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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera - La Stampa - Il Giornale - Il Manifesto - L'Unità Rassegna Stampa
10.05.2009 Il discorso del Papa in Giordania
Cronaca di Giacomo Galeazzi. Interviste di Alessandra Coppola, Rolla Scolari, Francesca Paci, Geraldina Colotti, Umberto De Giovannangeli

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Giornale - Il Manifesto - L'Unità
Autore: Giacomo Galeazzi - Alessandra Coppola - Rolla Scolari - Francesca Paci - Geraldina Colotti - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «La fede non deve servire la violenza - Ora il dialogo può ripartire Gli estremisti sono nell’angolo - Così nel ’92 partì il dialogo Israele-Vaticano - Non può limitarsi a invocare la pace. Deluderà la gente - Ratzinger in difficoltà in cerca di alleanze -»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 10/05/2009, a pag. 14, la cronaca di Giacomo Galeazzi dal titolo " La fede non deve servire la violenza ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 9, l'intervista di Alessandra Coppola a Gilles Kepel dal titolo " Ora il dialogo può ripartire Gli estremisti sono nell’angolo ". Dal GIORNALE, a pag. 12, l'intervista di Rolla Scolari a Avi Pazner, ambasciatore d’Israele in Italia dal ’91 al ’95, dal titolo " Così nel ’92 partì il dialogo Israele-Vaticano ". Dalla STAMPA, a pag. 14, l'intervista di Francesca Paci a Tariq Ramadan dal titolo " Non può limitarsi a invocare la pace. Deluderà la gente ". Dal MANIFESTO, a pag. 9, l'intervista di Geraldina Colotti al politologo Jean Bricmont dal titolo " Ratzinger in difficoltà in cerca di alleanze ". Dall'UNITA' a pag. 23, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Hanan Ashrawi, parlamentare dell’Anp dal titolo " Noi palestinesi senza diritti. Il Papa lo ricordi " precedute dal nostro commento. Ecco gli articoli:

La STAMPA - Giacomo Galeazzi : " La fede non deve servire la violenza "

Altolà alla manipolazione ideologica della fede. «La religione si snatura ed è corrotta quando serve la violenza», ammonisce Benedetto XVI ad Amman appena dopo aver proclamato al Memoriale di Mosè «l'inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo». Nella seconda giornata del viaggio in Terra Santa, il Papa ha visitato la moschea Hussein accompagnato dal principe Ghazi, discendente diretto di Maometto, che a sorpresa e tra proteste integraliste lo ha dispensato dal togliersi le scarpe. Nel luogo sacro per i musulmani, coperto da spesse stuoie, il Papa «ha avuto un momento di meditazione ma non ha pregato», puntualizza il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi.
Nel 2001, a Damasco, nella prima visita di un Pontefice in una moschea, Giovanni Paolo II, come segno di rispetto, si tolse i mocassini per infilare fodere bianche ai piedi e lo stesso fece Benedetto XVI ad Istanbul nel 2006.
E’ «la manipolazione ideologica della religione per scopi politici il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e anche delle violenze nella società», denuncia Joseph Ratzinger davanti ai capi religiosi musulmani, al corpo diplomatico e ai rettori delle università giordane. Il nunzio apostolico, l’arcivescovo Francis Assisi Chullikat assicura che la Chiesa in Giordania sta svolgendo un ruolo molto attivo e la coesistenza pacifica, è evidente qui, può essere «un segnale di incoraggiamento» nella questione israelo-palestinese. Re Abdullah a Washington ha appena promesso a Obama una nuova bozza del piano saudita, portando in dote la disponibilità di Abu Mazen e della Siria. La decisione di entrare nel difficile scenario del Medio Oriente dalla porta della Giordania, fermandosi per tre giorni dove nel 2000 Giovanni Paolo II restò solo qualche ora, vuole valorizzare la comunità cristiana locale, premiare il re Abdullah per essere garante della libertà religiosa e appoggiare il tentativo giordano di mediare tra palestinesi e israeliani.
Ieri il Papa ha teso la mano all’ebraismo. Tra cristiani ed ebrei deve nascere «il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione». Il messaggio ai «fratelli maggiori», lanciato dal monte Nebo che schiude la porta della Terra Santa, assume un ulteriore significato per le recenti incomprensioni.
Intanto la Caritas e il Patriarcato di Gerusalemme protestano per gli ostacoli israeliani alla partecipazione dei cristiani alla tappa palestinese. L’incidente diplomatico più temuto dalla missione pontificia guidata dal segretario di Stato, Bertone, è una stretta di mano tra Joseph Ratzinger ed esponenti di Hamas della Cisgiordania. Dove è nato Gesù le incognite del viaggio-rompicapo sono simboleggiate dal convento delle suore missionarie del Cuore immacolato: malgrado le condanne della comunità internazionale, è tagliato in due dalla «barriera difensiva» israeliana, alta 9 metri e lunga 670 chilometri tra passaggi ai raggi X, gabbie metalliche, controlli di permessi e passaporti. Il sindaco di Betlemme è un cristiano, per tradizione, eletto con i voti di Hamas grazie ad un accordo del 2005.
Mercoledì, per entrarci, il Pontefice passerà nella doppia porta d’acciaio nel Muro usata dall’esercito. «Altro che porta d’onore», evidenziano al Patriarcato, infastidito dal palco ad Haida fatto rimovere dagli israeliani per non mostrare al mondo il Papa con alla spalle quel muro ritenuto dall’Anp la «prova più scandalosa» della segregazione. «La Santa Sede ha ceduto perché altrimenti il governo Netanyahu avrebbe bloccato i cristiani a Gaza», scuotono la testa gli organizzatori.
Mentre in Israele vengono completati i preparativi in vista dell’arrivo di Benedetto XVI, le autorità e i media indicano nel suo discorso nel Museo dell’Olocausto, Yad Vashem il momento più delicato del viaggio. «Ci aspettiamo che il Papa faccia riferimento alla Shoah e alla sua memoria, nel presente e nel futuro», afferma il direttore Avner Shalev, secondo cui, però, «non è possibile dimenticare la sua prima giovinezza nella Germania nazista».

CORRIERE della SERA - Alessandra Coppola : " Ora il dialogo può ripartire Gli estremisti sono nell’angolo "

Chiusa a Ratisbona, la porta si è ria­perta ad Amman. Con questo obietti­vo il viaggio di Benedetto XVI in Terra­santa è iniziato dalla Giordania, a que­sto scopo nelle parole del Papa l’accen­to è andato al ruolo spirituale del­­l’Islam come religione: la missione «ur­gente » del Vaticano, secondo Gilles Ke­pel, è «riavviare quel dialogo con il mondo musulmano che si era interrot­to, identificare i possibili interlocuto­ri. Riaprire la porta». Professore all’In­stitut d’études politiques di Parigi, tra i massimi studiosi occidentali di mon­do arabo, Gilles Kepel segue in questi giorni i passi del Papa in Terrasanta, e al tempo stesso — lo fa da anni —, re­gistra scosse e assestamenti tra gli isla­mici, con particolare attenzione ai fon­damentalisti.
Perché definisce questa missione «urgente»?
«Credo che Benedetto XVI abbia do­vuto affrontare una duplice sfida. Due malintesi: dal lato musulmano e da quello ebraico. L’equivoco con gli isla­mici si è cristallizzato intorno al discor­so di Ratisbona, mentre con gli ebrei è sorto dal tentativo di far tornare nel­l’alveo cattolico i lefebvriani, tentativo seguito dalle affermazioni negazioni­ste di monsignor Williamson. Per la Curia è urgente non apparire ostaggio di questi due malintesi, perché mina­no il magistero universale della Chie­sa, che rischiava d’indebolirsi soprat­tutto a confronto con il pontificato di Giovanni Paolo II».
Che differenza vede tra il Papa di Ratisbona e quello di Amman? E per­ché ripartire proprio dalla Giorda­nia?
«In Germania, nel 2006, aveva parla­to prima che come Pontefice, come cardinale Ratzinger, e col suo discor­so, citando l’imperatore bizantino Ma­nuele II Paleologo che criticava il profe­ta Maometto, aveva suscitato reazioni violente nel mondo islamico. Dopo Ra­tisbona, i teologi musulmani che gli hanno risposto per tentare di riaprire il confronto sono stati giordani, vicini alla casa reale hashimita. Per questo il Papa ha scelto la Giordania, consoli­dando Abdallah II nel suo ruolo di in­terlocutore del mondo musulmano».
Quali sono state tra gli islamici le reazioni alla visita di Ratzinger?
«Nell’ambiente salafita radicale, an­che giordano, la visita è stata bersa­glio di forti attacchi, soprattutto onli­ne, dal sito di colui che è al momento il principale ideologo jihadista, Abu Mohammed Al Maqdissi, dove vengo­no criminalizzati i musulmani che si sono mostrati pronti ad accogliere il Papa. Per gli estremisti, la visita di Be­nedetto XVI è stata un’occasione per tentare di mobilitare di nuovo il mon­do musulmano contro l’Occidente».
Con quali risultati? C’è stata una ri­presa del fondamentalismo, o gli ap­pelli alla jihad, come lei ha spesso so­stenuto, sono ormai sempre più con­finati nel mondo virtuale di Internet?
«Nei gruppi musulmani più mode­rati come lo statunitense Cair (Consi­glio per le relazioni americano-islami­che, ndr) le parole del Papa ad Amman sono state ben accolte. Oggi il radicali­smo jihadista ispirato da Bin Laden (a cui Al Maqdissi è intellettualmente molto vicino) non ha più la stessa for­za d’azione. Perché era focalizzato sul contrasto alla politica di George Bush e alla sua guerra al terrore, e adesso fa fatica ad adattarsi al nuovo discorso statunitense di apertura all’Islam por­tato avanti da Barack Obama, un presi­dente che ricorda regolarmente come suo padre fosse di religione musulma­na. In Giordania poi certo la venuta del Papa è stata anche usata dall’oppo­sizione jihadista per attaccare e scredi­tare i dirigenti che hanno accolto il Pontefice, in chiave di politica inter­na ».
Obama ha appena annunciato che farà un importante discorso al mon­do islamico dall’Egitto. Perché que­sta scelta?
«La politica di Obama verso il mon­do musulmano si fonda su tre grandi centri d’azione: Afghanistan-Pakistan, Golfo Persico e poi conflitto ara­bo- israeliano e Medio Oriente. Qui, i dirigenti arabi moderati come gli egi­ziani fanno fatica a difendere le pro­prie posizioni di fronte alla popolazio­ne dopo l’attacco di Israele a Gaza, da­vanti al quale sono stati impotenti. Par­lare al mondo islamico dall’Egitto si­gnifica sostenere il ruolo del Cairo co­me mediatore nel conflitto arabo-isra­eliano ».
Nel suo ultimo libro, «Oltre il ter­rore e il martirio» (Feltrinelli), affida all’Europa un nuova centralità, come intermediaria tra due «blocchi». In che modo?
«Mi sembra che oggi il fatto che ci siano milioni di musulmani in Europa possa essere un fattore di progresso: se questi cittadini prendono parte alla civilizzazione europea possono rappre­sentare un modello per quelli rimasti a Sud e a Est del Mediterraneo, e con­tribuire così a ridurre la tensione tra il blocco cristiano e il blocco musulma­no, da una parte e dall’altra, gettando ponti umani tra le sponde».

Il GIORNALE - Rolla Scolari : " Così nel ’92 partì il dialogo Israele-Vaticano " 

Che qualcosa sarebbe presto cambiato nelle relazioni tra il suo Paese e il Vaticano Avi Pazner, ambasciatore d’Israele in Italia dal ’91 al ’95, lo capì un giorno di primavera, quando incontrò Papa Giovanni Paolo II. Il Pontefice, racconta, lo ascoltò in silenzio. Era il 1992. La Chiesa e il governo dello Stato d’Israele firmarono un accordo diplomatico l’anno dopo. Ieri, dal monte Nebo, da dove Mosè - è scritto nella Bibbia - vide per la prima volta la Terra Promessa, Benedetto XVI ha parlato di «legame inseparabile» tra Chiesa cattolica e popolo ebraico.
Che cosa è successo in quegli anni?
«Sono stato io, in qualità d’ambasciatore israeliano, a negoziare relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Arrivai a Roma nel novembre 1991 e al primo posto sulla mia agenda c’era il tentativo d’aprire le porte al dialogo con il Vaticano. Mi misi subito al lavoro».
E cosa faceva? Chi incontrava?
«Mi vedevo con monsignor Jean-Louis Touran, ministro degli Esteri vaticano, con il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, e altri prelati. Per mesi cercai di fare progressi. Poi, qualcuno mi disse: “Forse il problema è teologico, tra cristianesimo e giudaismo, e non politico”. In questo caso, la situazione sarebbe stata molto difficile da sbloccare. Mi fu così consigliato d’incontrare il cardinale Joseph Ratzinger, allora a capo della Congregazione per la dottrina della fede. Ci andai».
E cosa le disse Ratzinger?
«Mi disse: “Non c’è assolutamente nessun problema teologico”. Fui incoraggiato dalle sue parole. Tornai da monsignor Touran: “Mi ha detto che non si tratta di un problema teologico, ma politico. Quindi, perché non lo risolviamo?”. Soltanto il Papa, a questo punto, avrebbe potuto fare qualcosa. Chiesi un incontro con il Santo Padre. Non essendo ambasciatore in Vaticano, domandai un’udienza privata».
Come andò l’incontro con il Papa?
«Fui ricevuto da Giovanni Paolo II con mia moglie. Ci accolse in ebraico: “Shalom, shalom”, disse. Parlai del problema della Chiesa con il popolo ebraico, delle sofferenze degli ebrei in esilio. C’era stata da poco la conferenza di Madrid, nel 1991; in Medio Oriente c’era una nuova primavera politica. Dissi: “Hanno relazioni con noi India, Cina, Russia, persino Paesi arabi come l’Egitto. Non c’è nulla da temere”. Il Papa non parlò molto. Quando finii disse: “Quindi, ambasciatore, mi vuole dire che siamo i peggiori?”. “No, che siete gli ultimi”. Rise. “Nella nostra religione - aggiunse - gli ultimi saranno i primi”. Capii allora che c’erano speranze. Qualche settimana più tardi, Touran mi chiamò: “Il Santo Padre, dopo il vostro incontro, vorrebbe aprire negoziati con Israele”».
Questo è successo 17 anni fa. A che punto siamo oggi nelle relazioni?
«Oggi ci sono relazioni ufficiali. Benedetto XVI è già il terzo Papa a visitare la Terra Santa (dopo Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 2000, ndr). Karol Wojtyla è stato alla sinagoga di Roma: siamo molto lontani dalla triste storia passata».
Ma ci sono ancora tensioni e l’accordo del 1993 non ha risolto alcune questioni.
«Ora c’è un dialogo ed è più semplice risolvere i problemi. Ci sarà sempre un dibattito aperto tra noi e il Vaticano. Loro hanno interessi religiosi in Israele, noi controlliamo i luoghi sacri. Quando ci sono interessi religiosi e politici in campo, c’è dibattito. Quando diverse religioni convivono nella stessa terra, ci sono problemi. Ma con un dialogo aperto si possono risolvere».

La STAMPA - Francesca Paci : " Non può limitarsi a invocare la pace. Deluderà la gente"

Tariq Ramadan dichiara " Dal capo della Chiesa cattolica mi aspetto un richiamo alla morale, all’etica, alla responsabilità dei leader israeliani e al rispetto dei palestinesi. Non so se lo farà. Ma se tacesse sarebbe molto grave perché il suo silenzio verrebbe interpretato come un appoggio alla politica israeliana". Se il Papa farà un richiamo all'etica e alla morale, questo dovrebbe essere rivolto ai paesi come l'Iran che appoggiano e finanziano i terroristi di Hamas e Hezbollah per distruggere Israele e i suoi cittadini. Israele, ora governato dal tanto criticato Netanyahu, non fa altro che difendersi. Evidentemente, per Tariq Ramadan, l'unica opzione etica e morale per Israele è quella di lasciarsi cancellare dai regimi fondamentalisti, senza far nulla per impedirlo.
Quando Francesca Paci gli fa notare che a Betlemme i cristiani sono ridotti ormai al 12% della popolazione quando, fino a pochi anni fa, erano quasi la totalità, Ramadan risponde che i cristiani non sono perseguitati in tutti i Paesi islamici e che, comunque, nei Paesi del Maghreb la loro situazione è migliorata. Dopodichè afferma che : "  
Per quanto riguarda i cristiani palestinesi poi, hanno moltissimi problemi anche con lo Stato ebraico, dove la discriminazione delle altre fedi è la regola ". Quella del fondamentalista  islamico Ramadan è pura propaganda antiisraeliana,  che attribuisce alla democrazia israeliana, dove la libertà religiosa è assoluta,le discriminazioni che sono tipiche proprio dei paesi islamici. Ecco l'intervista:

Se parlerà solo di pace senza affrontare il nodo politico che strangola il Medio Oriente, il Papa avrà perso una grande occasione». Tariq Ramadan schizza da un areoporto all’altro, Londra, Lisbona, Parigi. Il 16 maggio sarà al Salone del Libro di Torino per presentare il suo ultimo saggio, La riforma radicale (Rizzoli). Attraverso il Blackberry ha seguito le parole di riconciliazione pronunciate da Benedetto XVI nella moschea di Amman: ora comincia la parte più difficile del viaggio pontificio. «La gente aspetta di sentire qualcosa di politico sul conflitto israelo-palestinese» osserva il filosofo. Docente di studi islamici alle università di Friburgo e Ginevra, ricercatore a Oxford, uno dei 100 maggiori intellettuali viventi secondo la rivista Time e certamente tra i più discussi, Ramadan è noto soprattutto come nipote di Hasan al-Banna, il fondatore dei Fratelli musulmani, il movimento islamico radicale egiziano.
Il Pontefice si è presentato in Medio Oriente come «pellegrino di pace». Perché crede che non sia sufficiente?
«Accetto il messaggio di riconciliazione, quello che sostiene ufficialmente il viaggio. Il Papa deve spiegare agli ebrei che non c’è antisemitismo nel mondo cristiano e ai musulmani si è già rivolto con profondo rispetto. Ma non può trattarsi solo di questo. Dopo l’offensiva israeliana a Gaza, l’affermazione elettorale della destra di Netanyahu e Lieberman, il blocco sistematico delle città palestinesi, tutti si aspettano che dica qualcosa in più, un discorso politico. Auspicare la pace non basta. Ormai il conflitto israelo-palestinese appare qual è, una guerra politica e non religiosa. Dal capo della Chiesa cattolica mi aspetto un richiamo alla morale, all’etica, alla responsabilità dei leader israeliani e al rispetto dei palestinesi. Non so se lo farà. Ma se tacesse sarebbe molto grave perché il suo silenzio verrebbe interpretato come un appoggio alla politica israeliana».
Nonostante i primi passi di Papa Ratzinger in Giordania appaiano una riparazione rispetto al famoso discorso di Ratisbona, quello che infiammò la piazza musulmana, diversi gruppi radicali islamici non sono ancora soddisfatti. Cos’altro dovrebbe fare?
«Negare l’evidenza è sciocco e infantile. Il Papa ha fatto retromarcia dal discorso di Ratisbona immediatamente dopo averlo pronunciato. E negli ultimi tre anni l’ha ripetuto continuamente, è andato in Turchia, ha ospitato giornate di dialogo interreligioso a Roma a cui anche io ho partecipato, l’ho sentito ribadire mille volte l’apertura verso le altre fedi in generale e l’Islam in particolare».
Eppure il Medio Oriente sembra rimpiangere il suo predecessore.
«Giovanni Paolo II aveva un approccio e un impegno diverso. Prendete le parole di Benedetto XVI in Giordania: dialogo, reciprocità, diritti delle minoranze, eguaglianza. Il nuovo Papa non si muove esattamente sulla traccia del predecessore che parlava invece di etica, compassione, valori comuni. Ratzinger è un teologo saldo sulle sue posizioni, si preoccupa del futuro del cattolicesimo in Europa minacciato dal laicismo e dalla crescita dell’Islam. Difende i valori cristiani tornando ai fondamentali e insiste sulla reciprocità non sul fare le cose insieme».
La situazione dei cristiani nei Paesi musulmani non è esattamente invidiabile: a Betlemme, dove all’inizio del 900 erano la quasi totalità della popolazione sono ridotti al 12%. Non crede che il Vaticano abbia qualche motivo di preoccupazione?
«Non dobbiamo demonizzare né ideologizzare. Nessuno nega la discriminazione dei cristiani in alcuni Paesi islamici, ma in altri, specialmente nel nord Africa, la situazione è migliorata negli ultimi tempi. Ne scrivo da anni. Ma come musulmano occidentale ho una posizione critica e costruttiva: la difficoltà delle minoranze in alcune regioni non può diventare la scusa per prendersela con noi, minoranza in Europa. Quasi che per compensare i guai delle chiese in Arabia Saudita si debbano chiudere le moschee a Roma. Per quanto riguarda i cristiani palestinesi poi, hanno moltissimi problemi anche con lo Stato ebraico, dove la discriminazione delle altre fedi è la regola».
Vede un ruolo per il Papa nel processo di pace israelo-palestinese?
«Si. Ma, a causa delle polemiche sulla sua gioventù sotto la Germania nazista, deve prima chiarire la posizione della Chiesa verso gli ebrei. Non si tratta solo di scusarsi ma di concedere un’apertura. Questo gli permetterà di assumere il ruolo politico per chiedere a Israele responsabilità morale e ai leader mondiali l’impegno per la realizzazione di due Stati. Il viaggio di questi giorni può andare nella giusta direzione ma anche in quella opposta. Se Benedetto XVI parlarà solo di pace la gente resterà delusa: deve assolutamente dire qualcosa sulla situazione politica».

Il MANIFESTO - Geraldina Colotti : " Ratzinger in difficoltà in cerca di alleanze"
Jean Bricmont, che ha  anche firmato appelli per togliere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroriste, dichiara che : "Oggi c’è un’ideologia laica, il sionismo, che funziona come un credo religioso intoccabile e tiene sotto ricatto chiunque voglia criticare le scelte dello stato di israele. Anche quando Israele non è minacciato ma minaccia. Nell’interesse della pace, bisogna liberare il pensiero e la nostra visione del Medioriente dalla paura di essere accusati di antisemitismo ". Israele è uno Stato ebraico. Chi desidera la sua distruzione e la morte dei suoi cittadini (ebrei in maggioranza) è antisemita. Quello dell'antisemitismo non è un "ricatto". E Israele non è una minaccia per i Paesi arabi. Il contrario, semmai. Tutta la sua storia, a partire dalla sua fondazione, è disseminata di conflitti iniziati dai Paesi arabi con lo scopo di eliminarlo. La minaccia dell'islam fondamentalista è reale, come pure l'antisemitismo. Non si tratta di due spauracchi volti a "impedire che si capisca che in Medioriente si è fatto pagare ai palestinesi i crimini commessi dall’Europa contro gli ebrei, e si cerca di zittire quelli che cercano di difendere le vittime di questa nuova ingiustizia". Israele, poi, non è stato fondato come risarcimento agli ebrei per la Shoah. Infine, mettere sullo stesso piano l'accusa di "deicidio" e la Shoah ( " Come se i giovani ebrei dovessero continuare a pagare per l’antico «deicidio»." ) rasenta la follia. Il "deicidio" è una calunnia religiosa, la Shoah è un fatto storico. Non ha nulla a che vedere con la realtà quotidiana dei palestinesi che sono oppressi, certo, ma dai terroristi di Hamas, non da Israele. Ecco l'intervista:
 
«Il papa inMedioriente dovrebbe ascoltare quei cristiani di base che, durante il massacro di Gaza, gli hanno scritto per chiedergli di condannare con forza Israele», dice al telefono lo scienziato e politologo belga Jean Bricmont, autore di un libro pluritradotto, L’imperialismo umanitario. Il papa in Medioriente ha cercato di recuperare le sue precedenti prese di posizioni sull’islam proponendo «un’alleanza di civiltà con il mondo musulmano » e, nonostante i suoi trascorsi antisemiti e la difesa delle frazioni più reazionarie della chiesa cattolica, andrà a visitare il Museo dell’Olocausto a Gerusalemme... Difficile vedere come un messaggero di pace un papa che, per le sue prese di posizione conservatrici, ha suscitato le proteste di tutte le chiese progressiste di base, difficile che riesca a conciliare quello che non riesca a conciliare neanche dentro la sua chiesa. Io non sono un esperto, ma certo la diplomazia vaticana deve superare qualche imbarazzo. Penso, però, che questo papa sta cercando di contrapporsi in questo modo alla forza dell’islam, un’altra grande religione monoteista che non ha conosciuto la crisi di vocazioni che invece conosce la chiesa cattolica. Cerca a suo modo di spostare la barra verso le posizioni più retrive per cercare di preservare la sua religione dalle contaminazioni. Infatti, tutte le volte che la religione cattolica si è aperta al contributo della sua base che cercava di farsi carico delle implicazioni sociali del messaggio cristiano, non è risultata vincente rispetto al progetto di società del socialismo. Vale lo stesso per imolti cristiani che protestano, in Iraq comein Palestina, contro le aggressioni imperialistiche e contro il ricatto dell’antisemitismo». Lei ha scritto numerosi articoli in difesa della laicità, ma ha anche firmato appelli per togliere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroriste o per la difesa del diritto di espressione e di credo e contro le censure ed è stato attaccato per questo. Oggi c’è un’ideologia laica, il sionismo, che funziona come un credo religioso intoccabile e tiene sotto ricatto chiunque voglia criticare le scelte dello stato di israele. Anche quando Israele non è minacciato ma minaccia. Nell’interesse della pace, bisogna liberare il pensiero e la nostra visione del Medioriente dalla paura di essere accusati di antisemitismo. La visita di questo papa, che ha trascorsi antisemiti e si trova a suo agio incontrando l’ultradestra ebraica, che parla di conciliazione con i musulmanima difende a oltranza i principi della sua religione monoteista, mostra un paradosso che, spesso tocca anche parte della sinistra. La sinistra è sotto ricatto dell’antisemitismo. Agitare la minaccia dell’islam o lo spauracchio dell’antisemitismo hanno un’unica funzione: impedire che si capisca che in Medioriente si è fatto pagare ai palestinesi i crimini commessi dall’Europa contro gli ebrei, e si cerca di zittire quelli che cercano di difendere le vittime di questa nuova ingiustizia. Come se i giovani ebrei dovessero continuare a pagare per l’antico «deicidio». Penso che, quando si va in piazza per protestare contro le politiche israeliane e in sostegno della Palestina, più che esibire cartelli con su scritto: siamo tutti palestinesi (uno slogan che, al di là delle buone intenzioni, non esprime affatto la diversità della nostra situazione e della loro), bisognerebbe esibirne uno con su scritto: non siamo colpevoli dell’olocausto. La psicolo dell’antisemitismo porta ad accettare l’idea dell’unica democrazia esistente inMediorienteminacciata dai propri vicini. La lotta per la libertà d’espressione non è solo la difesa di una conquista antica e preziosa, ma anche quella per liberare il pensiero critico da decenni di propaganda pro israeliana. I due pesi e due misure sulle vignette contro Maometto e quelle contro il papa ci chiedono: fino a che punto siamo pronti a sacrificare i nostri principi più elementari di libera espressione?
 

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Noi palestinesi senza diritti. Il Papa lo ricordi "

Udg intervista Hana Ashrawi, "parlamentare e più volte ministra dell’Anp, prima donna ad essere portavoce della Lega Araba, paladina dei diritti umani nei Territori ". Se fosse sul serio "paladina dei diritti umani" scaglierebbe le sue invettive contro Hamas e il terrorismo palestinese in generale, invece che contro Israele che è uno Stato democratico.
Ashrawi dichiara : "
Il Papa vedrà con i suoi occhi a cosa è stata ridotta Betlemme: una città-ghetto, chiusa dal Muro; quel Muro che spezza in mille frammenti territoriali la Cisgiordania palestinese, dividendo villaggi, separando famiglie, distruggendo centinaia di ettari di terra, la nostra terra, coltivabili. Un popolo ghettizzato: questa è la condizione del popolo palestinese.". Quella che Ashrawi chiama "Muro" è una barriera difensiva per proteggere la popolazione israeliana dagli attacchi terroristici palestinesi. Non "spezza in mille frammenti" la Cisgiordania, e non ghettizza la popolazione palestinese.
Riferendosi al nuovo governo israeliano afferma che : "
un governo il cui ministro degli Esteri (Avigdor Lieberman) ha più volte sostenuto di non credere in una pace fondata sul principio dei due Stati, entrando di fatto in rotta di collisione con l’amministrazione Obama". Con questa dichiarazione Ashrawi dimostra di non aver mai ascoltato un discorso di Lieberman nè uno di Netanyahu, o di volerne distorcere deliberatamente il senso. Lieberman, infatti, ha dichiarato di non sentirsi vincolato da Annapolis perchè mai approvato dalla Knesset, ma di appoggiare la Road Map. Netanyahu nel suo discorso all'AIPAC (riportato nella rassegna di IC, è possibile leggerlo nell'archivio) ha spiegato attraverso quali approcci avrebbe lavorato alla nascita di uno Stato palestinese a fianco di quello israeliano.
Naturalmente Udg si è guardato bene dal far notare questi fatti alla sua intervistata. Fornire informazioni oneste e accurate non è il primo obiettivo dell'UNITA' e di Udg. Ecco l'intervista:

Il Papa parla di dialogo, di comprensione; auspica una pace ragionevole. Reclama giustizia e dignità per la Terrasanta. Dignità e giustizia è quello che noi palestinesi cerchiamo da tempo, per le quali ci battiamo. Ma dignità e giustizia sono state calpestate a Gaza, dove un milione e mezzo di palestinesi sono costretti a vivere isolati dal mondo, rinchiusi in una enorme prigione a cielo aperto; dignità e giustizia non crescono all’ombra del Muro edificato da Israele in Cisgiordania. Benedetto XVI non chiuda gli occhi di fronte a questa tragedia». La visita del Papa in Terrasanta vista da da una delle figure più autorevoli della dirigenza palestinese: Hanan Ashrawi, parlamentare e più volte ministra dell’Anp, prima donna ad essere portavoce della Lega Araba, paladina dei diritti umani nei Territori.
Il Papa ha iniziato la sua missione in Medio Oriente. La Santa Sede mette l’accendo sul carattere pastorale della visita…
«In nessun luogo al mondo come in Medio Oriente religione e politica sono indissolubilmente legati. Ogni parola del Papa sarà valutata in questa doppia chiave. Benedetto XVI auspica il dialogo, sottolinea la necessità di operare per una pace ragionevole, evoca i diritti dei popoli. Ma c’è un popolo i cui diritti sono negati, calpestati: è il popolo palestinese. Una verità storica che non può essere oscurata dagli errori compiuti dalla dirigenza di Fatah e dalla falsa alternativa di Hamas».
Il Papa visiterà Betlemme e uno dei campi profughi della Cisgiordania.
«Il Papa vedrà con i suoi occhi a cosa è stata ridotta Betlemme: una città-ghetto, chiusa dal Muro; quel Muro che spezza in mille frammenti territoriali la Cisgiordania palestinese, dividendo villaggi, separando famiglie, distruggendo centinaia di ettari di terra, la nostra terra, coltivabili. Un popolo ghettizzato: questa è la condizione del popolo palestinese. Una condizione che senza un deciso intervento della comunità internazionale, a cominciare dagli Usa, è destinata a peggiorare ulteriormente visto l’interlocutore con cui abbiamo a che fare…».
A cosa si riferisce?
«Al governo dei falchi e dei coloni guidato dal duo Netanyahu-Lieberman. Un governo che ha chiaramente affermato di non sentirsi vincolato dagli accordi fin qui sottoscritti, un governo il cui ministro degli Esteri (Avigdor Lieberman) ha più volte sostenuto di non credere in una pace fondata sul principio dei due Stati, entrando di fatto in rotta di collisione con l’amministrazione Obama».
Lei ha una visione decisamente pessimistica della nuova leadership israeliana, in particolare di Lieberman…
«Pessimistica? Direi realista. Su Lieberman non potrei dire di più e di meglio di quanto recentemente affermato dall’ex presidente della Knesset (parlamento israeliano, ndr.) Avraham Burg: Lieberman è una minaccia evidente per la democrazia israeliana, ha detto. Per la democrazia israeliana e per il rilancio del processo di pace, aggiungo io».
A ricevere a Betlemme Benedetto XVI sarà il presidente dell’Anp, Abu Mazen. Un leader dimezzato, secondo molti.
«Non da oggi mi batto per un rinnovamento profondo della classe dirigente palestinese. Non è solo un problema di nomi, ma dei meccanismi di selezione. È un problema di democrazia. Ma esercitare la democrazia senza uno Stato, in un regime di occupazione, è un’impresa ardua per tutti».
Israele chiede al Papa parole chiare contro il negazionismo.
«Ho sempre condannato le tesi negazioniste, soprattutto quando esse vengono mascherate da una solidarietà strumentale con il popolo palestinese. L’antisemitismo non deve avere mai diritto di cittadinanza nelle nostre fila. La nostra lotta è per uno Stato in più, quello palestinese, e non per uno in meno, lo Stato d’Israele. Ma la destra oltranzista israeliana non può usare l’Olocausto per rivendicare una legittimazione a priori di ogni atto di forza compiuto da Israele. La tragedia dei lager nazisti non giustifica lo scempio di vite umane compiuto a Gaza. Mi auguro che il Papa sappia trovare le parole per affermare questa doppia verità».
 
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