli applausi al discorso di Barack Obama. «Il presidente degli Stati Uniti si esprime con toni nuovi, ha finalmente abbandonato la retorica che contraddistingueva il suo predecessore George Bush», hanno concordato compiaciuti i dirigenti locali.
Più tardi, in un comunicato, hanno confermato che a Washington sembra delinearsi ora un nuovo approccio, ma la strada da percorrere - a loro parere - resta lunga. Nel discorso di Obama hanno infatti rintracciato «contraddizioni». Perché, ad esempio, «condanna la violenza palestinese e tace su quella israeliana?». E perché insiste sulla necessità della democratizzazione nel mondo arabo e al tempo stesso chiede a Hamas, pur uscito vincente dalle elezioni politiche del 2006, ulteriori concessioni politiche per essere riconosciuto come legittimo interlocutore?
Anche i dirigenti israeliani sono stati costretti a seguire alla televisione il discorso del presidente statunitense, non essendo stati informati in anticipo del contenuto. Il nervosismo a Gerusalemme era palpabile: dopo aver ordinato ai ministri di non rilasciare alcuna intervista, Benyamin Netanyahu ha poi analizzato per oltre tre ore (con i ministri Begin, Meridor e Yaalon) l’intervento di Obama, trovandolo in sostanza duro forse con Al Qaeda ma debole con l’Iran. Dopo di che il premier ha pubblicato un comunicato di otto righe. Israele, ha promesso Netanyahu, «compirà» ogni sforzo per allargare il cerchio della pace, proteggendo «i propri interessi e la sicurezza nazionale». Il Capo dello Stato Shimon Peres, da parte sua, ha reso omaggio «alla saggezza e al coraggio» manifestati dal presidente degli Stati Uniti.

La STAMPA - Claudio Gallo : " Per Khamenei : ' Soltanto parole. nessuna novità' "

Le parole di Obama ieri non sembravano in cima ai pensieri della gente di Teheran. Nel trentennale della morte dell’Ayatollah Khomeini la città era in festa, non c’erano giornali e la tv trasmetteva quasi soltanto programmi celebrativi. A rispondere al Presidente americano, prima ancora che pronunciasse il suo discorso al Cairo, ci aveva pensato l’Ayatollah Khamenei, il successore di Khomeini. «Non basteranno cento discorsi per cambiare i rapporti con l’Islam», ha detto la Guida Suprema, che sul fronte interno continua con i collaudati slogan antiamericani a sostenere Ahmadinejad nella corsa alle imminenti presidenziali. Il più aperto è stato il candidato riformista Mir Hossein Mousavi, l’unico forse in grado di impensierire Ahmadinejad, che ha apprezzato «il cambiamento di linguaggio», anche se ha chiesto che «alle parole seguano i fatti». Sui commenti pesa la retorica della campagna elettorale, certo alla diplomazia iraniana non sfugge che talvolta anche le parole sono fatti.
In serata i telegiornali hanno trasmesso un breve servizio sulla visita di Obama al Cairo. Un’idea abbastanza completa di che cosa è successo in Egitto se l’è fatta solo chi ha seguito l’evento su internet o sulle tv satellitari: una minoranza robusta nelle grandi città. Informatissimo come sempre è il professor Davoud Hermidas Bavand, 76 anni, esperto di relazioni internazionali ed ex diplomatico al tempo dello Shah, che risponde al telefono nella sua bella casa nella Teheran alta. «È stato un discorso molto positivo - dice -. Parole che indicano un’approfondita conoscenza dell’Islam, un tentativo di portare l’enfasi sugli aspetti più concreti del dialogo. Ha individuato nell’estremismo la principale difficoltà nei rapporti reciproci ed è stato molto intelligente quando ha detto che le questioni dei diritti umani vanno affrontate nel giusto contesto culturale».
«Sull’Iran? Ha ripetuto cose già dette, come il diritto al nucleare civile e l’inaccettabilità del nucleare militare. Ma è stato chiarissimo nell’offrire un vero negoziato. Mi ha colpito che abbia fatto una sorta di equazione tra il colpo di Stato con cui gli americani rovesciarono il premier iraniano Mossadeq e la cattura degli ostaggi americani all’ambasciata di Teheran nel 1979. Come dire: siamo pari, guardiamo avanti. Nessuno Presidente americano l’aveva mai detto».
Emadeddin Baghi, 47 anni, uno dei più celebri dissidenti iraniani che da anni conduce (quando non è rinchiuso nel carcere speciale di Evin a Teheran) la sua solitaria campagna per l’abolizione della pena di morte e i diritti dei carcerati, sostiene il candidato riformista Karroubi. «Qui la gente è troppo presa dalle presidenziali - dice - per badare a Obama. Gli effetti del suo discorso si vedranno dopo il voto, specialmente se ci sarà un cambiamento. Ormai, a sette giorni dalle urne, le posizioni dei candidati sono irrimediabilmente cristallizate». Quindi il discorso di Obama non ha scalfito gli iraniani? Risponde: «Da noi radio e televisione sono statali. Il governo filtra soltanto le notizie che gli fanno comodo. Non esiste una libera circolazione di informazioni. Dal bavaglio si salva soltanto chi ha la televisione satellitare, non certo il popolo».

L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Obama parla al mondo arabo "

Tutti noi dobbiamo lavorare per il giorno in cui Gerusalemme “sarà il luogo dove tutti i figli di Abramo potranno mescolarsi in pace”. Il tono messianico ne contraddistingue la retorica oratoria, ma ieri Barack Obama ha avuto parole che faranno discutere per anni soprattutto il mondo arabo. Esortando i regimi dispotici che lo contraddistinguono a dare libertà alle persone, specie di sesso femminile, e ponendo sul piatto della bilancia come primo peso di paragone il riconoscimento del diritto di israele a esistere. Certo poi ha anche affermato che gli Stati Uniti non riconoscono e non riconosceranno i nuovi insediamenti dei cosiddetti settlers israeliani in Cisgiordania, ma il fulcro del discorso non è stato di certo quello. E invece, come ha giustamente rilevato il ministro degli esteri italiano Franco Frattini, alla fine il viaggio del presidente degli Stati Uniti Barack Obama in Medio Oriente segnerà “un tassello fondamentale che farà emergere come lo scontro in atto non è uno scontro tra due civiltà, quella occidentale e quella musulmano-islamica, ma è all'interno del mondo musulmano stesso”. Il discorso era iniziato con queste due affermazioni forti: “il ciclo del sospetto e della discordia deve finire” e “sono venuto qui per cercare un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e gli islamici di tutto il mondo”. Poi ha attaccato tra gli applausi dell’aula magna dell’Università di Al Azhar al Cairo a parlare dei diritti delle donne nel mondo islamico e della democrazia necessaria nei paesi arabi anche se non da indurre con la forza. Poi il primo pezzo forte: “dobbiamo andare avanti e per andare avanti è necessario un rapporto basato sull'interesse e rispetto reciproco, basato sulla verità che America ed Islam non sono esclusive e non hanno bisogno di essere in competizione, anzi si sovrappongono e condividono principi comuni di giustizia, progresso, dignità e tolleranza”. Magari sarà retorica, ma poi l’antifona è risultata più chiara quando ha affrontato il nodo della guerra israelo palestinese. Con queste prime parole a effetto: “tutti noi dobbiamo lavorare per il giorno in cui Gerusalemme sarà il luogo dove tutti i figli di Abramo potranno mescolarsi in pace”. E come sarà possibile tutto ciò? Beh, ad esempio, non con il “minacciare Israele di distruzione, o ripetere vili stereotipi sugli ebrei, che è profondamente sbagliato ed impedisce la realizzazione della pace”. E se l’allusione era diretta ad Ahmadinejad, il concetto era sovrapponibile per hamas e chi ancora oggi pensa solo alla lotta armata. “I palestinesi – dice infatti Obama - devono abbandonare la violenza. La resistenza con la violenza e l'omicidio è sbagliata e non ha successo”. Poi ha fatto i paragoni con la lotta pacifica dei neri d’America per l’emancipazione. Non è mancato l’esplicito richiamo ad hamas che “.. deve porre fine alla violenza, riconoscere i passati accordi e il diritto all'esistenza d'Israele”. Infine i paesi arabi che non devono appropriarsi della questione palestinese in maniera demagogica, Le parole usate sono state durissime: “Il conflitto arabo-israeliano non deve più essere usato per distrarre la gente delle nazioni arabe da altri problemi. Deve invece spingere all'azione per aiutare i palestinesi a sviluppare le istituzioni del loro stato, a riconoscere la legittimità d'Israele e scegliere il progresso invece di concentrarsi in maniera perdente sul passato”. In pratica la sconfessione di mezzo secolo di pan arabismo prima e di pan islamismo poi. Viste le premesse dei giorni scorsi la sorpresa stavolta Obama l’ha fatta proprio agli arabi e agli islamici che si aspettavano parole di fuoco contro lo stato ebraico e si sono invece dovuti accontentare della sconfessione di repertorio dei nuovi insediamenti in Cisgiordania.

L'OPINIONE - Michael Sfaradi : " Sembra più vicina la rottura Fra Usa e Israele "

Durante la recente visita del Primo Ministro israeliano Bibi Netanyahu a Washington si è capito che il Presidente statunitense Barack Obama ha voglia di cercarsi nuovi alleati, tanto è vero che prima ha reso noto che l´appoggio statunitense alle ragioni di Israele non sarà più automatico, dopo di che è volato in Arabia Saudita per poi recarsi in Egitto, paesi che spingono affinché Israele venga messa all´angolo e faccia concessioni senza contropartita. A Gerusalemme ci si aspettava un cambiamento nella politica estera americana, ma una virata di questo tipo non era stata prevista neanche dai più pessimisti. Ora, che il dado è tratto e il momento non è oggettivamente dei più tranquilli, il governo israeliano si trova a dover fare delle scelte di campo che fino a poco tempo fa erano assolutamente impensabili. Che la rottura sia vicina lo dimostra anche il cambiamento di agenda che Avigdor Liebermann ha dovuto adottare prima del viaggio a Mosca dove ha incontrato il suo omologo russo Sergej Lavrov. Il viaggio, nelle intenzioni iniziali, doveva essere di consultazioni bilaterali, ma poi è diventato di importanza strategica. Sono state affrontate diverse tematiche e si è ampiamente discusso sulla decisione israeliana di non partecipare agli incontri di pace se prima non ci saranno assicurazioni che tutte le parti in causa saranno disposte al riconoscimento dello stato di Israele all´interno di confini certi e difendibili. Questo, di fatto, escluderebbe Hamas da ogni trattativa. Liebermann ha fatto anche delle "prove di trasmissione" al fine di far capire al suo interlocutore che Israele, visto l´andamento delle cose dall´altra parte dell´Atlantico, sarebbe pronta a delle nuove collaborazioni confermando quello che si vociferava dal momento che Netanyahu è tornato in patria, e cioè che lo stato ebraico potrebbe anche aprirsi a nuove alleanze sullo scacchiere strategico mondiale. Per quello che riguarda la minaccia dell´atomica iraniana Liebermann è stato chiaro e durante uno scambio di battute con i giornalisti presenti ha dichiarato: "Ho appena detto al ministro degli esteri che Israele non ha alcuna intenzione di attaccare e distruggere gli impianti nucleari iraniani e che il mondo deve smettere di sperare che sia Israele a risolvere questo problema". Ma non si è fermato qui ed ha anche avvertito che dal mo mento in cui l´Iran riuscirà nel suo intento di possedere l´arma nucleare in Medio Oriente si aprirà una corsa al riarmo atomico con arsenali che saranno impossibili da controllare e che questo porterà ad un´instabilità tale che metterà in pericolo la pace mondiale. Anche se nei prossimi giorni ci saranno gli incontri con il presidente francese Sarkozy e con altre importanti personalità politiche europee, i colloqui di Mosca, in cui Liebermann ha anche incontrato Putin, sono considerati la cartina tornasole di quanto Israele sia lontana dall´amministrazione Obama che continua a vagare, senza meta, alla ricerca di un interlocutore nel mondo arabo. Cosa che, francamente, sembra un vero miraggio. Barack Obama ha recentemente dichiarato che la pace in Medio Oriente con la formula dei "due popoli e due stati" è anche, e soprattutto,nell´interesse degli Stati Uniti. Questo sarà anche vero, ma se pensa di arrivare a dei risultati soddisfacenti e duraturi soffocando politicamente Israele fino a strangolarla, senza far capire al mondo arabo che anche e soprattutto da loro che ci aspettiamo dei passi concreti che portino a far diventare la pace una cosa possibile, il suo tentativo porterà solamente alla perdita dell´unico vero alleato sul bacino=2 0del mediterraneo che non ha mai voltato la faccia a Washington nei momenti di crisi. Questa voglia di cambiamento, in parte dovuta alla crisi economica che sta soffocando il mondo intero e in parte dalla fallimentare politica militare adottata dall´amministrazione precedente, sta facendo sbandare gli Stati Uniti creando confusione ed incertezza in tutti coloro che hanno sempre visto la potenza americana come un faro di libertà e democrazia. La dichiarazione del presidente Obama "Nonsi può esportare la democrazia con la forza" all´arrivo in Arabia Saudita, è suonata come una sinfonia nelle orecchie di tutti quei dittatori che governano i loro popoli con il pugno di ferro. Sul fatto che la democrazia non vada esportata con la forza siamo anche d´accordo, ma l´atteggiamento di resa incondizionata che accompagna certe dichiarazioni è preoccupante. C´è da chiedersi se spingere una democrazia come quella israeliana a pericolose alleanze, e abbracciare dittature come quelle che caratterizzano il mondo arabo dando loro mano libera per continuare impunemente lo scempio di ogni diritto umano sia davvero la nuova frontiera che il presidente statunitense aveva promesso al suo elettorato, e al mondo intero, durante la sua interminabile campagna elettorale

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Molto favorevoli a Obama, Bernardo Valli e Vittorio Zucconi. Valli, troppo intento a celebrare il discorso del presidente Usa per accorgersi che, di fatto, Obama non ha mai parlato di terrorismo islamico, che ha offeso le donne costrette a portare il velo parlando della libertà di scelta di metterlo o meno, che è stato troppo morbido con l'Iran e il suo programma nucleare aggressivo.
Definire Bush come "crociato" perchè ha intrapreso guerre in difesa dell'occidente e della democrazia è disonesto. Per altro, lo stesso Barack Obama continua a intraprenderle. Il suo impegno in Afghanistan e Pakistan contro i talebani ne è la prova. Perchè nessuno protesta?
L'articolo di Zucconi, invece, è una celebrazione di Obama paragonato ai suoi predecessori, visti tutti in chiave negativa (specialmente per quanto riguarda George Bush. Non ha importanza se anche Obama ha continuto delle guerre contro Paesi musulmani e contro il terrorismo. Ciò che interessa è che la parola "terrorismo" sia scomparsa dai discorsi del presidente Usa). Ecco l'articolo di Bernardo Valli:

LA REPUBBLICA-Bernardo Valli: " L'incontro di civiltà "

Le parole pronunciate ieri, al Cairo, dal presidente americano sono un balsamo. Lo sono per chi, seguendo da una vita, con passione, la tragedia mediorientale, le ha attese invano da un rappresentante della superpotenza: per chi le ha invocate spesso, tra critiche e incomprensioni, non esclusi gli insulti, ad ogni guerra o massacro, compiuto in uno dei due campi. Un anziano, molto anziano intellettuale, lacerato dal conflitto israelo-palestinese, essendo da un lato fedele alle sue origini ebraiche e dall´altro sensibile alle ingiustizie cui sono sottoposti i palestinesi, dopo il discorso di Barack Obama mi ha detto con slancio che «valeva la pena vivere abbastanza per ascoltarlo».
Altri, a Gerusalemme, animati da sentimenti meno torturati, più schietti, radicali, hanno subito il discorso del Cairo come uno schiaffo. Hanno detto che Obama crede alle bugie arabe e non alla verità israeliana. Il governo, dando per scontate le divergenze con la Casa Bianca, ha apprezzato diplomaticamente il desiderio di pace, e ha aggiunto che però Israele tiene anzitutto alla propria sicurezza.
In Palestina hanno esultato per ricadere poi nello scetticismo di sempre, nell´attesa di fatti concreti.
Al di là delle contrastanti emozioni immediate, il discorso di Obama è una netta rottura col passato. Non solo politica. Anche culturale. Lo stile, il linguaggio è cambiato. Pur essendo in questa stagione più diffidente che ricettivo, il mondo musulmano non può non averlo avvertito. I fatti non dovrebbero tardare troppo a dare consistenza alle impressioni suscitate da Obama. Per riallacciarsi a qualcosa di simile bisogna ritornare all´immagine di Clinton, che, nei primi anni Novanta, sullo sfondo della Casa Bianca, assiste alla stretta di mano tra Rabin e Arafat. Ci fu poi molto sangue versato e tante delusioni.
Quello di Obama è comunque un disegno strategico più ampio. Più audace. Più ambizioso. Riguarda l´intero mondo musulmano, al quale il presidente, che cita Jefferson, si chiama Hussein e cita il Corano, offre un «nuovo inizio» per affrontare insieme l´estremismo violento e i richiami all´odio religioso. L´invito non si limita all´emisfero arabo; anche se il conflitto israelo-palestinese è ritenuto un nodo decisivo, da sciogliere se si vuole dar vita a un´altra epoca, rispetto a quella di Bush jr. Un texano che parlava di crociate e agiva come un crociato accendendo un odio senza precedenti nei confronti dell´America, e di riflesso dell´Occidente.
Non si tratta di una rottura unicamente simbolica. È vero, Barack Obama non ha annunciato misure concrete. Questo non significa che le sue parole siano state soltanto una accorata ed elegante orazione propiziatrice. Non molto di più. È sbagliato giudicare il suo discorso un esercizio strappacuori, retorico, di cui è capace un oratore sperimentato come lui. Ci vuol altro per dissipare l´avvelenata, diffusa idea stando alla quale è in corso una inevitabile guerra di civiltà tra l´Islam e l´Occidente. Il discorso del Cairo non è certo bastato. Era tuttavia troppo impaziente chi si attendeva date e appuntamenti, scadenze e proposte; e si chiede adesso, non senza sufficienza, quando si passerà agli atti.
È già un gesto esplicito, che equivale a un atto politico incisivo, l´avere detto, nella più importante capitale araba, che gli israeliani devono riconoscere anche ai palestinesi il diritto di esistere. Diritto ritenuto giusto per Israele. E che questo implica la creazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato di Israele. E, ancora, che gli Stati Uniti non considerano legittime le continue installazioni di colonie israeliane in Palestina. Obama ha anche parlato delle «umiliazioni quotidiane - grandi e piccole - dovute all´occupazione». Non sono propositi nuovi.
Obama li ha tenuti a quattrocchi al primo ministro Netanyahu, di recente in visita a Washington. Ripetuti davanti all´intero mondo musulmano in ascolto assumono tuttavia un diverso valore.
Suonano come un fermo richiamo al governo di Gerusalemme. Un governo conservatore con una forte presenza di estrema destra.
Il richiamo di Obama è senz´altro condiviso, o addirittura suggerito, dai suoi stretti collaboratori alla Casa Bianca. In particolare da Rahm Emanuel, capo gabinetto del presidente, e suo principale consigliere. E va ricordato che Emanuel ha servito nell´esercito israeliano, possiede un doppio passaporto, uno americano e uno israeliano, ed è notoriamente molto religioso, come il resto della sua famiglia. Egli non ispira certo idee anti israeliane al presidente. Ma considera evidentemente che la linea politica dell´attuale governo di Gerusalemme non porti il Paese sulla giusta strada, rifiutando tra l´altro l´idea di due Stati e l´impegno a non incrementare le colonie. Le parole in favore dei palestinesi sono state precedute da un´inequivocabile conferma dell´«indissolubile legame» che unisce Israele e gli Stati Uniti, da un ricordo dell´Olocausto e da una ferma condanna del negazionismo. E gli estremisti palestinesi, in particolare quelli di Hamas, sono stati invitati a riconoscere lo Stato ebraico.
Obama è stato via via sferzante ma non imperiale. Fermo, ma senza l´arroganza del predecessore. Un discorso rivolto all´Islam nel suo insieme, a un miliardo e mezzo di uomini e donne dispersi ormai in tutti i continenti, è un esercizio che richiede un grande equilibrio: un´attenzione adeguata a un´ambizione che tende a riconciliare la superpotenza con quel mondo, dove è impigliata in almeno tre conflitti in corso o latenti: Afghanistan, Iraq, Pakistan. Con sullo sfondo crisi che vanno dal Libano alla Palestina. Senza contare l´Iran, candidato al nucleare.
La strategia di Obama ha tra i suoi principali obiettivi proprio l´avvio di un dialogo con l´Iran. Questo non infastidisce soltanto l´Israele di Netanyahu. Il quale considera la minaccia nucleare di Teheran un problema prioritario rispetto a quello palestinese. I Paesi musulmani sunniti, quali l´Arabia Saudita e l´Egitto, non nascondono la loro preoccupazione per i progetti atomici iraniani, i quali accompagnano l´ascesa degli sciiti, avversari nella religione e nemici nella storia, diventati i principali alleati di movimenti integralisti come gli hezbollah libanesi e i palestinesi di Hamas. E con una forte influenza nell´Iraq a maggioranza sciita. Barack Obama è stato rassicurante. Ha spiegato che lo sperato dialogo con la Repubblica islamica non significa accettare che essa sia dotata di armi nucleari.
Con Obama, gli Stati Uniti cercano di uscire il più possibile dalla mischia, per diventare arbitri autorevoli e credibili.

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