domenica 19 maggio 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






Panorama - La Repubblica Rassegna Stampa
23.03.2009 Sulle divisioni interne delle fazioni palestinesi e sulla ricostruzione di Gaza
L'analisi di Fiamma Nirenstein e due critiche ad Alberto Stabile

Testata:Panorama - La Repubblica
Autore: Fiamma Nirenstein - Alberto Stabile
Titolo: «Duello per cinque miliardi - Israele replica a Hamas 'Su Shalit trattiamo ancora' - La sfida dei maratoneti di Gaza, una corsa per superare la guerra»

Riportiamo da PANORAMA n° 13 del 20/03/2009, a pag. 98, l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo " Duello per cinque miliardi " e da REPUBBLICA di oggi, 23/03/2009, a pag. 12, due articoli di Alberto Stabile titolati " Israele replica a Hamas 'Su Shalit trattiamo ancora' " e " La sfida dei maratoneti di Gaza, una corsa per superare la guerra ".

PANORAMA - Fiamma Nirenstein : " Duello per cinque miliardi "

C’è un piccolo particolare che non funziona nelle trattative fra Hamas e Al-Fatah per tornare a governare insieme: la prima organizzazione non intende rinunciare al suo punto programmatico principale, la distruzione di Israele, anzi intende distruggere anche l’Olp, di cui Al-Fatah di Abu Mazen è il cuore politico. L’ha detto il 28 gennaio il suo leader Khaled Mashaal in Qatar e nessuno l’ha smentito. Le due fazioni palestinesi rivali nel dialogo mediato dall’Egitto sono riuscite a dichiarare in coro che vogliono le elezioni nel gennaio del 2010, ma sul resto, salvo che sul fatto che con la riunificazione sarebbe più facile ottenere la gestione dei 5 miliardi di dollari donati per la ricostruzione di Gaza dal consesso internazionale, non c’è né accordo né simpatia.

Non c’è neppure dentro Al-Fatah, o fra l’Hamas all’interno della Striscia e quella all’esterno, ovvero Khaled Mashaal, che sotto il diretto controllo iraniano siede a Damasco. Basta uno sguardo dentro Gaza per vedere che, nella confusione del riassetto postbellico, il primo ministro Ismail Haniyeh è circondato da un’opinione pubblica che ha pagato la politica di Hamas con oltre 1.000 morti e vorrebbe almeno vedere il ritorno a casa dei prigionieri, su cui si tratta in cambio del soldato Gilad Shalit, in cattività da quasi tre anni. Si parla di liberare ben 750 prigionieri, forse anche 1.000, molti, come si dice in Israele, con le mani macchiate di sangue.

Eppure, il soldato Shalit è il cuore della società israeliana. Dunque si procede, ma su alcuni nomi Israele proprio non ci sta. E Mashaal da Damasco ha ostentato un volto da poker anche mentre la trattativa s’identificava con la conclusione del mandato di Ehud Olmert, perché il prossimo premier israeliano Benjamin Netanyahu è ritenuto molto meno disponibile.

Al-Fatah a sua volta è spaccata: quando Salam Fayyed, il primo ministro, si è dimesso, sostenendo di voler così lasciare la strada libera a un governo di unità nazionale che la sua figura di tecnocrate filoccidentale ostruiva, tutta la Cisgiordania ha sorriso. I palestinesi sanno che Fayyad, ritenuto da Hamas poco meno che una spia degli americani e degli israeliani, può costituire un pegno da parte di Al-Fatah. Ma non ignorano la seria spaccatura esistente fra Abu Mazen e Fayyad.

Il primo è il rappresentante della vecchia guardia, memoria storica dell’intifada. Il secondo, faccia nuova con ambiguità notevoli (fra cui quella di non disdegnare il consenso dei gruppi duri, solo teoricamente disarmati da Abu Mazen), calamita tuttavia, con la sua fama di tecnocrate trasparente, le speranza di pace.

Non a caso la briglia delle forze militari e di polizia addestrate dagli Usa in Giordania per aiutare l’Autonomia contro Hamas (P.A. National security force) è finita in mano a Fayyad. Invece Abu Mazen controlla la guardia presidenziale. Queste forze si alleano di volta in volta con altre milizie armate, che diventano minacciose o amichevoli a seconda delle circostanze: un difficile equilibrio. Inoltre Abu Mazen e Fayyad sono sostenuti da gruppi economici con interessi, si dice, anche nell’ambito della telefonia cellulare.

Data la confusione, l’incertezza, le pressioni iraniane, l’improbabile unità sostanziale, Hamas e Al-Fatah potrebbero negoziare un accordo temporaneo per gestire i 5 miliardi donati al Cairo. Perché i paesi del Golfo hanno già detto che, data l’inconciliabilità delle parti, apriranno un ufficio per gestire la ricostruzione in proprio. È un compromesso fra l’Arabia Saudita, che riconosce solo l’Autonomia, e il Qatar che, dalla guerra di Gaza, sta con Hamas

La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " Israele replica a Hamas 'Su Shalit trattiamo ancora' "

 Stabile scrive, riferendosi alle trattative per la liberazione di Gilad Shalit : "Con vari gradi d´urgenza, i dirigenti islamici si dicono pronti a sedere al tavolo delle trattative." . A dire il vero le trattative sono fallite per le richieste inaccettabili di Hamas che, per altro, non è dell'idea di cedere di un millimetro. Hamas non sta trattando con Israele, la sta ricattando per far rimettere in libertà un migliaio di terroristi.
Stabile sostiene che i leader di Hamas si stiano aprendo, ma non è ben chiaro a cosa. Basta leggere l'intervista pubblicata ieri da REPUBBLICA (criticata da IC): Hamas continua a desiderare la distruzione di Israele, incolpa Olmert del fallimento della trattativa per liberare Shalit, pretende la scarcerazione di un numero ingente di terroristi palestinesi...sono le stesse posizioni di sempre. Quale sarebbe l'apertura? Ecco l'articolo:

GERUSALEMME - Lo spettro di un nuovo tipo di terrorismo, senza kamikaze e senza bellicose rivendicazioni, ma votato a destabilizzare il fragile equilibro etnico del Paese, è apparso ieri a Haifa, la città della convivenza possibile tra arabi e ebrei, sotto la stessa bandiera israliana. L´autobomba, non esplosa per un mal funzionamento dell´ordigno, scoperta davanti a un centro commerciale ha dominato il Consiglio dei ministri assieme ad altri due temi che da giorni magnetizzano l´attenzione della pubblica opinione: le aperture dei dirigenti di Hamas (in primis l´intervista di Khaled Meshal a Repubblica) per riprendere i negoziati sulla liberazione del caporale Gilad Shalit e lo scalpore suscitato dalle rivelazioni del soldati di Tsahal che hanno partecipato all´operazione «piombo fuso».
Se un filo corre tra questi eventi così diversi e apparentemente lontani, esso riconduce al vuoto di potere e d´iniziativa che in questo momento, e ormai da parecchie settimane, affligge la dirigenza israeliana. Una circostanza ideale per chi intende seminare il terrore sotto nuove forme, colpendo in quella giuntura estremamente sensibile della società israeliana che è la Galilea, di cui Haifa è in un certo senso la capitale.
Davanti alla sfida dei terroristi, che volevano la strage in uno dei più affollati shopping center della zona, qualcuno, tra i politici, ha evocato l´ombra degli Hezbollah, che non hanno mai spesso di riaffermare la volontà di vendicare l´uccisione del loro capo militare, Imad Mugnyeh. Altri hanno ipotizzato un coinvolgimento automatico di Hamas, mentre, per la prima volta dopo mesi, sembrano interrompersi i lanci di Qassam contro il Negev e il movimento islamico palestinese appare impegnato in un´offensiva diplomatica tendente a rilanciare il negoziato.
La bomba, piuttosto, sembra fatta apposta per esacerbare la tensione esistente da tempo tra le componenti più intransigenti della leadership arabo-israeliana e la destra ultra-nazionalista israeliana. Ma, quando si va al "cui prodest?" è meglio lasciare la parola agli inquirenti perché il raggio delle ipotesi sui possibili mandanti potrebbe risultare troppo ampio. Agli esperti, «I liberatori della Galilea», la sigla che ha rivendicato il fallito attentato, dice poco e nulla.
Quanto a Hamas, a parte l´apertura di Meshal al presidente americano Obama, il fine settimana ha registrato almeno un paio d´interviste del numero 2 del movimento, Mussa Abu Marzuk, un editoriale di Ismail Hanyeh sul giornale islamico Palestina, un intervento di Salah Bardawill, e una serie d´indiscrezioni lasciate trapelare sulla stampa araba. Il senso di queste uscite è uno solo: il negoziato per lo scambio di prigionieri che dovrebbe portare alla liberazione di Gilad Shalit, da mille giorni ostaggio di Hamas, e di mille prigionieri palestinesi rinchiusi nelle prigioni israeliane, non è fallito, ma è soltanto sospeso. Con vari gradi d´urgenza, i dirigenti islamici si dicono pronti a sedere al tavolo delle trattative. E questa disponibilità, conferma un portavoce del premier Olmert, secondo il quale i tentativi di liberare il caporale rapito non sono mai stati interrotti, ci sarebbe anche da parte israeliana.
Sulla stampa, intanto, si alternano nuove rivelazioni e smentite su una serie di crimini commessi da alcuni soldati israeliani verso la popolazione di Gaza, in occasione della recente guerra.

La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " La sfida dei maratoneti di Gaza, una corsa per superare la guerra "

L'articolo descrive la devastazione di Gaza, con gli edifici distrutti dalla guerra e le buche per terra. Curioso che a Stabile, così sensibile all'urbanistica deturpata dai missili, non sia mai venuto in mente di fare un servizio simile sulle città israeliane bombardate quotidianamente dai razzi qassam.
I veri artefici di questa distruzione, però, non vengono menzionati. Non si parla dei terroristi di Hamas e della loro responsabilità per la guerra, del fatto che gli aiuti umanitari destinati ai civili sono stati intercettati da loro e poi rivenduti, invece che distribuiti gratuitamente, del fatto che i famosi 5 miliardi di $ destinati alla ricostruzione non verranno erogati finchè Gaza sarà in mano ad Hamas ... Ecco l'articolo:

GAZA - Corrono a testa alta, lunga una strada cosparsa di voragini, affiancata da una fila di macerie. Alcuni indossano sofisticati costumi tecno da uomo ragno, altri non hanno neanche le scarpe. Pochi chilometri fa, sul rettilineo degli alberghi, hanno respirato a pieni polmoni l´aria pura del mare. Ma qui, tra i vicoli del Beach camp, prima della tirata finale verso il traguardo, il vento sbatte sulla faccia folate di frittura, di pattumiere piene e di scarichi a cielo aperto.
«Questa è la mezza maratona di Gaza, XVIII edizione», dice orgoglioso il vecchio Nabil Mabruk, presidente del Comitato Olimpico palestinese. E subito s´interrompe per incitare gli ultimi: «Corri, shabab, corri!», «Su quelle ginocchia, su!», grida, con l´autorevolezza di un coach che, cronometro alla mano, segue i suoi allievi ai bordi di una pista di tartan. Altro che tartan. Qui, per rendere meno dannosi alle caviglie gli ultimi duecento metri di percorso, hanno dovuto coprire sotto mezzo metro di sabbia le buche scavate dalla guerra. L´arrivo è previsto all´ombra delle rovine del Comitato Olimpico di Gaza, un bel palazzo moderno, come molti altri di questo quartiere residenziale chiamato Sudanìa, accartocciato su se stesso da un missile o da una bomba da mezza tonnellata. Vai a capire per quale motivo.
Persino correre, il più semplice e gratuito ed esaltante esercizio fisico che l´uomo conosca, è difficile a Gaza. Ma questo accresce il merito di Nabil, la sua fanciullesca ostinazione a pensare, organizzare, dirigere una manifestazione che, per quanto priva di quasi tutto ciò che ci vuole in questi casi, si richiama, comunque, allo sport. «Non abbiamo soldi, non abbiamo niente, ma che farebbero questi ragazzi senza la corsa? Droga, malavita, violenza» e qui si ferma non osando pronunciare la parola guerriglia. Vestiti da Superman, o ricoperti degli abiti raccogliticci dell´indigenza, alcuni sembrano uscire dal film neorealista Sciuscià, Nabil li conosce e li segue uno per uno. «Questo è il nostro campione del futuro», dice di Mohammed Abu Shmitani che, a 16 anni, corre i cento in 11,21. Il vecchio coach dai capelli bianchi e dalla pelle scura posa la manona sulle spalle del ragazzo e gli chiede: «Che fa tuo padre?». Risposta: «Niente». «E tuo padre?», chiede a Mohammed Abu Kusa, 1500 metri con tempi da record? Risposta: «Niente». «Vede quanta disoccupazione, quanta miseria, quante famiglie che dipendono dagli aiuti umanitari, mentre questi ragazzi dovrebbero avere la possibilità di mangiare, non solo nutrirsi, per potersi allenare».
Se nella metafora più ricorrente la striscia di Gaza è una gabbia, questi sono gli uccelli che hanno deciso di volare, anche se solo per andare a sbattere puntualmente contro la rete dei valichi chiusi. Nabil snocciola nomi, tempi, appuntamenti ed occasioni mancate. Ecco il campione per eccellenza, Nadil al Mashri, olimpionico a Pechino, oggi vincitore. «Dovrebbe andare a fine mese in Giordania per una gara importante. Ma da Gaza non s´esce».
Ecco, sorridente, velata e per nulla intimidita dall´essere l´unica donna fra 400 atleti maschi, Sana Abu Bakit. Lei è riuscita a gareggiare ad Atene, ha continuato e continua ad allenarsi. Poi, più nulla, ovvero: boicottaggio, guerra, chiusura. Andando in giro per Gaza, in questi giorni di «né guerra né pace», con la paralisi che blocca il negoziato sulla tregua e, connesso a questo, anche quello per la liberazione del soldato Shalit, si ha l´impressione che, nonostante le roboanti promesse di aiuti per miliardi di dollari i soldi non arriveranno tanto facilmente.
L´emergenza rischia di diventare definitiva. Le macerie, come le tende piantate ai bordi dei quartieri distrutti, una condizione permanente. Nella tendopoli di Salàtin, una delle otto erette nel nord della Striscia per i senzatetto, troviamo la terza generazione di discendenti dai profughi del �48, risospinti, 60 anni dopo, in un girone infernale dove «fortuna» è stare in 12 sotto a una tenda vicina ai bagni pubblici, perché poteva capitare di vedersene assegnata una all´ingresso del campo. «Non avrei mai creduto - dice Ahmed Kharma, 55 anni, contadino a giornata - che avrei dovuto subire la stessa sorte di mio nonno». Nel quartiere Abd Rabbo, uno dei più martoriati, due grandi capannoni dell´Unrwa e una postazione dell´Unifil, fanno in modo che le migliaia di senza tetto abbiano almeno due volte al giorno un pasto caldo e i bambini un po´ d´istruzione. Khaled Abd Rabbo è il padre delle due bambine, Amal di due anni, Saira di 7, uccise da un soldato israeliano dopo che tutta la famiglia era stata invitata a sgomberare la casa (poi distrutta). Una terza figlioletta è ricoverata in Belgio, paralizzata dalla cintola in giù. Khaled non s´allontana mai dalle sue rovine. Il dramma delle bambine l´ha memorizzato nel telefonino. Immagini raccapriccianti che fa vedere a tutti. «Se ero io che volevano, perché non hanno ucciso me, anziché loro?» Ma, come i ragazzi della mezza maratona, non tutte le vittime della guerra si attardano nella constatazione della propria miseria. C´è chi reagisce, chi non aspetta la manna dal cielo, chi si dà da fare.
Come Salah Sammuni, della famosa famiglia Sommuni, che in un solo attacco israeliano perse 29 componenti. Una tenda azzurra e un´altalena arrugginita e tutto quello che resta della casa di Salah. Ma in quello che fu il suo uliveto (120 alberi, capaci di dargli di che vivere per tutto l´anno) si lavora alacremente per pareggiare il terreno, impiantare nuovi alberi, stendere i tubi dell´irrigazione. Senza aspettare gli aiuti del governo di Hamas o del governo Fayyad congelati nel gioco d´azzardo del negoziato. A Salah è bastato per partire l´aiuto di un Ong, l´Agricoltural Relief Organizzation.
All´altro capo della Striscia, Majid Bumzhail, un palestinese d´orgine curda, ritenuto uno degli imprenditori più facoltosi di Gaza (marmi, edilizia, gas, benzina, olio d´oliva) non ha neanche bussato alle porte delle Ong. «Non dobbiamo chiedere misericordia a nessuno, soltanto a Dio e alle nostre mani», dice contemplando i sei ettari e mezzo della sua proprietà («i miei polmoni») un tempo il più ridente angolo della Striscia oggi ridotto a una landa desertica. Assieme ai suoi dipendenti, Majid ha recuperato parte degli alberi distrutti dai carri armati israeliani e li ha ripiantati. Perché «finché c´è verde sotto la corteccia l´albero è vivo». Ed infatti quei tronchi mozzati, sprofondati nella sabbia, hanno già gettato i germogli. Quelli irrecuperabili li brucerà, per fare carbone, «che si vende bene».

Per inviare la propria opinione a Panorama e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti


panorama@mondadori.it
rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT