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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Repubblica-La Stampa-Corriere della Sera-Libero-Il Giornale Rassegna Stampa
14.05.2009 Viaggio di B.-XVI, rassegna di cronache e commenti
Prevalgono gli applausi, anche il Papa le ha cantate a Israele. con amici così, chi ha più bisogno di nemici ?

Testata:La Repubblica-La Stampa-Corriere della Sera-Libero-Il Giornale
Autore: Marco Politi-Giacomo Galeazzi-Francesco Battistini-Elena Loewenthal-Caterina Maniaci-Fausto Biloslavo-Andrea Tornielli
Titolo: «Le dichiarazioni politiche del Papa»

Le dichiarazioni politiche del Papa superano di gran lunga le cronache, sui quotidiani di oggi, 14/05/2009. L'unica differenza che li distingue è il tentativo di sminuirne la gravità sui giornali più vicini alla politica vaticana,  senza esserne diretta emanazione,come LIBERO, IL GIORNALE, IL FOGLIO, più attenti al significato pastorale del viaggio. Leggendoli, vi abbiamo trovato anche un certo imbarazzo, difficile definire pastorale un atteggiamento da pura Eurabia, come scrive oggi nella sua cartolina Ugo Volli. Non sono da meno, tra quelli che un tempo si sarebbero definiti " indipendenti", STAMPA e CORRIERE della SERA, ma anche REPUBBLICA, che indipendente non è mai stata, dà lo stesso taglio. Potremmo scrivere che l'attacco alla politica israeliana del Papa viene visto in modo positivo da quasi tutti. Riprendiamo cronache e commenti come segue:

LA REPUBBLICA-Marco Politi: " Solidarietà a Abu Mazen, avete diritto ad uno Stato"

BETLEMME - Dieci ore in terra palestinese hanno mostrato Benedetto XVI determinato a chiedere la nascita dello stato di Palestina e la fine della muraglia che scava un abisso di odio tra i due popoli della Terrasanta. A Betlemme Ratzinger è apparso un leader spirituale e religioso, che incita alla pace, al perdono, alla riconciliazione, ma anche un leader consapevole del suo ruolo geopolitico.
La congiuntura internazionale lo ha spinto ad alzare i toni. La Santa Sede ha colto perfettamente - e condivide - la strategia imboccata dal presidente Obama e favorita dal progetto di pace saudita che la Lega araba sottoscrive. Si tratta di rilanciare i negoziati per giungere in tempi non lunghi ad un accordo globale, che dia sicurezza ad Israele e uno stato ai palestinesi. A Washington non piacciono le ipotesi fumose (che circolano in certi ambienti israeliani) di una federazione giordano-palestinese, con pezzi di Sinai che l´Egitto dovrebbe fornire. Progetti per sprecare tempo. Servono, scrive l´Osservatore Romano, «iniziative forti, coraggiose, creative».
In questo contesto Benedetto XVI sceglie di inserirsi con decisione. Nel sottofondo c´è anche un elemento personale. Un tedesco sa cos´è il Muro. E a Betlemme, pur con l´abituale tono pacato, Joseph Ratzinger ha lasciato vibrare la sua anima. Partendo dopo l´incontro riservato con Abu Mazen, ha profetizzato la caduta della barriera. Perché «i muri possono essere abbattuti». Significativa la data: 13 maggio 2009. Vent´anni fa crollava il Muro di Berlino.
La barriera si è parata dinanzi a Ratzinger improvvisamente ieri mattina, venendo da Gerusalemme. Un serpente inquietante snodato tra gli ulivi. Il papa ha attraversato una grande porta d´acciaio. Il Muro stava lì. Cemento grigio, liscio, implacabile. Ha protetto la popolazione israeliana dai terroristi, ma entra in più punti nel territorio palestinese, ingoiando campi e uliveti, rafforzando gli insediamenti illegali dei coloni. «Ho visto il muro - racconterà più tardi - che costeggia il campo (profughi) e sovrasta gran parte di Betlemme, il muro che penetra nei vostri territori separando i vicini e le famiglie». Di corsa l´auto papale ha sfiorato una porzione di cemento su cui - dal lato palestinese - si staglia in lettere cubitali «Ich bin ein Berliner». E´ la frase che Kennedy pronunciò quando nel 1963 arrivò nella Berlino divisa e proclamò: «Io sono un berlinese».
Fin dal primo istante il pontefice è stato netto. «La Santa Sede - ha assicurato ad Abu Mazen - appoggia il diritto del suo popolo ad una sovrana patria palestinese». Entro confini internazionalmente riconosciuti e in pace con i vicini. «Nella terra dei vostri antenati», ha soggiunto. Come per dire che se gli ebrei in Terrasanta sono abitanti da tempi antichi, anche i palestinesi hanno pari diritti per le loro millenarie radici. Abu Mazen ha parlato con toni misurati. Gerusalemme, ha ricordato, è capitale eterna anche per i palestinesi. «Puntiamo su un cammino di pace - ha sottolineato - basato su uno stato palestinese accanto a Israele, in sicurezza e stabilità. Con un´onesta soluzione del problema dei profughi». Ratzinger ha replicato: «Chiedo alla comunità internazionale di usare la sua influenza in favore di una soluzione». Comunque il pontefice è stato fermissimo verso il fenomeno terroristico. «Abbiate il coraggio - ha dichiarato - di resistere ad ogni tentazione di ricorrere ad atti di violenza e di terrorismo».
E´ stata una giornata studiata attentamente. Peres aveva presentato al Papa i genitori del soldato israeliano Shalit, catturato da Hamas? A Betlemme Ratzinger ha incontrato i genitori (una coppia musulmana e una cristiana) di prigionieri nelle carceri israeliane.
Alla messa nella piazza della Mangiatoia, dove cinquemila fedeli lo hanno accolto urlando a squarciagola in italiano «Benedetto- Benvenuto», il pontefice ha voluto espressamente ricordare Gaza. Si è rivolto con un «abbraccio» ai cattolici della «martoriata» Striscia, invitando a pregare per i bimbi orfani o morti. E con forza si è appellato affinché «l´embargo sia presto tolto». Anche qui pensava già di parlare della «visione penosa del muro di sicurezza». Poi, alla vigilia, ha rielaborato il discorso cancellando il passo. Per non strafare.

LA REPUBBLICA-(a.s.): " Serve un'intesa sui confini" intervista ad A.B.Yehoshua.

GERUSALEMME - Abraham Yehoshua, sembra che il pubblico israeliano non abbia provato molta simpatia per il Papa nel corso di questa visita. Si associa a questa insoddisfazione?
«Sembra che l´inflazione di visite di capi di Stato stia diventando una noia e non ne siamo più eccitati. Dopo la guerra a Gaza sono venuti sei leader dei sei più importanti paesi europei, e non mi sembra che ci fosse nemmeno una fotografia della cena su Haaretz».
Ma stavolta c´era un´attesa specifica legata ad alcuni aspetti del pontificato di Benedetto XVI che avevano suscitato polemica e risentimento nella comunità ebraica e qui in Israele.
«Che io ricordi, la grande eccitazione ci fu per la visita di Giovanni Paolo II, perché lui era davvero eccezionale nel modo di comunicare con il pubblico».
Lei ha scritto che si aspettava tre cose da questa visita, ma la più importante era la prima, il discorso del papa a Yad Vashem.
«Premetto che non mi riferivo alla sua biografia: è stupido da parte della stampa israeliana pensare o affermare che se è stato nella Hitlerjugend... non è importante, come non sono importanti né la sua personalità né la biografia. La cosa importante era fare una dichiarazione forte (o esprimere una presa di posizione) in nome della Chiesa, perché il nazismo, il fascismo, l´olocausto sono stati fenomeni collegati all´umanità in generale».
Intende dire una dichiarazione sulla responsabilità della Chiesa?
«Penso alla debolezza morale della Chiesa nei confronti di questa ondata di malvagità, di violenza, di arbitrio, di assassinio generata dal nazi-fascismo... Questo è stato il vero fallimento della Chiesa. Penso che Gesù stesso sarebbe stato il maggior antifascista o antinazista, se fosse vissuto in quel periodo. Il Papa è nella terra di Gesù e sa perfettamente che cosa era la dottrina di Gesù e la sua missione. Gesù sarebbe stato il peggior nemico di ciò che è successo nel periodo nazista, il nemico di quella tirannia».
Ma il Papa questo non lo ha detto.
«No. Non l´ha detto».
Lei pensa, quindi, che ci sia ancora diffidenza degli israeliani nei confronti di papa Benedetto XVI?
«Sì, ma personalmente non condivido la sensazione che non abbia sottolineato abbastanza la parte ebraica. Era lì non solo per esprimere il suo dispiacere personale, era lì in una posizione più alta, nell´ambito della Chiesa, ed ha usato il luogo, Yad Vashem, che ricorda uno dei maggiori orrori perpetrati dall´uomo, per elevarlo alla missione di responsabilità umana della Chiesa».
Visitando il campo profughi di Al Aida Benedetto XVI ha criticato il muro...
«Il muro è stato eretto durante la II intifada per fermare i kamikaze. Ma non è questo il punto. Il punto non è criticare gli insediamenti, e lei sa cosa ne pensi, o le decine di avamposti che non vengono smantellati. Il problema è trovare un´intesa sui confini. Ma su questo credo che il Papa possa fare ben poco. Immagino che Obama possa fare di più».

LA STAMPA-Giacomo Galeazzi: " Il Papa a Betlemme, i muri si abbattono"

«Soffro per Gaza, basta con l’embargo e la tragedia del muro di divisione. No alla tentazione del terrorismo, sì a uno Stato palestinese sovrano». Anche se ora «sembra un obiettivo lontano», il Papa difende «il diritto del popolo palestinese a una patria sovrana nella terra dei propri antenati». Dalla piazza della Mangiatoia, davanti a 10 mila fedeli arrivati da Gerusalemme (definita ieri da Abu Mazen «capitale eterna della Palestina»), da Gaza e da tutto il Medio Oriente malgrado gli ossessivi controlli per passare il Muro, Benedetto XVI chiede per i palestinesi uno Stato «sicuro, in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti», perché «non c’è pace senza giustizia, né giustizia senza perdono». Nel piazzale del palazzo presidenziale, il Papa indica «la via della riconciliazione contro le azioni sterili e lo stallo della paura», reclama che i «gravi problemi di sicurezza in Israele e nei Territori vengano presto alleggeriti così da permettere una maggiore libertà di movimento, per i contatti tra familiari e per l’accesso ai luoghi santi».
Poi nel pomeriggio, la tappa al campo profughi di Aida per solidarizzare con «le famiglie rimaste senza casa» e ammonire che «una coesistenza giusta e pacifica fra i popoli del Medio Oriente è possibile solo con uno spirito di cooperazione e mutuo rispetto, in cui i diritti e la dignità di tutti siano riconosciuti e rispettati». I bambini del campo ballano per lui con in mano le chiavi, simbolo del desiderio di tornare nelle loro case e recitano poesie sul «dramma di chi ha perso tutto» Il capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat ringrazia Benedetto XVI dell’«appello per la fine dell’occupazione dell’ingiustizia». Il Papa sprona la comunità internazionale a «usare la sua influenza» per una soluzione del conflitto israelo-palestinese. All’ospedale pediatrico Caritas, l’unico nei Territori, si commuove prendendo in braccio un neonato prematuro. Poi, come temuto dalle autorità israeliane, critica «il muro che si introduce nei Territori, separando i vicini, dividendo le famiglie, nasconde molta parte di Betlemme». Con un monito: «Anche se i muri possono essere facilmente costruiti, non durano per sempre. Possono essere abbattuti, rimuovendo le barriere dei cuori».
Benedetto XVI, mentre attraversa in papa-mobile la misera disperazione di Aida, ai giovani che lo acclamano indirizza parole accorate: «Ora vivete in condizioni precarie e difficili, con poche opportunità di occupazione. Vi sentite spesso frustrati e le vostre giuste aspirazioni a una patria permanente, ad uno Stato Palestinese indipendente, restano incompiute. Vi sentite intrappolati in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue». Guardando il Muro che le autorità israeliane volevano escludere dalle inquadrature delle tv mondiali, scuote la testa e lo definisce l’emblema del «punto morto dei rapporti tra israeliani e palestinesi». Quindi cita San Francesco: «Dove c’è odio io porti amore, dove l’offesa il perdono, dove la tenebra la luce». E assicura: «Il Papa è con voi».
Il momento più atteso arriva quando, durante l’omelia, il Pontefice si rivolge «in maniera speciale ai pellegrini provenienti dalla martoriata Gaza a motivo della guerra» (appena 48 i permessi concessi dal governo Netanyahu) e chiede a Israele di «togliere presto l’embargo» seguito alla vittoria elettorale di Hamas. La cittadina della Natività è stata ripulita e decorata con bandiere nazionali e poster di benvenuto, dove l’immagine del Papa è accompagnata da messaggi di saluto in arabo.
È saltato, per il no israeliano, il progetto di realizzare un palco a ridosso del Muro che corre vicino al campo profughi, il corteo papale è passato tuttavia a tiro di telecamere della controversa barriera. L’apparato dell’Anp (coordinato neppure tanto di nascosto con quello d’Israele) ha blindato Betlemme come mai prima d’ora. Minacce specifiche non se ne segnalavano, ma gruppetti di attivisti islamici radicali si erano fatti vivi martedì con volantini ostili al Papa. Una decina sono stati fermati proprio dalla polizia israeliana in varco di Gerusalemme Est.
Il piano di Obama per pacificare il Medio Oriente non sarebbe altro che «una resa totale degli arabi allo stato di Israele». È quanto sostiene il quotidiano arabo «Al Quds al Arabi» che sembra dare il via alle prime critiche al Presidente atteso al Cairo per il 4 giugno. Titolando: «Il piatto preparato da Obama sta cuocendo gli arabi», il direttore boccia l’iniziativa Usa definendola «molto peggiore di quella di Camp David» .

LA STAMPA-Safwat al-Kahlout:" La sofferenza è a Gaza, perchè non ci è andato ?"

La candida papamobile di Bendetto XVI ha da poco lasciato il polveroso campo profughi palestinese di Aida, a Betlemme, e in Cisgiordania la emozione per la visita straordinaria è tangibile. Per la intera giornata le televisioni hanno trasmesso continui aggiornamenti sull’evento e nei caffè la gente si attarda a commentarlo. «Sono davvero felice che si sia recato ad Aida, che abbia potuto constatare di persona come vivono i profughi. Come se non bastasse la espulsione dalle loro terre di 61 anni fa, sono costretti ad accettare anche la costante presenza a ridosso delle loro case di quello che noi consideriamo il “Muro dell’Apartheid”. Una sofferenza che si aggiunge a un’altra sofferenza».
Chi parla è il parlamentare Mustafa Barghuti (55 anni), segretario del piccolo partito di «Iniziativa nazionale palestinese». Una voce rispettata nei Territori perché, in caso di necessità, sa criticare senza peli sulla lingua sia l’Anp di Abu Mazen sia Hamas. In Benedetto XVI, dice, vede «una figura religiosa di primo piano».
Come giudica il discorso di Papa Benedetto XVI a Betlemme?
«È stato senz’altro positivo, anche se mi attendevo qualcosa in più. A mio parere avrebbe dovuto denunciare l’occupazione militare, l’aggressione violenta che gli israeliani praticano contro di noi. Alla base di ogni religione deve esserci la giustizia: forse avrebbe dovuto ribadire in maniera più netta i diritti dei palestinesi».
Come vede l’appello ai giovani palestinesi affinché rinuncino alla tentazione della violenza e al terrorismo?
«Mah, il popolo palestinese non è certo un popolo terrorista. È semmai un popolo sottoposto da anni a una grave ingiustizia. I suoi tentativi di scrollarsi di dosso l’occupazione non possono essere definiti terrorismo. Ci sono diversi metodi per lottare contro l’occupazione: il nostro movimento, per esempio, è un fautore della resistenza non violenta. Il terrorismo vero va visto nella occupazione israeliana, nei massacri di civili, nella espropriazione di terre altrui».
Con la visita di Benedetto XVI alla Cupola della Roccia, ospite del Mufti di Gerusalemme, può dirsi adesso superata la polemica innescata dalla sua lezione su sull’Islam all’università tedesca di Ratisbona ?
«Quella lezione ha davvero provocato grande emozione fra i musulmani. Penso che egli avrebbe dovuto trovare un modo delicato per riparare l’effetto delle sue parole. Resta ancora oggi del risentimento fra quanti ritengono che si sia mancato di rispetto verso la nostra religione, verso il nostro Profeta».
Al termine di questa giornata di Betlemme, pensa che il Papa potrebbe fare ancora qualcosa di più per favorire la pace in Medio Oriente?
«Forse doveva dire che da oggi deve cessare l’occupazione israeliana. Che Israele deve ritirarsi, che il colonialismo non può essere accettato, che i massacri devono finire. Forse doveva raggiungere Gaza, vederne le sofferenze, l’assedio».
Il presidente dell’Anp Abu Mazen si accinge ad incontrare questo mese a Washington il presidente Barack Obama. Che attese ci sono a Ramallah?
«Nessuno sa cosa gli Stati Uniti possano offrire ad Abu Mazen. Certo non potranno temporeggiare molto di fronte alle posizioni intransigenti del premier israeliano Benyamin Netanyahu (che oggi incontrerà il Pontefice a Nazareth, la più grande città “araba” di Israele, ndr) che si oppone alla soluzione dei due Stati, alla spartizione di Gerusalemme e alla risoluzione della questione dei profughi. Per gli Stati Uniti sarà questa una opportunità per dimostrare se sono davvero seri, per verificare se sono pronti davvero ad esercitare pressioni su Israele.
Però in casa palestinese ci sono lacerazioni gravi. Abu Mazen sembra in procinto di costituire adesso un nuovo governo a Ramallah, senza l’ingombrante presenza di Hamas...
«Il mio consiglio al presidente Abu Mazen è di non lasciarsi prendere dalla fretta. Se ci sono impedimenti, occorre perseverare nel dialogo. L’opzione preferibile resta per noi quella di un governo di riconciliazione nazionale».

CORRIERE della SERA-Francesco Battistini: " Benedetto XVI combatte  la religione della violenza"

GERUSALEMME — Presidente, in Israele pensano che questo Papa sia stato troppo freddo. Che sia mancato il grande gesto...

«Non sono un critico teatrale. Credo che la cerimonia sia stata rispettosa. Quel che lei chiama mancanza di gesti, è una mancanza nell’organizzazione. Quando fai queste cose in pubblico, devi essere attento alla sensibili­tà delle altre persone. Certo, se il discorso dell’aeroporto l’avesse fatto a Yad Vashem, probabilmente sarebbe stato tutto diverso. Ma lui ha fatto un discorso forte al suo arri­vo e così, il terzo della giornata, è sembrato una ripetizione».

Il regalo di Benedetto XVI è già su una cre­denza, oltre le poltrone. Questa mattina, il primo appuntamento di Shimon Peres è con quattro militari, un blocco d’appunti giallo e una parola sulla copertina: «Iran». La crona­ca diventa subito storia, alla residenza di via Jabotinsky, e il bilancio sulla visita del Papa è da consegnare alla memoria: «Tutte le visi­te dei Papi in Israele sono più adatte agli sto­rici che ai giornalisti. Benedetto XVI ha tocca­to i temi più profondi del nostro tempo. Il nuovo antisemitismo, una malattia che la gente deve saper trattare. Il Papa ha preso le distanze, una voce chiara. Anche se il nostro problema, oggi, è questa confusione su Dio».

Confusione?

«C’è voluto molto tempo per passare dagli idoli a un solo, invisibile Dio. Pochissimo, per far diventare Dio il capo del terrorismo. Tutti i terroristi parlano in nome di Dio. Ab­biamo due dei: uno per la morte, l’altro per la pace. Oggi il problema non è distinguere fra Stato e Chiesa o fra ebrei, cristiani, musul­mani. Serve una netta separazione fra violen­za e fede. Non c’è spazio per la confusione e penso che questo Papa stia facendo il suo meglio, anche se purtroppo la gente non pre­sta attenzione a tutto quel che dice. Il punto non è se sbaglia una parola. Il punto è il con­fronto quotidiano, non teorico, con questi te­mi. Non ci sono solo pirati che prendono le navi: ci sono Al Qaeda e l’Iran che lo fanno nel nome di Dio. E Dio non ha mai detto che la cosa migliore da fare sia produrre ura­nio ».

Col Papa, avete parlato anche delle pro­prietà della Chiesa: il Cenacolo sarà final­mente nella piena disponibilità dei cattoli­ci?

«Ci sono sei luoghi, in Israele, di proprietà del Vaticano. Ci hanno chiesto di non confi­scarli. Abbiamo consultato i nostri esperti bi­blici e promesso che non li confischeremo, a meno che ci siano pubbliche necessità. Esat­tamente come faremmo con le moschee».

I cristiani si sentono emarginati, qui...

«C’è un problema in tutto il Medio Orien­te. I cristiani si sono ridotti dal 20 al 2 per cento. Stavano in 23 Paesi, oggi hanno perso la maggioranza in molti posti. Uno Stato cri­stiano, il Libano, è sparito. Molte scuole so­no state chiuse. Noi abbiamo scelto di rispet­tare la libertà d’educazione: in Galilea, c’è un’università cristiana riconosciuta dal go­verno.

Non siamo Ahmadinejad che va in gi­ro con una mazzetta di soldi e compra tutto quel che è in vendita, dal Venezuela alla Boli­via. Non è questa la via: non hai bisogno d'una carta di credito, per credere in Dio».

Il Papa ha detto che ogni popolo deve sta­re nella sua casa: è la soluzione «due popo­li, due Stati», che Netanyahu sembra osteg­giare.

«Netanyahu non ha detto nulla. Neanche d’essere contro. Ha solo chiesto tempo. Il go­verno ha sempre sostenuto l’idea d’uno Sta­to palestinese, come il Papa e gli Usa. Ora possiamo discuterne, ma non dire che c’è un contrasto. Netanyahu andrà a Washington, non penso si cerchi un confronto aspro. Per quanto Israele sia preoccupato, l’amicizia con l'America è preziosissima. Dobbiamo capire che non siamo i leader nel mondo. E’ difficile essere modesti (ride), ma non ab­biamo alternative. Considerata la nostra di­mensione. L’Iran non è un problema d’Israe­le, è un problema mondiale. L’ho sentito di­re anche da Putin e da Obama. Ma la comu­nità internazionale è divisa. Se qualcuno di­ce sì e altri no, Ahmadinejad ci guadagna. Non sanno quanto sia pericoloso: è l’unico leader del mondo che vuole distruggere un altro membro dell'Onu. Solo una politica co­mune, con vere sanzioni economiche, può salvarci dal ricorso alle armi. Ora dicono che Ahmadinejad deve fronteggiare un’op­posizione. Ma guai a fare le previsioni del tempo, prima delle elezioni iraniane. C’è un proverbio cinese: se vuoi imparare a dise­gnare, disegna quand’è inverno. Senza fio­ri, gli alberi sono nudi. Bisogna guardare al­le cose iraniane con occhio invernale».

Obama si prepara a fare uno «storico di­scorso » al mondo islamico. Temete un cambio di politica?

«C'è un club di gente che ha sempre pau­ra, ma io non mi sono mai iscritto. I fanatici sono il nemico, non gli islamici. Non voglia­mo la guerra. Viviamo in un mondo di diffe­renze e oggi democrazia non è solo il diritto di essere uguali, ma l'eguale diritto di esse­re diversi. Se non permetti la qualità della differenza, non puoi avere democrazia. Lo­ro hanno diritto d'essere diversi, come ce l'ho io».

Non è la posizione di Lieberman, il mini­stro antiarabo...

«Non conosco un governo che abbia fatto le cose promesse prima delle elezioni. Non lo dico in modo negativo: bisogna fare una coalizione coi partiti e poi con la realtà. Pen­si a Begin. Diceva che non avrebbe mai cedu­to il Sinai. Era sincero. Ma non poteva preve­dere che una mattina Sadat avrebbe preso l'aereo e in un'ora sarebbe arrivato a Gerusa­lemme, cambiando il clima. I politici non possono voltare la schiena alla Storia. Non mi sarei mai immaginato che Sharon avreb­be accettato la soluzione dei due Stati, o la­sciato Gaza. L'ha fatto. Le situazioni evolvo­no, non stanno nel freezer».

Ha citato Gaza. Quattro mesi dopo la guerra, tutto è uguale a prima: il blocco, i razzi...

«Gaza non è un problema israeliano, è un problema arabo. Israele ha messo limiti mol­to chiari a quell'attacco: abbastanza forte per­ché perdessero la voglia di spararci, non così forte da obbligarci a rimanere là. La guerra è una cosa complicata, a volte la situazione era impossibile: usavano ambulanze, moschee, bambini come scudi. La gente dimentica la differenza: quando la democrazia combatte il terrorismo, la democrazia è trasparente, il terrorismo è un mondo segreto. Non mi pia­ce vedere la gente di Gaza morire. Ma non capiamo perché continuano a spararci. Dico­no che siamo occupanti. Ma noi non siamo lì dentro. Può esistere un'occupazione platoni­ca? ».

LA STAMPA- Elena Loewenthal: " Su Poi XII un silenzio imbarazzante " intervista ad Avraham Burg.

In politica e nella vita civile ci sono personaggi significativi per la semplicità diretta del loro messaggio, e altri che hanno invece per cifra esistenziale la complessità. Avraham Burg fa parte di questa seconda categoria: nato nel 1955 in Israele, è figlio di Yosef Burg – uno dei fondatori dello stato ebraico, esponente del sionismo religioso, più volte illuminato ministro. La madre, cui egli ha dedicato «Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico» (uscito in italiano per Neri Pozza), proveniva da un’illustre famiglia di rabbini che vivevano a Hebron da molte generazioni. Avraham Burg è stato deputato laburista e presidente del Parlamento israeliano, la Knesset, oltre che fra i fondatori di Pace Adesso. Ritiratosi dalla politica, le sue posizioni hanno destato in questi ultimi anni reazioni assai accese, per l’autocritica nazionale a volte spietata che impongono. Burg invoca per Israele un’identità costruttiva, fondata sui valori ebraici, piuttosto che sulla memoria dello sterminio.
Qual è per Israele il significato di questa visita papale?
«È importante, direi. Ma non importantissima. Non rappresenta una svolta né un momento cruciale nei rapporti fra Israele e Vaticano, fra Israele e la cristianità. Altri passi sono stati fondamentali, e mi riferisco in particolare a: il documento Nostra Aetate, emesso dal Concilio Vaticano II nel 1965, che ha posto fine alla cultura del disprezzo verso i “perfidi giudei”. La prima visita di un pontefice – Paolo VI - in Israele, nel 1964. L’apertura di relazioni diplomatiche fra Israele e Vaticano, grazie a Giovanni Paolo II. Questi sono passi storici. Il documento Nostra Aetate ha avuto immense conseguenze sul profilo dogmatico e dei rapporti interreligiosi. La visita di Benedetto XVI è la terza di un papa in questi ultimi decenni: importante ma non storica».
In questo contesto, ritiene che abbia una valenza più politica o di carattere religioso?
«La prospettiva israeliana consente un certo distacco e un giudizio obiettivo. So bene che per voi europei e in particolare per gli italiani, questa visita comporta un grosso carico “emotivo”. È un papa tedesco. I suoi rapporti con il nazismo, in una precoce e passeggera fase giovanile, restano controversi. Inoltre, è recente la faccenda del vescovo negazionista Williamson. E c’è il silenzio di Pio XII che pesa alle spalle. Spesso poi si dimentica che questo papa, con le sue posizioni decisamente conservatrici, è anche connazionale di Martin Lutero, l’inventore della riforma. Tutto ciò contribuisce ad assegnare a questa visita un carico emotivo. Noi israeliani abbiamo invece un approccio più pragmatico, perché siamo al di fuori dalle questioni che riguardano la Chiesa e l’Europa. Quindi, la valenza politica di questa visita si vedrà in futuro, sulla base delle conseguenze che avrà. Per dirla con un vecchio adagio yiddish, la domanda resta per ora in sospeso: “Sarà un bene, per noi ebrei?”. Vedremo».
Nel suo libro lei invoca per Israele un’identità costruttiva, fondata sui valori umanistici dell’ebraismo, invece che sul dolore della memoria, sulla Shoah. È il mondo, non sono gli ebrei, a dover fare i conti con questa catastrofe. Per questo ha sempre guardato con perplessità al fatto che le visite ufficiali in Israele abbiano come prima tappa lo Yad Vashem. Che cosa pensa, della visita al memoriale di Benedetto XVI?
«È interessante quello che è avvenuto in questi giorni. E anche molto importante: forse è stato il passo più rilevante di tutta la visita. Ero all’estero: sbarco all’aereoporto di Tel Aviv e sento alla radio della visita del papa alla residenza presidenziale di Shimon Peres, a Gerusalemme. Poi arrivo a casa e mentre disfo i bagagli ascolto di nuovo il giornale radio, che mi racconta del papa allo Yad Vashem. Questa volta, dunque, il visitatore straniero è stato per prima cosa condotto alla residenza del presidente della nazione, e dopo al memoriale della Shoah. Quest’ordine di priorità mi pare molto, molto importante. Un passo significativo nel riconoscimento di Israele come entità politica, con una sua storia, un suo presente e un futuro. E solo in un secondo momento, l’omaggio dolente a quel passato di sterminio che lo Yad Vashem racconta. Se pensiamo che, sin dall’antichità, con la conquista di Gerusalemme e la distruzione del Tempio di Salomone da parte dei romani e l’affermazione del cristianesimo, Israele come entità nazionale costituisce una sfida teologica e dogmatica, quest’ordine di precedenza stabilito dal protocollo diplomatico assume un’importanza davvero fondamentale. E fa ben sperare, tanto per Israele e i confini della sua identità, quanto per il dialogo interreligioso».

LIBERO-Caterina Maniaci: " Benedetto XVI agli israeliani, abbattete il muro "

Giornata nei territori palestinesi per il Papa. E giorno in cui perora la “causa” di uno Stato palestinese, della fine dell’embargo per Gaza, ma soprattutto della fine dell’odio e della guerra tra i due popoli, con l’invito a riflettere sul fatto che « i muri possono essere abbattuti». Un’appello neanche troppo velato alle autorità israeliane, irritate per l’uso della parola “muro”, “wall” e non “fence” ossia “barriera protettiva” anti-kamikaze. Tuttavia il messaggio papale un effetto lo ha già sortito. Nel suo viaggio a Washington il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu potrebbe annunciare la revoca dell’embargo alimentare alla Striscia di Gaza, riferisce il quotidiano Haaretz. Un risultato importante, accolto con entusiasmo dai palestinesi, e dalla leadership dell’Anp che ha ospitato con calore il pontefice nella tappa di Betlemme.

«Sono consapevole, e così la mia gente, della posizione esemplare assunta dal Vaticano sulla questione palestinese in generale e su quella dei rifugiati in particolare», ha detto Abu Mazen il presidente dell’Autorità palestinese.

Il capo negoziatore dell’Anp, Saeb Erekat, non ha dubbi. «Le parole pronunciate da Benedetto XVI sono un appello per la fine dell’ingiustizia e dell’occupazione israeliana. Il Pontefice ha confermato che esiste un consenso ampio alla creazione dello Stato di Palestina. L'unico ostacolo a questa soluzione perciò è il governo israeliano», ha aggiunto l’esponente palestinese.

Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha ottenuto un ottimo risultato dalla visita papale e una visibilità accresciuta a livello internazionale. Lo stesso non si può dire per Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ma che è rimasta nell’ombra. Non stupisce quindi che il portavoce del movimento islamico palestinese, Taher Nunu, abbia sminuito il significato delle parole del Papa. «Benedetto XVI ha deluso le nostre aspettative - ha affermato - avrebbe dovuto chiedere uno Stato per i palestinesi e invece ha parlato genericamente di “patria”. In realtà questa visita in Terra Santa è servita al Papa solo per esprimere il suo appoggio a Israele e per chiedere perdono agli ebrei». Nunu è poi tornato sull'ormai noto discorso con cui Benedetto XVI tre anni fa a Ratisbona sembrò negare «ragionevolezza» all’Islam e criticò Maometto. «I musulmani si aspettavano le scuse del Papa che invece non sono arrivate, ciò conferma che la Chiesa di Roma non ha ancora cambiato la sua opinione verso la nostra fede», ha concluso il portavoce di Hamas.

IL GIORNALE-Fausto Biloslavo: " Fuga in massa dal Medio oriente, per i cristiani è rischio di estinzione"

Per nulla accurato il servizio di Fausto Biloslavo per quanto riguarda i cristiani in Israele. Se a Gerusalemme sono diminuiti, questo riguarda Gerusalemme est, ormai interamente abitata da musulmani. Eì da lì che i critiani se ne sono andati. Nella Gerusalemme fuori le mura, quella crostrita dagli ebrei alla fine dell' 800, i cristiani non vi hanno mai abitato. Diverso il discorso sulla città vecchia, quella entro le mura, ma la percentuale cristiana è sempre stata minima e non ha subito, in quella zona, nessun esodo. Questa realtà non c'è nell'articolo.

Dall’Irak metà della popolazione cristiana è fuggita di fronte alla violenze. In Libano non dominano più il Paese e in molti si sono trasferiti per sempre all’estero, a cominciare dalla Francia. Nella stessa secolare e vicina Turchia, che vuole entrare in Europa, sono sempre più dei paria. Pure a Gerusalemme, dove nel 1948 i cristiani erano un quinto degli abitanti, ora sono ridotti a uno striminzito 2 per cento. Il Papa in visita nella Terra Santa lo ha detto a chiare lettere parlando di «tragica realtà». Ai piedi del monte degli Ulivi ha denunciato «la partenza di così numerosi membri della comunità cristiana negli anni recenti».
In Medio Oriente un secolo fa il 20% della popolazione era cristiana. Oggi i fedeli di Cristo si sono assottigliati al 5 per cento, secondo il New York Times di ieri. «Benché ragioni comprensibili portino molti, specialmente giovani, ad emigrare, questa decisione reca con sé come conseguenza un grande impoverimento culturale e spirituale (...)» ha ribadito Benedetto XVI. «Desidero ripetere quanto ho detto in altre occasioni: - ha sottolineato il papa due giorni fa - nella Terra Santa c’è posto per tutti». Purtroppo la terra di Abramo e di Cristo si sta svuotando dei discepoli del Messia come nemmeno ai tempi precedenti alle crociate.
«Temo un’estinzione dei cristiani in Irak e nel Medio Oriente» ha tuonato Jean Benjamin Suleiman, l’arcivescovo cattolico di Bagdad. Circa la metà del milione e 400mila cristiani che vivevano in Irak se ne sono andati dall’invasione alleata del 2003. All’inizio li avevano presi di mira accusandoli di collaborare con gli americani. Poi i cristiani sono finiti stritolati nella guerra confessionale fra sciiti e sunniti. Chiese bombardate, rapimenti e religiosi barbaramente uccisi hanno segnato l’esodo dei cristiani. Nella zona nord, attorno a Mosul, i tagliagole di Al Qaida si sono accaniti contro i preti. A marzo dello scorso anno è stato rapito e ucciso l’ultimo arcivescovo.
Tra i palestinesi i cristiani avevano in passato posizioni di rilievo all’interno delle organizzazioni guerrigliere e nelle istituzioni di autogoverno. Da Gaza un esponente radicale di Hamas, l’ala fondamentalista islamica, ha osteggiato la visita del Papa in Terrasanta. La fuga dei cristiani riguarda pure la Cisgiordania, dove governa il presidente Abu Mazen, che ieri ha accolto Benedetto XVI a braccia aperte. Guerra e crisi economica favoriscono l’esodo. A Betlemme, dove sorge la Chiesa della Natività, i cristiani sono un terzo degli abitanti: per secoli erano stati l’80 per cento.
In Libano, dove sono un quarto della popolazione, hanno perso per sempre la loro antica posizione dominante. Il “nuovo” che avanza è rappresentato da Hezbollah, il partito armato della comunità sciita legato all’Iran. In Egitto il 10% di cristiani copti sono sempre più messi ai margini. Invece un tempo i cristiani erano ricchi e rispettati. Anche nella moderata Turchia, che vuole entrare in Europa, ci sono problemi. Un secolo fa erano milioni, ma oggi i cristiani raggiungono a malapena le 150mila anime. In Parlamento o fra le gerarchie militari non c’è un solo cristiano. La violenza nei confronti della comunità e dei preti, da parte di fanatici musulmani, è in aumento. Lo stesso presidente turco, Abdullah Gül, ha trascinato in tribunale un parlamentare che lo “accusava” di avere origini cristiane. Come se la fede in Cristo fosse un’offesa. Si sta peggio in Arabia Saudita, dove non si possono costruire chiese per legge. Negli altri Paesi del Golfo Persico i cristiani sono i lavoratori stranieri (soprattutto filippini) che non potranno mai ottenere la cittadinanza, perché vengono considerati dei paria.

IL GIORNALE-Andrea Tornielli: " Benedetto XVI a Betlemme, sì a una patria palestinese "
Come suo solito, Andrea Tornielli vede e sente solo quel che vuole. Non una parola sul dovere di Israele di difendersi dai terroristi che avevano fatto di Betlemme la loro base, praticamente alle porte di Gerusalemme. Dov'erano il Papa, con il contorno dei vari Tornielli, quando gli attentatori suicidi facevano saltare gli autobus in terrirtorio israeliano, dopo essere usciti tranquillamente da Betlemme ? Qualche invocazione domenicale in Piazza San Pietro ed ipocriti articoli per deprecare l'accaduto.  Ecco il pezzo:
I palestinesi che soffrono hanno trovato un amico e un alleato. Benedetto XVI ha trascorso un giorno a Betlemme, ribadendo il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato con confini certi. Ha auspicato che il muro di separazione fatto costruire dal governo Sharon dopo la seconda Intifada sia abbattuto, e ha invitato i giovani dei Territori a non cedere alla tentazione del terrorismo.
Papa Ratzinger attraversa in auto quella che gli israeliani chiamano «Porta d’onore» e i palestinesi «Porta della vergogna», perché da lì passano le jeep dei soldati per le rappresaglie nella West Bank. Negli occhi di Benedetto XVI si fissano le immagini del filo spinato, delle torrette di guardia, degli altissimi blocchi di cemento che compongono la barriera. La stessa immagine drammatica che fa da sfondo all’incontro con i rifugiati nella scuola del campo profughi di Aida.
Fuori dal palazzo presidenziale dell’Autorità palestinese, Ratzinger è accolto da Abu Mazen, che gli parla del «muro dell’apartheid». Poco dopo, all’inizio della messa nella piazza della Mangiatoia, sarà il patriarca Fuad Twal a dire che «finché ci sarà il muro non ci sarà la pace».
Fin dal primo discorso il Papa pronuncia parole inequivocabili: «La Santa Sede appoggia il diritto del suo popolo a una patria palestinese sovrana nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti». E spiega che una «coesistenza giusta e pacifica» può essere realizzata «solo con uno spirito di cooperazione e rispetto reciproco». Chiede «alla comunità internazionale di usare la sua influenza in favore di una soluzione» del conflitto, sperando che «i gravi problemi riguardanti la sicurezza» in Israele e nei Territori vengano «presto decisamente allegeriti così da permettere una maggiore libertà di movimento, specialmente per i contatti tra familiari e per l’accesso ai luoghi santi».
La libertà di muoversi è ciò che più manca qui. Duecentocinquanta erano i permessi richiesti dal parroco di Gaza per i cattolici della Striscia che volevano partecipare alla messa, ma il governo israeliano ne ha concessi solo 48. Fin dal primo discorso, Benedetto XVI ricorda le vittime di Gaza, e assicura le sue preghiere per loro. Poi lancia un messaggio giovani: «Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo».
Nella Piazza della Mangiatoia, accolto da circa 5000 fedeli, il Papa celebra la messa e nell’omelia chiede ai cristiani di essere «testimoni del trionfo dell’amore sull’odio, sull’egoismo, sulla paura e sul rancore». Nel pomeriggio, dopo una visita alla grotta della Natività, Ratzinger passa al Caritas Baby Hospital, l’ospedale pediatrico sostenuto dai vescovi tedeschi, al quale dona un respiratore per i nati prematuri. «L’aiuto umanitario – dice al termine della visita – ha un ruolo essenziale, ma la soluzione ad un conflitto come questo non può essere che politica».
Il culmine della giornata è l’incontro al campo rifugiati di Aida, nel cortile della scuola. Un gruppo di ragazzi canta e balla, portando in scena grandi chiavi nere, che simboleggiano il diritto al ritorno nelle proprie case, dopo la «nakbah», la «catastrofe» del 1948, l’allontanamento dai loro villaggi al momento della nascita dello Stato d’Israele. Due bambine recitano brani dell’opera di un poeta palestinese, interpretando l’urlo straziante rivolto a chi ha tutto da chi non ha nulla. Al Papa vengono consegnate le lettere dei genitori di due prigionieri palestinesi.
Benedetto XVI ascolta, applaude e risponde, riconoscendo la «legittima aspirazione» a uno «Stato palestinese indipendente». E cita il muro che campeggia alle sue spalle: «In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte è tragico vedere che vengano tuttora eretti dei muri». Come segno di vicinanza ai profughi, il Papa dona 70mila euro, destinati alla realizzazione di tre nuove aule nella scuola di Aida.
Nel saluto finale ad Abu Mazen afferma: «Con angoscia ho visto la situazione dei rifugiati, e ho visto il muro che si introduce nei vostri territori, separando i vicini e dividendo le famiglie». «I muri non durano sempre – conclude Ratzinger – possono essere abbattuti. Innanzitutto però è necessario rimuovere i muri che noi costruiamo attorno ai nostri cuori». È un appello lanciato al di là della barriera, alle autorità israeliane, «perché sia posta fine all’intolleranza e all’esclusione».

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